”Quante volte ci è capitato di pensare se un qualche fatto, più o meno importante, cambiandolo, avrebbe mutato la Storia. Dunque non è insensato chiedersi cosa sarebbe accaduto se il bellissimo e spregiudicato e geniale Alcibiade non fosse stato a suo tempo intercettato da un micidiale e squallido processo.
Così Atene non richiamò dall’esilio lo stratega nonostante l’appello di Aristofane. Perciò fu inevitabile la caduta della città. E venne segnata la sorte di Socrate.


Finale delle Rane di Aristofane. Gennaio del 405 a.C., alla festa delle Lenee dedicate al dio Dioniso nel corso di tali festività gli autori erano chiamati a gareggiare in agoni comici. Il pubblico era tutto ateniese ciò era dovuto a una scarsa navigabilità del mare nel mese di Gamelione. Questa particolarità fece sì che gli argomenti trattati nelle commedie riflettessero più da vicino temi strettamente connessi alla vita della polis e della società ateniese. Non infrequenti erano infatti gli attacchi rivolti a politici e personaggi pubblici. Perciò i commediografi parlano ancor più volentieri di politica e il pubblico apprezza. Quando Aristofane ha lavorato alla commedia, nei mesi precedenti, erano ancora nell’aria l’esultanza per la vittoria alle isole Arginuse(1) e però anche lo sgomento per l’allucinante processo montato dal perfido Teramene contro i generali vittoriosi. VEDI ARTICOLO PROCESSO DELLE ARGINUSE
L’accusa che venne loro rivolta fu quella di aver lasciato annegare i naufraghi delle venticinque navi ateniesi che, nonostante la brillante vittoria. Furono circa un migliaio i marinai, che trovarono la morte a causa delle mancate operazioni di soccorso. In realtà, il mancato soccorso ai naufraghi era stato provocato dal sopraggiungere improvviso di una tempesta, che lo aveva reso materialmente impossibile, oltre che da un probabile malinteso fra gli strateghi e i due


trierarchi da essi specificamente incaricati delle operazioni di salvataggio: due uomini politici abili e molto popolari, quali Trasibulo e Teramene. Quanti si oppongono, all’irregolarità in cui si svolge il procedimento, vengono zittiti al grido di: “non si può impedire al popolo di fare ciò che vuole”. Alla fine, i pritani convalidano la messa a morte degli strateghi richiesta dall’assemblea, l’unico a opporsi è Socrate che, invano, cerca di riportare la folla alla moderazione. Con una tale presa di posizione non è impensabile che il filosofo si sia attirato degli odi implacabili, che, in seguito, sarebbero riemersi nel corso del processo intentato a suo carico con l’accusa di empietà e di corruzione dei giovani, processo che è ben noto come sia andato a finire. Alla descrizione del processo delle Arginuse Senofonte dedica un racconto ampio e particolareggiato nel VII capitolo del I libro delle Elleniche, un racconto la cui ricchezza di particolari e precisione ha fatto pensare che Senofonte avesse assistito al processo ed avesse ricordi personali o che avesse davanti gli appunti di Tucidide.
Il processo che si svolse nell’autunno del 406 rappresentò una svolta decisiva nella guerra del Peloponneso: con esso Atene, che dopo il disastro di Sicilia del 413 e il colpo di stato oligarchico del 411 aveva recuperato in pochi anni forze e prestigio, tornando alla vittoria sul piano militare e restaurando all’interno la democrazia, si privò, con un tragico errore giudiziario, di uomini che erano, nello stesso tempo, i suoi migliori strateghi e i più fedeli sostenitori della democrazia, dette così un colpo gravissimo al morale delle ciurme impegnate nella guerra.
L’ultimo atto era stata un’altra, disastrosa, battaglia navale, quella di Egospotami nell’agosto del 405, combattuta dagli Ateniesi nelle condizioni peggiori e sotto la guida di capi non tutti leali, forse addirittura collusi col nemico.
Alcibiade è il grande assente. Una scena certo veridica, lo rappresenta ad Egospotami, dove – poco prima del disastro –, pur esule, si fa ricevere dai capi suoi concittadini e li scongiura di non

accettare battaglia. E però viene scacciato con la tracotante ingiunzione: «Puoi andare, ora comandiamo noi!».
Aristofane ci aveva tentato. Aveva posto il bruciante problema davanti all’intera città. Nessuna assemblea politica era così affollata come il teatro: dalla scena Aristofane parlava ad assai più gente che un qualunque politico. Quale la sua trovata? Nelle Rane si svolge, ambientato nel regno dei morti, uno scontro tra Eschilo ed Euripide – l’antico e il moderno – di fronte ha un arbitro d’eccezione, il dio del teatro, Dioniso. Si susseguirono varie prove, l’ultima è la domanda rivolta a entrambi: che fare con Alcibiade? Eschilo è favorevole a farlo rientrare. E questo equivale a un suggerimento esplicito. Ma, nonostante il successo strepitoso della commedia, non bastò il «popolo sovrano», come spettatore applaudiva Aristofane e consentiva con lui, ma come assemblea deliberante avrebbe trascinato il grande esule dinanzi a qualche tribunale.
Perché non lo vollero? Era caduto una prima volta dieci anni prima, nel 415 a.C., perché l’avevano incastrato in uno scandalo a sfondo religioso. Mentre fervevano i preparativi per la partenza della spedizione per la Sicilia in aiuto a Segesta alleata di Atene minacciata da Siracusa; nella notte tra il 6 e il 7 giugno

del 415 a.C. furono mutilate alcune erme ad Atene. Questo atto sacrilego suscitò molto clamore tra il popolo e fu considerato come un segno premonitore di sventura e come un atto di sobillazione da parte di Alcibiade contro il governo democratico. Alcibiade, a fronte del grave atto di accusa, chiese di farsi giudicare subito da un tribunale, in modo da eliminare ogni ostacolo alla partenza della spedizione. L’assemblea però decise di rinviare il dibattimento, consentendo ad Alcibiade di partire.
Tuttavia resta incerta l’identità di chi realmente si macchiò di un tale sacrilegio. Lo storico americano Donald Kagan sostiene che lo scandalo delle erme fosse rivolto contro Nicia, il quale era notoriamente ritenuto molto sensibile ai responsi degli indovini, e un simile fatto, a pochi giorni dalla partenza della spedizione, lo avrebbe sicuramente scosso. Alcibiade voleva quella spedizione perché avrebbe ampliato l’impero ateniese a Occidente. Così gli ateniesi, dopo un’infinità di incertezze, gli diedero il consenso di inviare un contingente perfino superiore alle stime che avevano preventivato. Così, furono predisposte 134 triremi, con un equipaggio di 25.000 uomini e 6.400 truppe da sbarco; il comando fu affidato ad Alcibiade, a Nicia e a Lamaco. La flotta partì nel giugno del 415 a.C.
La spedizione, però, iniziò con i peggiori auspici poiché non passò molto tempo che i tre strateghi iniziarono a litigare sulla strategia da assumere: Lamaco era dell’avviso di puntare direttamente su Siracusa per assaltarla prima ancora che potesse addestrare le proprie milizie; Alcibiade riteneva opportuno attaccare da Siracusa le città alleate per poi predisporre l’assedio; Nicia, invece, propendeva per inviare un distaccamento in aiuto a Segesta, far mostra di forza e ritornare ad Atene.
Mentre le navi erano in viaggio per la Sicilia, ad Atene gli oppositori di Alcibiade avevano continuato le indagini, dando ascolto a persone disoneste e incarcerando cittadini onestissimi; – in quei tempi infatti il popolo temeva che qualunque atto potesse essere parte di una congiura oligarchica e tirannica – quindi i popolari continuavano ogni giorno ad accusare persone notabili e stimabili, finché un giorno uno tra coloro che sembrava tra più colpevoli fu persuaso da un compagno di prigionia (che gli consigliò di porre fine al clima di sospetto che avvolgeva la città, dicendogli anche che la sua salvezza sarebbe stata più certa se avesse confessato colla sicurezza dell’impunità, anche se non aveva fatto nulla, piuttosto che se si fosse sottoposto ad un processo) a fare una delazione, delazione che non s’è mai capito se fosse vera o falsa. In seguito a questa confessione il popolo liberò lui, dato che gli aveva promesso l’impunità per questa confessione, e coloro che non erano stati da lui nominati, poi diede la caccia a quelli che aveva denunciato e uccise coloro che furono presi, mentre condannò a morte in contumacia quelli che erano assenti e pose una taglia sulle loro teste. Per quanto riguarda Alcibiade, il fatto che avesse parodiato i misteri e altre coincidenze a lui sfavorevoli contribuirono ad aizzargli contro il popolo che, volendo processarlo e condannarlo a morte, mandò in Sicilia una trireme affinché riportasse ad Atene lui e gli altri soldati accusati; quest’ultimo, però, fuggì a Thurii, e di lì a Sparta, mentre gli Ateniesi per questo lo condannarono a morte in contumacia.
Da esule fece alla sua città tutto il male possibile.
Dopo essersi dileguato a Thurii, Alcibiade contattò velocemente gli Spartani, “promettendo di rendere loro aiuti e servigi in modo ancor più determinante di quando non avesse causato loro difficoltà da nemico” in cambio di protezione. Essi accettarono la sua offerta e lo accolsero in città. A Sparta, dove si stava discutendo dell’eventualità o meno di un invio di aiuti a Siracusa, Alcibiade partecipò al dibattito e instillò negli efori spartani una certa paura nei confronti dell’ambizione ateniese, spiegando come intendessero conquistare la Sicilia, l’Italia e forse anche Cartagine.
La minaccia ateniese sembrò quindi immediata e Alcibiade riuscì a convincere gli Spartani a mandare un contingente guidato da Gilippo ad aiutare e a riorganizzare i Siracusani. Egli cercò di creare una sintonia con l’uditorio attraverso il ricordo della politica anti-tirannica della propria famiglia, atteggiamento che li accomunava alla politica spartana.
La democrazia venne presentata come l’unica alternativa al potere dispotico e come la forma di governo che aveva reso Atene grande e libera. Tuttavia Alcibiade, in questo discorso, prese le distanze dall’ordinamento politico della propria città, mostrando di disprezzare questo regime:
«Il nostro partito era quello del popolo intero, poiché il nostro credo era di fare la nostra parte nel conservare la forma di governo sotto la quale la città godeva la maggiore grandezza e libertà e che noi avevamo trovato già esistente. Per quello che riguarda la democrazia, gli uomini di buon senso fra di noi sapevano che cos’era, ed io forse meglio di tutti, dato che ho maggior motivo di lamentarmene; ma non c’è nulla di nuovo da dire su un’evidente assurdità – d’altra parte noi non pensavamo che non fosse prudente cambiarla sotto la pressione delle vostre armi.»
(Discorso di Alcibiade agli Spartani, come registrato da Tucidide (VI, 89); Tucidide non garantisce l’accuratezza verbale di quanto scritto.)
Non è insensato chiedersi cosa sarebbe accaduto se il bellissimo e spregiudicatissimo e geniale Alcibiade non fosse stato a suo tempo intercettato da un micidiale e squallido processo. In realtà la sua guerra-lampo contro Siracusa poteva avere successo. Così come ebbe successo la riscossa, irresistibile, nella guerra navale, che gli fruttò un trionfale rientro, cui pose fine un incidente provocato da un suo smanioso ufficiale. Il che causò la sua seconda caduta.
E poiché cadde due volte, due sono gli scenari da ipotizzare: uno maggiore e uno minore. Vediamo il primo. Vincendo contro Siracusa nel 415 a.C. Atene avrebbe esteso, come abbiamo detto, il suo impero verso Occidente. Dopo di che, il dominio sulla Sicilia orientale l’avrebbe portata allo scontro con i Punici aspiranti anch’essi al controllo dell’isola. Non è mistero che, tra i progetti che Alcibiade aveva in serbo, c’era anche un attacco a Cartagine. In tal caso, quel successo che alla metà del secolo – era mancato a Pericle, contro la Persia in Egitto, l’avrebbe conseguito lui, suo nipote, all’altro estremo della sponda meridionale del Mediterraneo.

E così la storia stessa dell’Occidente avrebbe rischiato di prendere un’altra piega. In uno scenario del genere sarebbero addirittura venute meno le premesse dello scontro che, centocinquant’anni dopo, terrà in bilico l’intero Occidente: lo scontro romano-cartaginese. Si sa che al tempo di Augusto, alcuni storici romani si ponevano la domanda perché mai Alessandro Magno non avesse tentato di marciare verso Ovest (Livio sostenne un po’ goffamente che i Romani comunque lo avrebbero sconfitto.

Si può dire quindi che Alcibiade avrebbe compiuto, a Occidente, l’imprese cui invece Alessandro nemmeno aspirò. Avrebbe assunto in patria la «tirannide» dopo la vittoria? È probabile che questo pensiero non lo abbia mai abbandonato. Ma non era così ingenuo da voler ferire i suoi Ateniesi proprio là dove la loro sensibilità era più reattiva. Pericle era stato per decenni un «principe elettivo»; lui coronato di trionfi, avrebbe fatto altrettanto. E invece tutto questo crollò. Un qualche politico di terza fila volle coinvolgere il grande condottiero in uno scandalo, la cui repressione dava soddisfazione al perbenismo dell’Ateniese medio. E il sogno occidentale di Atene svanì.
Atene subì colpi su colpi. Eppure non cadde. Ritornato, Alcibiade sembrò ristabilire le sorti della città che stava correndo senza freni a precipizio verso il baratro. Rientrò da «salvatore». Ma grazie alle mai sopite invidie, al primo insuccesso fu rimosso.
Aristofane fa dire a Eschilo che «il cucciolo del leone (così designa Alcibiade) era l’unico in grado di salvare ancora la città dalla disfatta. È probabile. Avrebbe impedito dieci anni di dispotismo spartano su tutta la Grecai. Avrebbe risparmiato ad Atene la ferocia dei «trenta tiranni». Senofonte non avrebbe raggiunto Ciro in Asia per scampare ai postumi della guerra civile. (Non avremmo l’Anabasi). E nemmeno Socrate avrebbe pagato con la vita le sue compromettenti amicizie politiche. E forse, senza un tale martire, il pensiero occidentale avrebbe preso un’altra piega.
La sua morte.

I fatti riguardanti la morte di Alcibiade sono in gran parte incerti, tra i maggiori responsabili si annoverano sicuramente gli Spartani, ma al loro insediamento anche i Trenta tiranni, così come tutta la Grecia, temevano un’azione di Alcibiade, quindi i potenziali colpevoli sono più di uno. Una delle versioni più verosimile, sembrerebbe quella di Plutarco. Lisandro mandò un inviato a Farnabazo, che ordinò a suo fratello di andare in Frigia, dove Alcibiade viveva coll’amante Timandra, giovane di buona famiglia. A questo punto ci sono due versioni della storia: secondo una i mandanti degli assassini erano Spartani, secondo l’altra erano i parenti di Timandra. L’assassinio si consumò mentre Alcibiade si stava preparando per raggiungere la corte persiana; la sua casa fu circondata e incendiata ed egli, non vedendo alcuna possibilità di fuga, si precipitò sui suoi assassini col pugnale in pugno venendo ucciso da una selva di frecce.
Note
- (1) La battaglia delle Arginuse, combattuta durante la guerra del Peloponneso presso le isole Arginuse, ad est dell’isola di Lesbo, fu una vittoria navale ateniese ottenuta contro la flotta spartana. La flotta ateniese, costituita perlopiù da navi appena costruite ed equipaggi inesperti, venne affidata ad otto strateghi, i quali, nonostante ciò, seppero cogliere la vittoria grazie alle loro abilità. L’urgenza di Atene era quella di interrompere il blocco navale imposto dalle triremi spartane comandate da Callicratida, a Mitilene, città nella quale era ormeggiata la flotta ateniese al comando di Conone. La notizia della vittoria fu accolta con giubilo ad Atene, a tal punto che i cittadini votarono per concedere la cittadinanza agli schiavi e ai meteci che avevano combattuto nella battaglia. Successivamente tuttavia giunse la notizia del naufragio della flotta ateniese a causa di una tempesta, la stessa che impedì alle navi incaricate il recupero dei sopravvissuti delle 25 triremi ateniesi affondate o gravemente danneggiate. Gli ateniesi, sconvolti dalla notizia, dopo un aspro dibattito avvenuto in assemblea, processarono e giustiziarono sei degli otto comandanti.
- (2) La battaglia di Egospotami fu la vittoria navale spartana che pose fine alla guerra del Peloponneso: nella battaglia la flotta spartana, comandata da Lisandro, distrusse completamente quella ateniese, ponendo fine alla guerra, visto che Atene, senza i rifornimenti di grano che otteneva via mare, non poté resistere all’assedio spartano, capitolando per fame.
Fonte Wikipedia
Bibliografia
- Platone, Ipparco 228d
- Plutarco, Vite Parallele: Alcibiade.
- Tucidide, La Guerra del Peloponneso.
Immagine François-André Vincent, Alcibiade riceve una lezione da Socrate (1776)
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