”Si può spiegare l’amore? Se ami lo sai
AFFETTI AVVERSI
Si può spiegare l’amore? Se ami lo sai. In caso contrario ogni spiegazione è inutile. Lo stesso si può dire di ogni affetto o moto dell’animo. Pare quindi inutile disquisire su temi che riguardano i sentimenti. Si finisce sempre col provocare reazioni avverse, legate a sensibilità diverse e spesso contrastanti. Tale problema è poco sentito da quelli che nutrono in sé i medesimi affetti della maggioranza. Coloro faticano a capire chi, come me, è colpito da affetti avversi rispetto a quelli della società in cui vive.
Cercherò di tradurre il mio disagio in forma razionale, con un semplice sillogismo: a) la fiducia è la base di ogni sana relazione umana, b) io non posso più avere fiducia in questa società, c) quindi non posso più avere sane relazioni umane con questa società. Devo chiarire che per società non intendo individui presi singolarmente, ma una ‘governance‘ che ne decide la gestione e ne orienta le scelte. Ma ovviamente le persone che danno fiducia a queste istituzioni ne divengono complici, il che mi impedisce d’aver con loro positive interazioni umane.
Ci si può chiedere però se davvero (a) la fiducia è una condizione indispensabile per creare sane relazioni umane. Personalmente ritengo non si possano stabilire dei buoni rapporti con qualcuno che non ci ispira alcuna fiducia. E per quale ragione (b) io non possa più avere fiducia in questa società? Perché sono convinto che essa adotti un sistema di comunicazione assimilabile alla menzogna sistematica. E che sviluppi idee talmente aberranti che farne parte mi provoca sussulti di angoscia.
Non pretendo che tale spiegazione abbia i crismi dell’obiettività. Col tempo, infatti, anche la mia diffidenza verso tutto ciò che questa Società dice, propone, promette, è diventata sistematica, indurendosi in un pregiudizio negativo. Probabilmente mi mancano una disponibilità e apertura mentale sufficienti a trovare qualche vestigio d’umanità in un quadro sociale che sempre più mi ricorda gli allucinati scenari di uno Hieronymus Bosch.
Ad esempio, giorni or sono leggevo della proposta fatta da una filosofa norvegese di utilizzare l’utero di donne in “morte cerebrale” per la gestazione di feti altrui. Il motivo addotto è, come sempre, ‘umanitario’. Si tratta cioè di aiutare coppie che, per impedimenti naturali o perché la donna non vuole sobbarcarsi l’onere della gestazione, non riescono ad avere figli propri. Non sto a sottilizzare sulla natura o ‘contro-natura’ di queste coppie. Preciso anche che non voglio offendere la sensibilità di nessuno usando termini discriminanti come ‘uomo’, ‘donna’, maschio o femmina. Solo mi sembrano più sintetici di “animale umano con gameti xx o xy”, e d’altro canto vorrei evitare bizantinismi parasessuali.
Vi possono essere varie ragioni per cui alcune persone cercano di realizzare il loro sogno di ‘genitorialità’ per vie traverse, usando le sostanze germinali di altri o cercando una donna che faccia da incubatrice. I cinici parlano di “utero in affitto”, ma ufficialmente si preferisce vederlo come un atto d’amore o d’altruismo. Tuttavia, la dottoressa nordica trova poco etico e poco solidale, che una donna scarichi su un’altra i rischi e le fatiche della gestazione. Suggerisce perciò di utilizzare l’utero di donne cui è stata diagnosticata la cosiddetta “morte cerebrale” e della cui dignità e sensibilità nessuno si preoccupa più.
L’idea è tecnicamente realizzabile, e quindi rappresenta per ogni mente progressista una tentazione irresistibile, quasi un obbligo morale. Inoltre, ha il pregio di poggiare su due pilastri della nostra civiltà, razionalità e utilitarismo. A rifiutarla sono solo i reazionari e i deboli di stomaco, che trovano ripugnante l’ipotesi di impiantare un embrione nel grembo di una morta. Non tanto, io credo, per la vecchia questione del corpo femminile, sfruttato, ridotto a cosa, strumento meccanico, quanto per l’istintivo disgusto che nasce in chi più o meno volontariamente si identifica col nascituro. “Cosa mai proverà in quelle viscere senza vita?” si chiedono alcuni “e chi avrà il coraggio di dirgli, una volta cresciuto, che ha trascorso nove mesi nel ventre di una morta?”.
Non ho ricordi coscienti della mia esistenza prenatale. Molti fatti, testimonianze, intuizioni, sembrano tuttavia indicare che in quel periodo intercorra tra madre e figlio una serie di scambi affettivi, reciprocità di pensieri, sensazioni, sentimenti. Ora, quale flusso emotivo e sensoriale potrebbe mai unire un feto e una donna defunta, due esseri estranei, uno che viene alla vita e uno che se ne va? Può un bambino comunicare con un involucro inerte, semplice serbatoio di organi e tessuti? E una tale ‘convivenza’ non trasmetterà al bambino spaventose immagini dell’oltretomba, di un limbo senz’anima, di un vuoto nulla?
Non è facile esaminare la questione obiettivamente. Io stesso sarei incline a vedere qui un’orribile forma di violenza verso il bambino e verso il corpo della donna. Respingere l’idea di una madre-cadavere, mi pare l’effetto di un assioma aureo, fuso indissolubilmente nella nostra umanità. Tuttavia, benché condivida la condanna del senso comune, la trovo poco lucida. Non va a fondo, non mostra l’ubi consistam e i presupposti che forniscono alla proposta norvegese un’innegabile e pratica ‘ragionevolezza’.
Per comprenderlo bisogna partire dal fatto che molte donne, pur essendo in uno stato di “morte cerebrale”, hanno potuto portare a termine la gravidanza e partorire. Il perno su cui ruota il problema è dunque questo paradosso: una morta che genera un figlio. Questa è un’evidente assurdità, a meno di non sostenere che si possa esser vivi e morti contemporaneamente. Ma è appunto ciò che implicitamente afferma un paradigma di “morte cerebrale” che giustifica clinicamente e legalmente l’assurdo, lasciando che un’arbitraria opzione filosofica divenga finzione scientifica. È così che una donna, dichiarata ‘morta’, può ancora generare e partorire figli.
Il dogma della morte encefalica è in realtà un illusionismo semantico, infarcito di antinomie logiche ed etiche, creato per trasformare un coma, forse irreparabile, forse irreversibile, in diagnosi di morte. Questo escamotage fu ideato sul finire degli anni ’60 per strappare il cuore a persone vive (naturalmente “a fin di bene”) senza andare in galera per omicidio. E visto il favore ottenuto dal nuovo protocollo, alcuni vorrebbero estendere l’uso dello stesso trompe l’oeil alle persone in coma vegetativo, cui basterebbe diagnosticare un’ipotetica “morte della coscienza” per poter predare i loro organi. Dopo di loro, nella benemerita finestra di Overton, potrebbero rientrare le vittime di gravi handicap mentali, i soggetti gravemente autistici o schizofrenici, e un giorno, chissà, forse i senza tetto, gli scarti della società. Infatti, quelle che oggi ci sembrano invalicabili obiezioni etiche domani potrebbero apparirci pregiudizi retrivi.
È un fatto che l’espianto di organi da persone in “morte fittizia” è oggi comunemente accettato, sostenuto da una propaganda del “dono di sé”, del “ridare speranza”, della “vita che continua” ecc. Recentemente ho letto che “il trapianto di organi genera vita per l’eternità” (sic!). Imbambolata da questa retorica degli affetti, la gente non vi vede alcun controsenso intellettuale o morale, non vi riconosce il volto di una medicina disumanizzante, che tratta gli esseri umani come macchine e i loro organi come pezzi di ricambio. In realtà, quelli che protestano e vibrano in empatia col bambino in fieri, sembrano indifferenti alla sorte di quella povera donna in coma che, dopo aver tenuto nella pancia un bimbo per mesi, averlo nutrito e partorito, verrà immolata sull’altare della donazione, in un sacrificio cruento a vantaggio di chi aspetta un cuore o un fegato nuovo.
Quindi, se vuol dare l’assenso all’espianto dei propri organi, una donna dovrebbe sapere che in futuro potrebbe venir usata come utero vacante e disponibile. Non so se arriveremo un giorno ad affittare uteri di donne ‘morte’. Purtroppo, di fronte all’inesauribile capacità della nostra società di evacuare disegni sempre più disumani, stiamo sviluppando una sorta di nihil admirari, non ci meravigliamo più, siamo assuefatti e come anestetizzati. Occorreva quindi un solido ottimismo per aspettarsi che l’idea della madre-cadavere costringesse qualcuno a porsi domande elementari – del tipo: “com’è possibile che una morta possa restar gravida e partorire?” – e che potesse agire come salutare provocazione.
Ho ingenuamente pensato fosse questo il vero intento di una proposta tanto macabra e sgomentevole. La stessa filosofa norvegese sostiene infatti che, se si accetta la pratica moderna della donazione di organi, la sua idea rappresenta solo una “differenza di grado”. Lei stessa riconosce che “il paziente passa dall’essere al centro delle preoccupazioni mediche, all’essere un deposito di tessuti utilizzati a beneficio degli altri”. Ma questo non dovrebbe inquietare perché “fa già parte del nostro processo di donazione di organi”. In sintesi “se consideriamo la WBGD (donazione gestazionale dell’intero corpo) chiaramente oltraggiosa, ciò implica che abbiamo molte domande scomode a cui rispondere sul futuro della donazione di organi”.
È una posizione coerente: se non inorridiamo per l’espianto di organi da corpi vivi, perché scandalizzarsi per l’uso di quei corpi a scopi procreativi? La “madre-cadavere” potrebbe essere solo un primo passo. Perché non prelevare il seme da uomini “cerebralmente morti” per fecondare ovuli da impiantare successivamente nell’utero di donne anch’esse in “morte cerebrale”? Sarebbe il trionfo dell’amore che tutto vince, anche la morte! L’apoteosi di una società cerebrale, che tutto ricicla razionalmente.
Ho sperato quindi che la WBGD, nella sua mostruosità, aprisse gli occhi alla gente, obbligandola a vedere l’aberrazione implicita nei trapianti e nel loro arrogante retroterra pseudoscientifico. Ma in modo simile mi ero illuso che la gente non si bevesse le menzogne su pandemia, vaccini, green pass, emergenza climatica, guerra in Ucraina ecc., e che comprendesse cose ovvie per ogni essere pensante. Non ricordavo che l’essere pensante è ormai rara avis, e che il dimenticarlo induce amare disillusioni. La proposta norvegese suona ora come un insulto alla poesia e al romanticismo della maternità. Ma la maternità è già stata così barbaramente oltraggiata che, prima o poi, troveremo normale anche una “mamma-cadavere”. Non esiste un fondo da toccare, solo “differenze di grado”.
Perciò mi tengo il mio sillogismo e la sua amara conclusione, impotente a trovare motivi di fiducia in questa società. Essere ottimisti, oggi, mi pare come cercare la grazia del Beato Angelico in un infernale pannello di Bosch, tra omuncoli grotteschi ed esseri mostruosi. O forse è la mia mente a soffrir di cataratte, di una miopia intellettuale. La radice del problema è forse l’imperio dei miei preconcetti, delle mie associazioni mentali, retaggio di una cultura antiquata. Se leggo che in India un uomo ha partorito un figlio concepito col seme di una donna, ammetto di restar confuso, sbigottito. Devo nuotare contro corrente nei miei pensieri per spiegarmi il fatto che una donna si sia fatta operare per diventare un uomo (infatti nella foto, oltre al pancione ha la barba) ma abbia voluto conservare utero e ovaie; e che la sua o il suo partner – un uomo che ha deciso di diventare donna – le o gli abbia fornito il seme.
Lo trovo anomalo, contorto, e di primo acchito non mi è facile raccapezzarmi. Ma chi può spiegare l’amore? Il fatto di cui rallegrarsi, pare, è che è nato un bambino, o una bambina, non si sa, un nuovo animaletto umano con gameti per ora ignoti. I due genitori (mi dispiace usare il maschile ma non trovo un termine neutro) hanno deciso infatti di non rivelarne il sesso. Sarà lui-lei a decidere quale sesso scegliere, se mai vorrà avere un sesso.
Ah, quante volte dovrei maledire questo vocabolario che mi vincola a convenzioni obsolete! La madre e il padre, o il madre e la padre? Il vecchio linguaggio ormai è un impaccio. Se ne sta attonito di fronte ai costumi che cambiano ed evolvono, come davanti a una visione mistica, dissoluzione di forme. Perché meravigliarsi per un caso di procreazione invertita? La nostra veneranda civiltà non si basa forse su un concepimento incredibile? Forse la madre-vergine, la madre-cadavere, la madre-uomo, sono solo “differenze di grado” nella nostra società dell’amore.
Se non avessimo in noi radicati preconcetti, in quello che ci disgusta o atterrisce vedremmo forse sfumature diverse d’altruismo e di carità. Prendete quella proposta canadese che favorisce l’eutanasia dei detenuti e di quei minori che, con o senza il consenso dei genitori, vorrebbero morire. Sembra orribile, ma riflettiamo. Che senso ha una vita da carcerato? E un bambino non ha il diritto di decidere? Questa procedura, che amorevolmente vuol aiutare reclusi e bambini a suicidarsi, si chiama Medical Assistance in Dying (MAiD). È curioso come il male ami le sigle: l’AIDO, la WBGD, MAid, LGBTQ+, NATO, OMS, WEF, HAARP, OGM, ONG ecc… Ma chi può dire cosa sia “il male”? In fondo quelle sigle son come formule magiche che vorrebbero cambiare, rendere migliore il mondo. Gli è che in me provocano interni malori, una pletora di affetti avversi.
5 marzo 2023