”La battaglia di Riga 1-3 settembre 1917. Studiarne le caratteristiche significa acquisire la chiave per capire il segreto dello sfondamento di Caporetto realizzato dagli austro-tedeschi meno di due mesi dopo sul fronte italiano.
– 1-3 settembre 1917 –
Precisiamo, a scanso di equivoci, che parleremo qui della battaglia terrestre per la conquista della città di Riga, in Lettonia, al principio di settembre del 1917, quale “coda” dell’offensiva Kerenskij(1) lanciata dall’esercito russo – e sarebbe stata l’ultima volta nel corso della Prima guerra mondiale – il 1° luglio, e della
controffensiva austro-tedesca che ne era seguita a partire dal 19 dello stesso mese, che aveva ricacciato indietro i russi per una profondità di 240 chilometri. Col nome di battaglia del Golfo di Riga, invece, gli storici militari designano uno scontro navale che si era svolto luogo nelle acque antistanti la città baltica due anni prima, dall’8 al 19 agosto 1915, allorché la Flotta d’Alto Mare tedesca (Hochsee Flotte) aveva tentato di penetrare nel golfo per distruggere la squadra russa che vi stazionava, e agevolare le operazioni per la conquista via terra della città, nel quadro della seconda fase della grande offensiva scatenata dagli austro-tedeschi sul fronte orientale, dal 1° maggio al 18 settembre e nota, nella fase iniziale, come battaglia di Gorlice-Tarnów. In tale occasione la flotta tedesca, minacciata anche dalla presenza di sottomarini britannici, oltre che da fitti sbarramenti di mine, aveva preferito non spingere a fondo l’azione intrapresa e rientrare nelle sue basi, lasciando la città di Riga nelle mani dell’esercito russo per altri due anni, sino appunto all’inizio di settembre del 1917.
Le linee russe si estendevano sulla riva settentrionale della Dvina, in una posizione naturalmente forte; il fronte orientale si era stabilizzato dopo il fallimento dell’offensiva Kerenskij, lasciando nelle mani degli Imperi Centrali tutta la Polonia, la Lituania e la Curlandia, occupate fin dall’estate del 1915. Nell’esercito dello zar si erano ormai largamente diffusi i frutti della propaganda bolscevica, specie dopo che Lenin era rientrato in Russia col vagone piombato messogli a disposizione dallo Stato Maggiore tedesco, e da Pietrogrado aveva lanciato le “tesi di aprile”, nelle quali, fra le altre cose, l’obiettivo della pace immediata aveva suscitato immense speranze sia nel popolo che fra le truppe. Ormai gli elementi disfattisti agivano alla luce del sole; molti ufficiali erano stati uccisi o cacciati dai loro stessi soldati; ogni reparto aveva eletto i propri soviet e la disciplina si era pressoché dissolta: si era giunti al punto che, se dai comandi superiori giungeva alle truppe in prima linea l’ordine di attaccare, i soldati stabilivano per mezzo d’improvvisate votazioni se eseguirlo
oppure no. Tutto ciò, unito all’ormai drammatica penuria di armi, munizioni e vettovaglie, nonché alla cronica disorganizzazione dei servizi, faceva sì che l’esercito russo, benché ancora numeroso, avesse di fatto cessato di costituire un efficiente strumento bellico. Vi erano quindi le condizioni perché un ulteriore sforzo offensivo
austro-tedesco realizzasse importanti risultati praticamente senza rischi e quasi senza perdite; eppure, la situazione sul fronte occidentale, dove i tedeschi erano fortemente impegnati contro i franco-inglesi (il caso volle che non sapessero nulla degli ammutinamenti nell’esercito francese, che avevano lasciato appena un velo di truppe disciplinate tra il fronte e Parigi) e soprattutto su quello italiano, dove gli austriaci avevano perso Gorizia nell’agosto del 1916 e l’altopiano della Bainsizza nell’agosto del ‘17, ed erano ormai a un passo dall’esaurimento completo delle loro risorse umane e materiali, di fatto imponeva di sospendere le operazioni sul fronte orientale e concentrare tutte le risorse ad Ovest e a Sud, dove si giocava la partita finale, prima che gli eserciti americani cominciassero ad affluire in Europa per sostenere lo sforzo dell’Intesa. E tuttavia, prima di chiudere i conti ad Est, i tedeschi avevano ancora una carta da giocare: tentare un esperimento per superare lo stallo della guerra di trincea, che da tre anni li teneva bloccati e sotto assedio nella fortezza Europa. Il comandante dell’VIII Armata, generale Oskar von Hutier, e il suo comandate generale dell’artiglieria, Georg Bruchmüller, erano due menti dinamiche e aperte alle novità, ben diversi dai fossilizzati comandanti come Foch, Haig, Nivelle o Cadorna, i quali non sapevano far di meglio che gettare a massa le fanterie in assalti sucidi di sapore ottocentesco contro l’insuperabile binomio mitragliatrice-reticolato. Essi avevano studiato un piano, semplice e geniale, per rompere il fronte della Dvina e impadronirsi velocemente di Riga, con il minimo delle perdite possibili: perché i comandanti delle Potenze Centrali tenevano alla vita dei loro soldati e cercavano di risparmiarle, per quanto possibile in quella tragica macelleria che fu la guerra di posizione, più di quanto ci tenessero quelli dell’Intesa, i quali, avendo a disposizione eserciti più numerosi, li trattavano spesso e volentieri come carne da canone.
Il piano era questo: una preparazione di artiglieria molto breve, ma assai concentrata, utilizzando anche proiettili a gas, e con un tiro reso più efficace dalla raccolta dei dati sensibili sulle postazioni nemiche nelle immediate retrovie, allo scopo di disorganizzarle al massimo; poi una rapida azione della fanteria, non a massa, ma in piccole formazioni ben equipaggiate e addestrate, le quali avrebbero dovuto sorprendere il nemico dove meno esso si sarebbe atteso l’attacco, cioè proprio dalla riva del fiume, e poi avanzare il più velocemente possibile, aprendosi la strada con le bombe a mano e le armi leggere, ma sempre sfruttando lo “schermo” della propria artiglieria, che avrebbe dovuto spostarsi in avanti mano a mano che venivano prese d’assalto la prima, la seconda e la terza linea di trincee. Tutto dipendeva dalla velocità dei movimenti, dalla decisione dei comandanti dei singoli reparti e dal perfetto coordinamento fra artiglieria e fanteria, nonché dal sangue freddo delle truppe. Un ulteriore elemento innovativo sarebbe stato la traversata mediante scialuppe d’un grande fiume, largo alcune centinaia di metri, praticamente sotto il naso delle postazioni e delle artiglierie nemiche mentre i ponti sarebbero stati gettati in un secondo tempo, per il passaggio del grosso.
Così riassume le fasi salienti di quella battaglia lo storico militare Gastone Breccia nel saggio 1917, Lettonia: la battaglia di Riga. Effetto sorpresa (in: A.A.V.V., Le più grandi battaglie della storia; vol. II, 1899-1939, Rivoluzioni e trincee, Mondadori, Focus Storia Wars, 2018, pp. 79-81):
Alle 4:00 del mattino del primo settembre le batterie di medio calibro aprirono il fuoco: per due ore esatte gli obici di Bruchmüller scagliarono oltre 20mila granate a gas sulle posizioni dell’artiglieria nemica e sulle seconde linee della fanteria, spandendo una miscela di gas urticanti e asfissianti, che causarono notevoli perdite tra i cannonieri russi meno addestrati all’uso delle maschere. Alle 6: iniziò il bombardamento dei cannoni a più lunga gittata, degli obici
pesanti e dei mortai da trincea, che erano stati concentrati in una brigata ad hoc forte di oltre 300 tubi di lancio di vario calibro. Il fuoco raggiunse la massima intensità verso le 9:00 del mattino: alle 9:10 esatte, le squadre d’assalto germaniche sfruttarono i varchi aperti dai genieri nei reticolati sulla sponda meridionale del fiume e spinsero le loro barche nella corrente, cominciando subito a remare freneticamente per attraversare alla massima velocità possibile i 300 o 400 metri che le separavano dalla riva opposta, dove le aspettava la prima linea di trincee russe. Era il momento più delicato della battaglia: nei loro osservatori avanzati, Bruchmüller, von Hutier e gli altri ufficiali dello Sato Maggiore dell’VIII Armata non poterono far altro che osservare col fiato sospeso le piccole imbarcazioni mentre svanivano nella nebbia leggera che tardava a dissiparsi, dirigendosi verso le nubi di fumo e terriccio sollevate dalle granate che continuavamo a martellare le posizioni nemiche. Dovettero attendere solo pochi minuti; ben presto i razzi verdi delle unità d’assalto cominciarono ad alzarsi in successione verso il cielo, segnalando l’avvenuta conquista della prima linea delle trincee russe. Bruchmüller diede immediatamente ordine di allungare il tiro, che doveva accompagnare l’ulteriore avanzata della fanteria attraverso la penisola di Üxküll: secondo i piani prestabiliti, i comandanti delle singole batterie germaniche acquisirono nuovi bersagli, concentrandosi soprattutto sulle vie di comunicazione e sui villaggi nelle immediate retrovie del fronte, dove erano stati individuati comandi tattici e concentramenti di truppe nemiche.
Nel frattempo i genieri lavoravano freneticamente alla costruzione di tre ponti sulla Dvina, che avrebbero consentito di trasferire sulla sponda settentrionale gli elementi avanzati di 9 divisioni di fanteria. I russi, frastornati e demoralizzati, non riuscirono a reagire con sufficiente prontezza; prima di sera la battaglia di Riga, l’ultimo grande scontro campale dell’intera guerra sul fronte orientale, era ormai decisa a favore dell’armata di von Hutier, che era riuscito a sorprendere il nemico e metterlo in fuga evitando contemporaneamente di esporre le proprie truppe a perdite
eccessive. La guerra di trincea del 1914-18 è stata paragonata dagli storici militari a una gigantesca operazione d’assedio. Il problema tattico fondamentale, nel 1917, era quello di superare questa situazione di stallo, determinata dal’enorme potenza di fuoco delle armi moderne – in primo luogo mitragliatrici e cannoni da campagna a tiro rapido – che aveva frustrato praticamente tutti i tentativi offensivi dal 1914 in poi. La soluzione non fu il frutto di un singolo “colpo di genio”, ma la somma di esperienze, intuizioni e innovazioni culminate in una serie di esperimenti messi in atto sui campi di battaglia, soprattutto dai tedeschi, a partire dalla seconda metà del 1916. Nell’ambito di questi progressi, il colonnello Georg Bruchmüller svolse un ruolo di primo piano, perfezionando l’impiego dell’artiglieria: la tempistica e l’intensità del bombardamento, la selezione degli obiettivi, e soprattutto la strettissima cooperazione con la fanteria – in modo che lo sbarramento di fuoco precedesse soltanto di poche decine di metri le unità d’assalto – vennero studiate nei minimi particolari e applicate con efficacia sempre maggiore. Non poteva bastare, naturalmente: se anche i generali di vecchia scuola si erano ormai rassegnati al fatto che, nella guerra moderna, “l’artiglieria conquista, la fanteria occupa”, il conservatorismo nell’impiego ‘en masse’ delle truppe vanificava sforzi e sacrifici, causando perdite spaventose. Bisognava invece capire che l’artiglieria poteva disorientare il nemico, interrompere le sue comunicazioni e fiaccare il morale delle truppe, ma la fanteria avrebbe poi dovuto sfruttare con la massima rapidità e agilità questi vantaggi momentanei lanciandosi all’assalto a piccoli gruppi e infiltrandosi oltre le prime linee, penetrando fino alle trincee arretrate dove avrebbe potuto sorprendere e neutralizzare le batterie nemiche e i posti di comando. A Riga queste nuove tattiche vennero utilizzate in misura molto limitata, anche perché il collasso della difesa russa fu più rapido e completo del previsto; ma nei mesi immediatamente successivi ci sarebbe stata una grande diffusione delle Stosstruppen, cioè di piccole squadre formate da soldati scelti addestrati al combattimento ravvicinato e dei loro metodi d’attacco.
Abbiamo detto che il piano era semplice, ma geniale. Perché geniale? Perché nessuno, fino a quel momento, fra gli strateghi dei due schieramenti in lotta, aveva osato mettere in dubbio il dogma
secondo cui la cosa più importante è assicurarsi il controllo delle posizioni dominanti, e il cui corollario è che un’unità lanciata all’attacco non può spingersi in
profondità senza assicurarsi un’adeguata e tempestiva protezione dei fianchi, pena il rischio di venir contrattaccata e tagliata fuori dalle proprie
linee, restando accerchiata. Ma tutte le esperienze della guerra mondiale avevano sino ad allora mostrato che ottenere la protezione dei fianchi significava rallentare la velocità dell’attacco e perdere così il vantaggio iniziale: laddove Hutier e Bruchmüller ebbero il coraggio concettuale di capire che non si potevano avere entrambe le cose, la protezione sulle ali e la possibilità di proseguire velocemente l’avanzata sino a realizzare il decisivo sfondamento strategico: costasse quel che costasse, bisognava rinunciare a una delle due. Decisero di rinunciare alla protezione dei fianchi e istruirono i reparti d’assalto affinché avanzassero con la massima decisione, senza preoccuparsi di quel che accadeva sui loro fianchi: perché il nemico, quando si fosse trovato sotto attacco nella seconda e terza linea, avrebbe perso la testa, si sarebbe scoraggiato e tutto il fronte avrebbe ceduto. Così fu, infatti: realizzato lo sfondamento sin dalle prime ore del 1° settembre, il giorno 3 le ultime resistenze della retroguardia russa venivano meno e i tedeschi entravano a Riga. Un mese e mezzo dopo, il 20 ottobre, con una brillante operazione terrestre e navale i tedeschi s’impadronirono delle isole di Ösel, Dagö e Mohn e con ciò delle chiavi del Golfo, assicurandosi una preziosa testa di ponte per un’ulteriore balzo in avanti su Pietrogrado. Ma non ce ne fu bisogno, perché la rivoluzione d’Ottobre liquidò il Governo Provvisorio e aprì la strada al trattato di pace di Brest-Litowsk del 3 marzo 1918. Studiare le caratteristiche della battaglia di Riga significa acquisire la chiave per capire il segreto dello sfondamento di Caporetto, realizzato dagli austro-tedeschi meno di due mesi dopo, sul fronte italiano. Fu la vittoria della tattica sulla strategia, dell’intelligenza sulla forza bruta: un bell’esempio di vera arte militare, in una guerra, quella del 1914-18, che fu così povera di condottieri intelligenti e così ricca di generali testardi, dalle idee antiquate, stupidamente aggrappati al terreno, in spregio all’idea essenziale di von Clausewitz: che lo scopo della guerra non è conquistare il territorio e neppure difenderlo, bensì distruggere il nemico.
Francesco Lamendola
Note
- (1) L’offensiva Kerenskij (conosciuta anche come offensiva di luglio o offensiva della Galizia) fu l’ultima offensiva lanciata dalla Russia durante la prima guerra mondiale ed ebbe luogo nel luglio del 1917. L’offensiva fu ordinata dal Ministro della Guerra del Governo Provvisorio Russo Aleksandr Kerenskij e fu guidata dal generale Brusilov. La decisione di lanciare questa offensiva non tenne conto del forte desiderio di pace che, a partire dalla rivoluzione di febbraio, si era man mano instillato nelle menti del popolo e, specialmente, nelle menti dei soldati russi, le cui capacità e volontà di combattere stava rapidamente scemando.
- (2) Carl von Clausewitz (Burg bei Magdeburg, 1º giugno 1780 – Breslavia, 16 novembre 1831) è stato un generale, scrittore e teorico militare prussiano. Maggior generale nell’esercito prussiano, combattente durante le guerre napoleoniche, è famoso per avere scritto il trattato di strategia militare Della guerra (Vom Kriege), pubblicato per la prima volta nel 1832, ma mai completato, a causa della morte precoce dell’autore. Quasi tutta la sua vita si svolse sotto il regno di Federico Guglielmo III.
Fonte Wikipedia
Immagine Generale tedesco Oskar von Hutier