”Ma a lungo andare che fine faranno i nostri volti, i nostri corpi, i nostri rapporti umani? Dico i nostri volti coperti, i nostri corpi distanziati, i nostri rapporti sterilizzati
Ma a lungo andare che fine faranno i nostri volti, i nostri corpi, i nostri rapporti umani? Dico i nostri volti coperti, i nostri corpi distanziati, i nostri rapporti sterilizzati. Si separeranno quasi stabilmente dalle nostre menti, dal nostro lavoro, dai nostri affetti? La previsione ufficiale sulla tenuta del covid è di un paio d’anni, con la postilla inquietante che altre minacce di contagio si stanno scaldando ai bordi del campo. Altri covid o altri virus ci aspettano al largo, non abbassate la guardia, mai più. Provo a tradurre questa previsione globale in una previsione ad personam. Vuol dire che dovremo adottare per sempre le mascherine, la disinfezione continua, il distanziamento sociale; diventerà abitudine lo smart working, lo smart learning, la socialità di rete, i contatti da remoto, lo streaming, le video-chiacchierate e lo zoom. Si dovrà mantenere la corretta pulizia di vita che diventando prassi, costume e ideologia, possiamo ribattezzare come il “puliticamente corretto”.
Insomma, oltre le restrizioni alla nostra libertà e alla nostra mobilità, dovremo prevedere qualcosa che modifica radicalmente la nostra vita personale. La rarefazione dei volti, dall’apparizione in privato alla cancellazione pubblica; la lontananza dei corpi, dalla prossimità nella sfera intima al distanziamento sociale; la sterilizzazione delle nostre relazioni, preferibilmente distanti, sempre diffidenti, comunque disinfettate.
Cosa produrrà alla lunga una mutazione di questo tipo, che rischia di essere non solo duratura ma permanente, e non solo intermittente ma continuativa? Una mutazione etica, forse genetica, comunque antropologica. Non intendo in questo caso polemizzare, cioè accusare qualcuno, il sistema, il governo, tornare sul tema – reale – della dittatura sanitaria, il totalitarismo della salute. E nemmeno occuparmi delle speculazioni politiche, farmaceutiche e affaristiche dietro quel cambiamento di vita. Vorrei invece parlare di noi, noi uomini, io e te, in carne e ossa. Quando rivolgersi all’altro smetterà di essere uno scoprirsi ma un coprirsi, non un rivelarsi ma un velarsi, quando avremo ormai assorbito dentro di noi quel metro che ci separa per ragioni di sicurezza dal prossimo, come vivremo la nostra vita, le nostre espressioni del volto, i nostri contatti? Quando le nostre bocche saranno saracinesche abbassate, persiane chiuse dietro cui sibilare lo stretto necessario, che sarà della nostra umanità? In particolare noi meridionali che siamo abituati a parlare toccando l’interlocutore, deplorevole ma calorosa abitudine, che colloqui gelidi avremo – alla lunga – quando perderemo questa prossimità incarnata, con la sua gestualità espressiva? Finiamo tutti in modalità remoto: i morti appartengono al passato remoto, noi zombie della pandemia apparteniamo al presente remoto. Presenti ma assenti, ci vedi in cartolina, cioè sullo schermo, nella pagellina del display. E non per un periodo ma preferibilmente in permanenza. Mutazione o mutilazione?
Emmanuel Lévinas(1) fondò la sua filosofia sull’esperienza del volto, il volto dell’altro, il dialogo faccia a faccia. Il volto ci interroga, il volto esprime tutta la nostra umanità. Basteranno gli occhi per rendere aperto il nostro volto, basteranno gli sguardi privati del loro campo d’espressione, privati del naso, della bocca e delle guance, lanciati nel vuoto? Si potrà dialogare a lungo perdendo la faccia e smorzando le parole nella mascherina, fino a renderle un felpato borbottio, quasi una mormorazione? O alla fine ci stancheremo, diventeremo introversi, scarni, comunque taciturni e tacitiani? Magari per i logorroici è una terapia e un sollievo per gli altri; ma il freno tocca tutti.
Cade in prescrizione la visione stessa del cristianesimo, il suo centrale, cruciale fondamento: l’incarnazione. Spiriti che si fanno carne, anime che si fanno corpi. I corpi dovranno essere sempre più eterei, disincarnati, virtuali e rarefatti; addio comunione dei corpi e delle anime, il corpo come pane e il sangue come vino dovranno perdere la loro sostanza e farsi evanescenti, aeriformi. E i volti, su cui si è fondata la bellezza delle arti e la pietà dei soccorsi, i volti che splendono nelle Chiese, sulle pale d’altare, nei ritratti di Gesù Cristo, della Madonna, dei Santi, dei bambini e dei vecchi, dei morenti e delle partorienti, che donarono speciale umanità al cristianesimo, che fine faranno in questa società dove tutto si copre, si distanza, si depura, si sterilizza? Può il timore di una malattia cancellare l’umanità dei volti, dei corpi, dei rapporti umani?
Il virus lavora per Google e per Amazon, per Facebook e per Whatsapp, ha un contratto con la telefonia mobile, prende soldi da Apple. Insomma giova a loro, ma a noi, come vive una persona, a lungo andare? Ci piace, ci piaceva internet, la tecnologia, il web, le telecomunicazioni perché ci danno un’altra possibilità oltre quella della prossimità, ampliano le nostre chance, integrano la nostra vita reale e corporale con quella virtuale e a distanza. Ma non ci piace se anziché integrare sostituiscono la vita reale, si mettono al suo posto. La sostituzione, il male del nostro tempo. Al posto di Dio l’Umanità, al posto degli autoctoni i migranti, al posto degli uomini i mutanti, al posto dei corpi e dei volti le loro icone sul display. E poi le persone sottovetro, i visi coperti… Non lo dico tanto per me che la mia vita, bene o male, l’ho fatta; lo dico per voi, da 0 a 60 anni; non potete sopportare a lungo una mutazione-mutilazione del genere, perdere la faccia per salvare la salute, perdere il corpo per immunizzarlo, perdere i rapporti umani per ibernarsi in una vita asettica.
Già, asettico è la parola giusta perché in gergo sanitario vuol dire “prevenire le infezioni” ma nel gergo della vita vuol dire “incapace di provare o suscitare emozioni”. Lasciate un fiore e una prece sul nostro account.
Fonte MV, La Verità 5 settembre 2020.
Note:
(1) Emmanuel Lévinas (Kaunas, 12 gennaio 1906 – Parigi, 25 dicembre 1995) è stato un filosofo e accademico francese di origini ebraico-lituane. «Essere o non essere – è proprio questo il problema? È proprio questa la prima e l’ultima questione? L’essere umano consiste davvero nello sforzarsi d’essere e nella comprensione del senso dell’essere – la semantica del verbo essere – è davvero la prima filosofia che s’impone a una coscienza, la quale sarebbe fin dall’inizio sapere e rappresentazione, e manterrebbe la propria baldanza nell’essere-per-la-morte, si affermerebbe come lucidità di un pensiero che pensa sino alla fine, sino alla morte e persino nella sua finitudine – già o ancora buona e sana coscienza che non s’interroga sul suo diritto d’essere – sarebbe o angosciata o eroica nella precarietà della sua finitudine?» Lévinas ritenne la filosofia heideggeriana il punto in cui la fenomenologia «ha forse raggiunto il suo culmine», e cionondimeno egli non poté mai scusare «lo Heidegger del 1933-34».
Fonte
Luca
9 Settembre 2020 a 5:57
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