Il discorso teologico nella storia è stato certamente molto ampio
AL DI LÀ DI DIO E DEL MALE
di Joe Gatti
Tutto deriva dalla cultura, e ogni discorso su Dio (se ce n’è uno) è posizionato solo in un determinato spazio e tempo, il che va a svantaggio della sua supposta onnipresenza divina. Scaturisce quindi una domanda: Dio senza cultura cos’è? Un Re nudo? O qualcosa di più concreto?
Il discorso teologico nella storia è stato certamente molto ampio, e le dispute sull’esistenza del Dio cristiano sono infinite; infatti, l’argomento rischia spesso di essere dispersivo e inconcludente, forse frustrante. Dico frustrante, perché i personal god che divergono dal canone e le ambiguità del linguaggio portano a complicare inutilmente un discorso già complesso di suo. Esiste però un argomento potenzialmente più interessante di altri per via della sua cogenza logica, che lascia meno scampo a sotterfugi retorici ed è alla portata di chiunque. Una questione così “urgente” (pur dopo duemila anni) che riesce a oscurare e far sembrare orpelli teologici anche discorsi molto quotati, come la Teoria della Grazia o la storicità della Bibbia.
Prima di procedere chiariamo la premessa, e quindi l’oggetto del discorso: stando al canone cristiano, Dio sembra un ente trascendente, causa di ogni cosa, dotato di tutte le perfezioni possibili, tra cui onnipotenza, onniscienza e amore infinito per i suoi fedeli. Eppure, nonostante si parli di trascendenza, i suoi fedeli reclamano opere e miracoli terreni per mano sua in numero molto variabile: un esempio è la transustanziazione, che loro definiscono come metafora e non come l’effettivo mutamento di sostanze che mantengono le stesse proprietà, in quanto troppo assurdo. Per loro Gesù è il profeta, figlio di Dio e membro della Trinità che si sarebbe immolato per noi, senza però averci esentato dal peccato originale, visto il corso della storia successiva.
«Un dogma è dato ai Cristiani:
il pane si trasforma in carne
e il vino in sangue» (Tommaso d’Aquino, inno Lauda Sion Salvatorem)
Prendiamo ora in mano la questione urgente, cioè il problema del male: se Dio è onnipotente e infinitamente buono, perché c’è il male nel mondo? Un problema forse più vecchio del cristianesimo stesso, se si va a vedere l’epicureismo. I teologi hanno tentato varie soluzioni, senza mai davvero risolvere la questione. Tanto che persino l’attuale Papa (che ricordiamo essere dotato di infallibilità papale), sollecitato da Fabio Fazio, si è trovato a rispondere con un «Non lo so» alla domanda «Perché i bambini soffrono?». Argomentazione piuttosto cogente e alquanto semplice, ma, nonostante ciò, sono state avanzate diverse obiezioni, che valuteremo qui una per una.
In primo luogo, riprendendo una citazione di Sant’Agostino, si crede che il male sia un prodotto del libero arbitrio umano. Questa obiezione presuppone l’esistenza del libero arbitrio, che a sua volta presuppone l’esistenza dell’anima. I passaggi andrebbero però dimostrati in maniera valida, poiché ci sono diverse teorie cristiane che riguardano questi argomenti e che sono in contrasto con la moderna scienza e la dimostrazione dell’inesistenza di una coscienza unitaria, grazie all’esperimento della rimozione del corpo calloso.
Un altro esempio potrebbe essere il fatto che non esiste una spiegazione secondo cui Dio dovrebbe favorire la libertà (il libero arbitrio) di un nazista di sterminare chi vuole a discapito della libertà di vivere degli innocenti. Se Dio non volesse intervenire nel libero arbitrio umano, non potrebbe interferire solo in maniera mirata e chirurgica? Non ne è capace? La libertà umana è già vincolata e limitata in tanti modi contemplabili da Dio. Certamente Egli saprebbe che non possiamo volare, perciò un vincolo aggiuntivo capace di azzerare il male non cambierebbe sostanzialmente nulla.
Un’altra contraddizione a sfavore del libero arbitrio è quella del peccato originale: la libertà presuppone la responsabilità e il merito, ma se io soffro per via di una responsabilità ereditata di padre in figlio sulla quale non ho libertà o responsabilità alcuna, non si spiega perché sono io stesso a ”meritare” di morire o soffrire. Il concetto di merito si collega alla responsabilità: si potrebbe dire che soffriamo perché, per via del peccato originale, non meritiamo il bene. Ciò non spiegherebbe, in ogni caso, per quale motivo meriteremmo il male o, in extremis, la morte. “Non meritare il bene” non equivale a “meritare il male”.
L’assenza di bene non è il male, in quanto il mondo è composto in gran parte da una terza componente, cioè l’indifferenza, e non si dimostra come da essa segua che gli umani meritino di soffrire. In più, come si potrebbe spiegare la sofferenza provocata dai disastri naturali e dalle malattie, che fanno anche soffrire bambini innocenti lì dove il libero arbitrio non trova alcun posto? E dal momento che solo gli umani sono liberi di assumersi l’eventuale possibilità di soffrire, perché anche gli animali soffrono?
In secondo luogo, Dio non è forse onnipotente? Non è forse causa di ogni cosa? Perché avrebbe creato il ”diavolo” se certamente sapeva che avrebbe generato il male? Oppure il diavolo è onnipotente quanto Dio? Ciò sarebbe in contraddizione con il cristianesimo tutto.
In terzo luogo, per citare Friedrich Schelling, «senza il male non si può apprezzare il bene». Il filosofo tedesco, fedele alla dualità, ha provato a dare una spiegazione simile della teodicea. Ammesso che sia vero, rimane innegabile che esistano sofferenze del tutto immotivate, o che nessuno ascolterà. A che scopo far morire un cervo in un incendio di qualche angolo sperduto nel globo? A che scopo far morire precocemente un bambino di un male incurabile? Cosa ne guadagnerà la vittima? Il paradiso?
Un’obiezione parallela sarebbe che il dolore serve a metterci alla prova e a renderci persone migliori, perché la sofferenza è uno strumento che fa parte del piano di Dio. Supponendo che questo sia vero, significherebbe che il dolore ha senso solo nel momento in cui è identificabile come uno strumento per raggiungere un fine, ma l’efficienza e l’utilità di tale strumento rimangono contestabili. Per smentire la cosiddetta “necessità del dolore” basterebbe innanzitutto la sola esistenza delle persone ”naturalmente buone”, ossia che non hanno avuto bisogno di percepire grandi livelli di sofferenza o prove particolari per essere come sono, mansuete e gentili per natura.
Se immaginiamo una zappa, una di quelle con il manico ruvido e pesante tanto da far venire i calli alle mani, possiamo senza dubbio dire che, a prescindere dalla fatica, è stata un ottimo strumento per millenni in quanto utile per un fine. In questo caso la fatica ha sempre trovato un senso nella sua funzione. Ma nel momento in cui si scopre l’esistenza di strumenti migliori e più efficienti, come ad esempio le motozappe, che fine fa l’utilità di quella fatica? Perde di senso, così come lo strumento stesso. Che vantaggi avrebbe torturarsi con una faticosa zappa quando il fine posso raggiungerlo in un modo più comodo ed efficiente? Uno strumento perde di senso se la sua utilità viene meno. Si potrebbe dibattere all’infinito su tutto ciò che è dipeso dal valore della sofferenza, e quindi dire che persino la componente empatica umana, o il progresso della motozappa dipenda dall’esistenza della sofferenza nel mondo, e in questo ci sia del valore.
Ma questo circolo vizioso si potrebbe interrompere con una semplice domanda: perché in principio creare il male e spingerci a trovare dei modi e delle strategie per liberarcene? Non potevamo nascere perfetti e senza cognizione alcuna del dolore? A che serve questo percorso? Il cristianesimo non ha una risposta che non sia retorica. La biologia, al contrario, ce l’ha: il dolore è funzionale per la propagazione dell’informazione genetica, a cui non importa del benessere dei singoli individui o delle singole specie, ma soltanto che il codice genetico si diffonda in tutti i modi possibili. Ciò, naturalmente, non ha nulla a che fare con la bontà di nessun essere divino.
Il problema del male è una delle più grandi spine nel fianco di un cristianesimo che ha provato sollievo nel tentare soluzioni che rimandavano solamente la questione senza mai risolverla. Il libero arbitrio, argomento più noto, non tiene conto del male ”naturale”, della sofferenza degli innocenti e delle creature non umane, non cancella alcuna aporia e anzi, ne genera solo di nuove. Satana, l’utilità del male, il peccato originale e così via, non sono certamente risposte meno problematiche.
La differenza tra teologia positiva e negativa sta nella pretesa della prima di poter dimostrare razionalmente l’esistenza del divino, nonostante entrambe sembrino premettere un certo grado di fede verso l’inspiegabile, che rischia però di ritorcersi contro la teologia positiva stessa in un circolo perpetuamente contraddittorio. Riguardo l’inconoscibilità di Dio (o il mistero della fede), il caro d’Holbach ne Il buon senso (Garzanti, 2005) diceva:
«Ogni sistema religioso non può essere fondato che sulla natura di Dio e dell’uomo, e sui rapporti che tra essi sussistono. Ma, per dare un giudizio sulla realtà di tali rapporti, bisognerebbe aver qualche idea della natura di Dio. Ora, tutti ci dicono e ridicono che l’essenza di Dio è incomprensibile per l’uomo, e nello stesso tempo non cessano di assegnare degli attributi a codesto Dio incomprensibile, e di asserire con sicurezza che l’uomo non può esimersi dal riconoscere questo Dio impossibile a concepirsi.»
Possiamo dunque chiederci se due millenni di storia siano stati sufficienti a sviluppare le migliori risposte possibili, e se forse sia il caso di accettare una contraddizione logica insanabile ma ignorabile soltanto con la fede.