”L’anno nero: la peste di Roma del 1656 fu, senza dubbio, uno degli avvenimenti meglio documentati di tutto il diciassettesimo secolo e la maggior parte delle principali storie politiche ed ecclesiastiche ne hanno fatto riferimento.
«La “morte nera”, la peste, questo nemico invisibile il cui solo nome fa rabbrividire e contro il quale non v’è rimedio confortante se non quello della preghiera, che natura ha? Si tratta di un castigo di Dio (una violenta fustigazione del corpo sociale peccante), discende da una maligna influenza degli astri, o ha origini più terrene?»[1].
La peste di Roma del 1656 fu, senza dubbio, uno degli avvenimenti meglio documentati di tutto il Diciassettesimo secolo e la maggior parte delle principali storie politiche ed ecclesiastiche ne hanno fatto riferimento. Stessa cosa può dirsi della corrispondenza diplomatica e delle memorie personali del tempo. Libri ed opuscoli che ne parlavano uscirono in gran numero e furono pubblicate molte stampe commemorative illustranti sia gli avvenimenti dell’epidemia sia le misure prese dai magistrati per alleviarla e per attuare i decreti speciali destinati a preservare l’Urbe dal contagio.
Il pontefice Alessandro VII si trovava a Castel Gandolfo quando seppe che a Napoli era comparsa la peste e che essa proveniva dalla Sardegna. Recatosi immediatamente a Roma, nominò come Commissario della Sanità il fratello Mario Chigi che aveva avuto, in precedenza, il merito di aver salvato dal contagio la città di Siena.
Fu poi creata una Congregazione della Santa Consulta – guidata dal cardinal Giulio Sacchetti il quale fu poi affiancato dal segretario Cesare Rasponi – che iniziò a riunirsi nel palazzo apostolico. Alessandro VII, allora, come ricordato dal Moroni «incaricò 4 idonei prelati, cui poi aggiunse due altri, per guardare d’ogni parte lo stato dal commercio co’ regnicoli infetti o sospetti; aumentò di 6 cardinali quella ordinaria della sanità, aggiunti ai 4 che la formavano; quindi istituì una congregazione de’ più attivi ed energici cardinali e prelati di esperienza ed altri uomini di valore, onde con maturo consiglio ed opera efficace si dedicassero alla salvezza universale e comune preservazione»[2].
Della Congregazione fecero parte «i prelati di fiocchetti governatore di Roma(1), uditore della camera, tesoriere e maggiordomo; il segretario di stato ing. Rospigliosi poi Clemente IX, il I° conservatore di Roma, il medico archiatro pontificio, il dotto e bravo Mattia Naldi, intimo amico del Papa, il fiscale ed alcuni egregi cavalieri riputati per senno»[3]. Alessandro VII, inoltre, chiamò a Roma Gregorio Barbarigo nominandolo immediatamente Prelato domestico di Sua Santità ed affidandogli diversi incarichi di responsabilità nel Tribunale della Segnatura Apostolica. Per comprendere quanta fiducia il pontefice riponesse nel Barbarigo basti pensare che, quando scoppiò la peste, Alessandro VII lo pose a capo della commissione incaricata di portare soccorso agli appestati. Fiducia ben riposta, a quanto si evince da molti documenti ufficiali e non solo, visto che, infatti, «Gregorio si dedicò a visitare i malati, seppellire i morti, aiutare le vedove e gli orfani»[4].
Malgrado le misure tempestivamente e preventivamente messe in opera dal pontefice, il morbo fece la sua comparsa a Roma. Come ricordano le cronache del tempo, mentre la peste uccideva a Napoli circa 2.000 persone al giorno, qualche bastimento portò il virus sulle spiagge di Civitavecchia e di Nettuno. Nel primo caso, la peste fu inizialmente arginata ma, nel secondo, il morbo non fu controllato e l’epidemia si estese irrimediabilmente fino a Borgo S. Lorenzo.
Come ricorda ancora il Moroni, fu allora che «ciò che pose Roma in sommo spavento fu un pescatore napoletano morto nell’ospedale del SS. Salvatore al Laterano, con segni epidemici, per aver praticato a Ripagrande con qualche compatrioto già infetto, prima che fossero poste in opera le decretate cautele. Il male si attaccò ad altre persone del Trastevere, onde si adoprarono le maggiori industrie per limitarne la diffusione e le conseguenze, anche per riguardo alle provincie dello stato»[5].
Nonostante ciò, la pestilenza iniziò a diffondersi nell’Urbe, che cercò, in qualche modo, di “difendersi” dal contagio: il 20 maggio la maggior parte delle porte della città vennero chiuse. A giugno furono chiuse anche le limitrofe città di Civitavecchia e Nettuno. Le case e i quartieri dove c’era anche solo un caso di peste vennero messi immediatamente in quarantena. Tribunali e collegi furono chiusi. Sospesi pure i servizi delle confraternite e le processioni, diversi conventi – tra i quali il monastero delle Carmelitane Scalze di regina Coeli della Lungara – furono minacciati di venire trasformati in lazzaretti[6].
Ignari delle vere cause del contagio, le autorità e le magistrature sanitarie romane – come quelle delle altre città italiane ed europee che avevano visto, negli anni precedenti, la propria popolazione decimata dall’epidemia[7] –, di fronte all’imperversare del contagio presero misure di isolamento, organizzando sia luoghi di contumacia o di cura, i lazzaretti, dove erano trattenuti i viaggiatori sospetti o i malati sia posti di blocco, delimitandoli con transenne oppure muretti, i cosiddetti “rastrelli”[8].
Tra le altre misure prese dalla Congregazione in nome di una sorta di «strategia concentrazionista»[9] va poi ricordato che: «Si statuirono le disinfestazioni per mantener vivo il commercio di lettere ed altro, il tutto profumandosi alle porte di Roma: pe’ grossi pieghi dei diplomatici assisteva un loro addetto, ed il denaro si gettava nell’aceto per sicurezza. Due vigne suburbane si destinarono a disinfettar le robe, cioè la Sannesio e la Colonna. I lazzaretti furono 5: quello di s. barolomeo per la cura dei colpiti dal morbo; i due fuori di porta s. Pancrazio in luoghi elevati, vale a dire uno presso la chiesa di detto nome, l’altro propinquo alla chiesina giù di s. Pio V, pei convalescenti. Il 4° venne collocato nel magnifico edifizio delle carceri nuove, fabbricato da Innocenzo X e compito con grossa spesa da Alessandro VII […] Il 5° lazzaretto si formò nel monastero di s. Eusebio de’ celestini, che furono trasferiti altrove»[10].
Dei cinque lazzaretti posti in essere per l’emergenza fu responsabile l’autore del Tractatus de auertenda et profliganda peste politico-legalis Girolamo Gastaldi[11] che, di fronte all’imperversare della peste decise di affiancare ad essi, per i casi sospetti di contagio l’ospedale della Consolazione – trasferendo gli altri malati al Santo Spirito – e quello di San Giovanni in Laterano.
Fin qui le disposizioni di “ordine pubblico” poste in essere dall’amministrazione pontificia. Ma anche da un punto di vista “religioso” la peste cambiò le abitudini quotidiane dalla città tanto che, Alessandro VII, dopo aver sospeso il foro e le congregazioni nonché dopo aver ridotto all’osso le adunate del concistoro «promulgò amplissimo giubileo universale, senza imporre processioni e visite di poche determinate basiliche per non accumunarvi gente; ordinò a tutte le chiese collegiali e conventuali analoghe orazioni, e vietò il concorso dei fedeli per l’ottavario de’ defunti alla chiesa di s. Gregorio, supplendo all’acquisto di quella indulgenza con private opere. In suffragio poi degli estinti fece celebrare infinite messe, ed in sulle due ore di notte o meglio ad un’ora ordinò che col suono delle campane maggiori si recitasse pei morti di peste, con indulgenza plenaria in forma di giubileo, certe orazioni e il De profundis, dovendosi ricevere la ss. Eucarestia; grazia che fu comunicata a diverse città dello stato ecclesiastico»[12].
Come confermato da molte cronache del tempo[13], allo scopo di evitare le numerose riunioni in cui si pensava fosse facile lo sviluppo del contagio, furono altresì sospese le «comunanze geniali, civili e letterarie»[14] e, al contempo, come ormai risulta confermato anche dalla recente storiografia[15], anche quelle sacre, come «le cappelle sacre, le processioni, le pie adunanze, le solennità della Chiesa»[16].
Va a questo punto ricordato che, il 7 aprile 1657, ricorrendo l’anniversario dell’elezione di Alessandro VII e calato il numero dei decessi, si pensò di festeggiare la fine del contagio e, per questo, venne anche cantato il solenna Te Deum nella cappella pontificia. I cardinali ripresero persino «i loro corteggi e carrozze»[17] ma, con l’arrivo dell’estate ed il riscaldarsi delle temperature, dopo poco più di un mese, ripresero i primi casi di peste. Solo più tardi, quindi, il Papa «nell’ottava della Natività di Maria tenne cappella nella chiesa del Popolo a rendimento di grazie, poscia a’ 24 settembre fu riattivato il commercio con le legazioni di Romagna, Bologna e Ferrara»[18].
Alla fine della seconda ondata di contagio a Roma si contarono ben 22.000 morti a fronte di una popolazione allora residente di 100.000 abitanti. Ai morti dell’Urbe se ne aggiunsero, poi, altri 160.000, casi, cioè, di decessi per il morbo registrati nelle altre città e nei piccoli centri dello Stato Pontificio[19]: complessivamente, nella Penisola la peste del 1656-57 provocò la morte di circa un milione di abitanti.
Sconfitta l’epidemia, per adempiere al voto promesso, Alessandro VII «consentì al senato e popolo romano che si votasse di collocare con maggior ornamento la miracolosa immagine di s. Maria in Portico, oggetto della generale divozione, cui avevano ricorso nelle pestilenze più Papi, massime Leone X e Adriano VI»[20]. Come ricordato ancora dal Moroni, «effettuato il voto nel dì della Concezione, lo eseguì poi con edificare la Chiesa di s. Maria in Campitelli ove Alessandro VII solennemente trasportò la prodigiosa immagine, alla cui intercessione erasi attribuita la cessazione della peste»[21].
Bibliografia
- [1] G. Cassiani, Medici, magistrati e filosofi contro i miasmi della peste. Ricerche in margine ad alcuni documenti sull’epidemia di Roma del 1656-57, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», a. XXIII, n. 46, n.s., vol. 23, del luglio-dicembre 1994, p. 214.
- [2] G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, Venezia, Dalla Tipografia Emiliana, 1840-1841, pp. 227.
- [3] Ibidem.
- [4] P. Savio, Ricerche sulla peste di Roma degli anni 1656-1657, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», a. XXVI, s. III, a. XCV, n. 1-4, del 1972, p. 113.
- [5] G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, cit., pp. 228.
- [6] M. Fumaroli, Nicolas Pissin et Sainte Françoise Romaine, Parigi, Edition de la Réunion des musées nationaux, 2001, p. 13.
- [7] Va ricordato, infatti, che solo qualche anno prima, tra il 1629 ed il 1631 fu l’Italia settentrionale ad essere devastata dalla peste e che poi, tra il 1652 ed il 1657 fu quella centro-meridionale a fare i conti con l’epidemia. In tal senso cfr. A. Corradi, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, Bologna, Forni, 1972-73 e L. Del Panta, Le epidemie nella storia demografica italiana, Firenze, Loescher, 1980.
- [8] Cfr. A. Pastore, Strutture assistenziali fra Chiesa e Stati nell’Italia della Controriforma, in AA.VV., Storia d’Italia, Annali vol. IX, La Chiesa ed il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino, Einaudi, 1986, pp. 431-465.
- [9] G. Cassiani, Medici, magistrati e filosofi contro i miasmi della peste. Ricerche in margine ad alcuni documenti sull’epidemia di Roma del 1656-57, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», a. XXIII, n. 46, n.s., vol. 23, del luglio-dicembre 1994, p. 202.
- [10] G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, cit., pp. 229.
- [11] G. Gastaldi, Tractatus de auertenda et profliganda peste politico-legalis eo lucubratus tempore, quo ipse Loemocomiorum primo, mox sanitatis commissarius generalis fuit, peste vrbem inuadente anno 1656 & 57. Ac nuperrime Goritiam depopulante, typis commissus, Bononiae, Ex camerali Typographia Manolessiana, 1684.
- [12] G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, cit., pp. 229.
- [13] Cfr. Card. Sforza Pallavicino, Descrizione del contagio che da Napoli si comunicò a Roma nell’anno 1656 e de’ saggi provvedimenti ordinati allora da Alessandro VII, Roma, Nel Collegio Urbano, 1937.
- [14] G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, cit., pp. 229.
- [15] Su tutte, oltre al già citato saggio di P. Savio, Ricerche sulla peste di Roma degli anni 1656-1657, cfr., E. Sonnino-R. Traina, La peste del 1656-57 a Roma: organizzazione sanitaria e mortalità, in AA.VV., La demografia storica delle città italiane. Convegno di Assisi (27-29 ottobre 1980), Bologna, Clueb, 1982, pp. 433-452.
- [16] G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, cit., pp. 229.
- [17] Ivi, p. 230.
- [18] Ivi, p. 230-231.
- [19] Cfr., Card. Sforza Pallavicino, Descrizione del contagio che da Napoli si comunicò a Roma nell’anno 1656 e de’ saggi provvedimenti ordinati allora da Alessandro VII, cit.
- [20] G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, cit., pp. 231.
- [21] Ibidem.
Note
(1) Prelato di fiocchetto si intendevano quattro particolari prelati della Curia romana. A far parte di questa carica erano:
- il vice camerlengo della Chiesa cattolica, fino al XIX secolo anche governatore di Roma;
- l’uditore generale della Camera apostolica;
- il tesoriere generale della Camera apostolica;
- il maggiordomo del papa.
Immagine “Trionfo della morte” di Pieter Bruegel. (1525-1569)
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