Oltre il velo delle certezze, dove inizia la vera visione
ALLE PORTE DI TANNHÄUSER
di Lorenzo Merlo
Viviamo dentro un confine invisibile che limita il nostro modo di pensare, sentire e comprendere il mondo. Questa barriera non è fisica, ma culturale e mentale: ci impedisce di vedere ciò che esiste oltre le convenzioni, le ideologie dominanti e la propaganda diffusa come verità. La maggioranza accetta questo stato di cose come inevitabile, anzi, come giusto. Ma c’è una via d’uscita. Chi diventa consapevole dei propri limiti può intravedere un varco, simbolicamente rappresentato dalle “porte di Tannhäuser”: un passaggio difficile, ma possibile, verso una visione più libera, spogliata dai condizionamenti del pensiero unico. È un invito a lasciarsi alle spalle le certezze ereditate, per riappropriarsi del senso autentico dell’essere.
La versione che segue è stata semplificata per renderla accessibile a lettori non specialisti. Il testo originale integrale di Lorenzo Merlo è riportato al termine.
Viviamo all’interno di un mondo che crediamo essere tutto ciò che esiste. In realtà, siamo chiusi dentro un confine invisibile: una sorta di muro che non vediamo, ma che ci limita. Non è fisico, ma mentale e culturale. Solo chi sviluppa una vera consapevolezza di sé riesce a intravederlo. Comprendere quanto siamo parziali nel nostro modo di pensare è il primo passo per scoprire che c’è qualcosa oltre.
All’interno di questo confine vive la nostra realtà. È un insieme di convinzioni, emozioni e valori che diamo per scontati. In questo spazio chiuso, la propaganda lavora in modo sottile e costante: si insinua nei pensieri e nelle emozioni, proprio come la voce di un genitore influenza la mente di un bambino. Così si forma un’idea condivisa di “realtà”, che molti sostengono e difendono come se fosse oggettiva, giusta, vera.
Ma ogni prigione, anche quella invisibile, ha un varco. Nella tradizione biblica è chiamato “la cruna dell’ago”. In tempi più recenti, possiamo identificarlo con “le porte di Tannhäuser”: un simbolo del passaggio possibile verso un’altra visione del mondo. Ma per attraversarle, dobbiamo spogliarci delle nostre certezze, liberarci dalle idee dominanti e dal pensiero unico che ci appesantisce.
Anche chi, un tempo, credeva ciecamente nel sistema può varcare quelle porte. L’ha fatto persino qualche intellettuale che oggi rifiuta ciò che prima difendeva senza riserve.
Anch’io ho cambiato sguardo. Per lungo tempo ho creduto in certe promesse: quelle di un futuro migliore, di una giustizia universale, della possibilità di redenzione per chi aveva subito oppressioni. Credevo che i popoli sfruttati del passato, come gli africani, una volta liberi, avrebbero creato un mondo nuovo, più giusto. Pensavo che il dolore li avrebbe resi più profondi. Che la storia avrebbe dato loro un’occasione di riscatto.
Ma qualcosa è andato storto. Dopo l’elezione di un presidente afroamericano, che il mondo ha salutato come simbolo di speranza e pace, non c’è stato un cambiamento vero. Invece di costruire un futuro diverso, anche i nuovi “liberati” hanno spesso replicato i meccanismi di potere del passato. Hanno imitato il modello dominante: quello dell’apparenza, del successo, del denaro. E così, anche loro hanno perso il contatto con la propria origine, con il cuore.
Lo stesso è accaduto con le donne. Anche in loro avevo riposto una grande fiducia. Vedevo nella femminilità una luce diversa, una possibilità di rivoluzione spirituale. Ma molte hanno rinunciato a quella diversità, scegliendo di copiare il modello maschile, fatto di competizione, durezza, razionalità. Hanno dimenticato il proprio potere originario: quello di dare la vita, di creare, di amare con verità.
Eppure è proprio dalle donne, e da ciò che trasmettono ai figli ancora prima della nascita, che può iniziare un vero cambiamento. Il loro potere non è quello di comandare, ma di trasformare la vita alla radice. Tradire questa missione non è solo un errore: è un passo verso l’inferno.
Anche nei confronti degli ebrei, un tempo, non provavo ostilità. Nonostante il ruolo dominante che alcuni settori finanziari e culturali ricoprono oggi a livello globale, cercavo di mantenere un giudizio lucido. Ma di fronte a ciò che sta accadendo in Medio Oriente, alle guerre sostenute e giustificate dall’Occidente, comincio a farmi domande scomode. Possibile che la storia sia davvero così lineare come ci è stata raccontata? Possibile che certi fantasmi del passato fossero solo follia e non anche effetto di realtà complesse?
Non odiavo nessuno. Neanche gli omosessuali, né le minoranze, né chi parlava inglese o faceva film a Hollywood. Ma ora, tutto questo universo di espressioni, parole straniere, identità di facciata e spettacolo continuo, mi appare come un inganno. Un teatrino ipocrita in cui la presunta emancipazione di molti si fonda su un’ideologia vuota, senza amore né anima.
Abbiamo trasformato l’uomo in macchina. Le leggi sono diventate strumenti tecnici per regolare ciò che è imprevedibile e sacro. Abbiamo dimenticato che dentro ognuno di noi si agitano forze più grandi della logica. Il risultato? Un mondo sempre più violento, incapace di riconoscere la propria ombra.
Dai frammenti dei social ai film che guardiamo, tutto è pervaso da un pensiero unico travestito da libertà. Tutti si nutrono di questa grande madre artificiale, convinti di stare cambiando il mondo. Ma in realtà stanno solo facendo girare lo stesso ingranaggio sotto nuove etichette.
Viviamo come se fossimo entità separate dal cosmo, come se bastasse un’idea per fondare la nostra identità. È una forma di alienazione che si fa commedia, ma anche tragedia.
Chi pensa che, cadute le vecchie ideologie, siamo finalmente liberi, si sbaglia. Ne abbiamo solo adottata una nuova: quella dei diritti individuali assoluti, che non portano equilibrio, ma confusione.
Circondati da una tecnologia sempre più invadente, cerchiamo prove storiche della spiritualità, invece di viverla. Ridiamo delle parole di Cristo o di Castaneda, mentre costruiamo un mondo che ignora completamente i messaggi che ci hanno lasciato.
Abbiamo venduto l’anima del mondo per un’illusione di progresso. Adoriamo il pensiero tecnico, ci inginocchiamo davanti al digitale. Usiamo queste nuove religioni per decidere come educare i nostri figli e governare le nostre vite. Ma il risultato è sotto gli occhi di tutti: guerra, disordine, disperazione. Il paradiso possibile è diventato un inferno.
Forse è tempo di spegnere la voce degli algoritmi. Di guardare bene a cosa stiamo sacrificando sull’altare dell’intelligenza artificiale. Di chiederci che cosa tutto questo ci sta togliendo: identità, forza, creatività, gioia.
Siamo arrivati a preferire il mondo freddo e impersonale del digitale a quello caldo e imperfetto delle relazioni vere. Ma è proprio questo l’errore più grave: crederci superiori alla natura, mentre siamo sempre più lontani da noi stessi.
Forse è il momento di fermarsi. Sedersi, anche solo per un attimo, sul nostro muretto fatto di pixel… e cercare, con umiltà, una via che abbia ancora un cuore.
Testo originale di Lorenzo Merlo
Non sopporto più i negri. Li amavo fino alla fiducia, ero certo che si sarebbero riscattati dalla sofferenza che li aveva afflitti, e li affliggeva ancora. Pensavo con fede che il mondo in mano loro sarebbe stato migliore di quello colonialista, la cui progenie, dopo aver forzatamente cessato di occuparsi del terzo mondo, con le loro Guineamen opportunamente camuffate, aveva fatto rotta ovunque sul globo, non più benedetta solo dal papa del momento o da qualche monarchia assoluta. Lo aveva fatto, questa volta, nel pieno della legalità in base a norme autoreferenziali, adeguatamente travestite da aiuti umanitari e portatrici di salvezza dalle carestie.
Un protomillisecondo dopo l’elezione del negro più bastardo della terra (1), non a caso incoronato di Premio Nobel per la pace, tutti i negri del mondo non avrebbero dovuto seguitare a esultare, ma prendere coscienza che, ora, erano loro a dover costruire i vascelli, per caricarle di mezzi uomini bianchi e trascinarli incatenati verso le esperienze necessarie affinché capissero, una volta per tutte, che non è possibile dire a cuor leggero – credendo d’essere i portatori del vessillo dell’umanità – andiamo a esportare democrazia.
Invece loro, i negri, al pari delle donne, si sono fatti imbambolare dal modello col naso all’insù, con le scarpe lucide e i gemelli ai polsini. Invece di creare un mondo degno del loro spirito originario, hanno scelto di replicare l’esistente, di seguire le sirene del successo materiale e del potere. Una via di cinismo, senza cuore.
Amavo anche le donne, e nei loro confronti nutrivo la medesima fiducia. C’era luce nelle donne, ma l’hanno gettata per una manciata di sale. Despiritualizzate se non indemoniate, non hanno saputo fare altro che assumere il critrtio maschile e replicarlo.
Eppure, è soprattutto a partire da loro, dalle loro emozioni d’amore, paura e rancore, necessariamente vissute dal nascituro, corpo unico con la madre, che si può interrompere il saṃsāra, o la perpetuazione delle incarnazioni vanesie della vendetta, cioè la storia di dolore che conosciamo.
Il potere delle donne, così come quello degli oppressi, è esistenzialmente parlando rivoluzionario. Tradirlo, rinnegando la propria prima missione di generazione della vita, e quindi di dono, è infernale.
Nonostante la longa manus internazional-finanziaria degli ebrei e relativa pessima reputazione, che hanno cercato di mondare con il monopolio – altrettanto odioso – della sofferenza subita a causa del nazismo, non avevo sentimenti di disprezzo nei loro confronti, almeno fino ad oggi. Per la loro prestazione bellica nei confronti di Gaza, Iran e altri della zona, gravemente avvallata dai divanisti dell’Occidente intero non serve andare alla ricerca di aggettivi e definizioni, serve invece sentire un allarme per la domanda che insorge spontanea: Hitler era solo pazzo? Non avevo niente contro i froci e qualunque altra categoria al di fuori della cosiddetta normalità, una delle quali mi appartiene. E neppure contro la parlata americana, e sostanzialmente neppure contro Hollywood. Ora non sopporto più le loro espressioni, né i loro esponenti, componenti e manifestazioni. Non sopporto brand, audience, budget, workshop, manager, business, spoiler, trailer, fashion, nella voce di troppi. Invece di impegnarsi a promuovere il rispetto, hanno agito tecnicamente con il benestare delle leggi, come se gli uomini fossero macchine, e non entità composte d’infinito entro le quali ruotano, cozzano, e si combinano le idee dell’eternità, sfornando risultati che non solo la legge non può prevedere né impedire, ma in grado di scatenare una tempesta della stessa potenza con cui il casotto venne spazzato via a Los Alamos dal test nucleare d’esordio.
A partire dal frammento subliminale, fino al lungometraggio, senza soluzione di continuità assistiamo agli ipocriti messaggi del politicamente corretto, ideologia del pensiero unico, grande seno culturale dal quale negri, froci, giovani, femministe e arcobalenati, tutti corrono a succhiare la loro dose di presunta emancipazione. In quale altro modo chiamare un bene superficiale, foruncolo sulla pelle della storia, vuoto del potere spirituale radicato nel cuore dell’uomo e sinonimo di vita?
Vivere credendosi entità indipendenti, d’essere altro dal cosmo, fondando se stessi su un’idea, nient’altro che un soffio pronto a disperdersi nell’aria, ha un che di commedia, ma anche, e soprattutto, di farsa e tragedia.
Se in questo tempo detto post ideologico si crede di essere salvi dai legacci che le somme ideologie imponevano ai pensieri, come dice la mia amica Giulia, siamo caduti dalla padella di esse alla brace di ideologie assai peggiori, come quella dei diritti individuali, che nulla hanno a che vedere con l’equilibrio e tutto con la tempesta.
Nel turbinare di maya, ottusamente appesantiti dal carico di fuorviante tecnologia, tronfi della specializzata competenza analitica, stupidamente andiamo alla ricerca della storicità del Cristo e di Castaneda, credendo di poterla escludere o dimostrare, come se ciò fosse ragione o meno dell’attendibilità delle loro parole. Intanto, ridiamo di quanto ci hanno lasciato, senza perciò tenerne conto alcuno nel nostro fare. Quindi abbiamo immolato, senza viverne il sacrificio, l’anima del mondo, abbiamo eletto il pensiero analitico e le sue specializzazioni a solo strumento della conoscenza, abbiamo fatto della tecnologia e del digitale un’ara bicefala alla quale prostrarci, con la quale costruire politiche e modelli educativi, abbiamo deciso di amministrare la vita, trasformando in un vero inferno il paradiso che potrebbe essere.
Spegniamo la violenza degli algoritmi, osserviamo cosa viene impiccato dall’intelligenza artificiale, domandiamoci cosa questo tipo di progresso, senza vita né amore, comporti per l’uomo, per la sua identità, forza, creatività e benessere.
Relazionarsi al mondo attraverso l’anonimo, inidentitario e gelido criterio digitale, in sostituzione di quello caldo e variabile analogico, è l’ultima scellerata scelta della vanità umana, che, senza dircelo, secondo quanto visto finora, ci ha portati nel punto mortifero in cui ci troviamo, un territorio arso dalla guerra, coperto da un cielo plumbeo, senza più la speranza di uno squarcio di saggezza.
Sediamoci sul muretto di pixel favorito, e cerchiamo di trovare il senso illuminante di cosa significhi seguire una via con il cuore.
Lorenzo Merlo