”Amare è imparare a trascendersi. Chi fa l’esperienza di amare compie un salto esistenziale e sposta la propria vita su un livello superiore, nel quale l’anima è capace di affrontare la vita da una prospettiva totalmente diversa.
Amare è imparare a trascendersi
Amare non è da tutti; amare di amore vero non è un istinto, quello semmai è l’attrazione, ma è un processo che mobilita tutte le energie spirituali di una persona e il cui esito non è affatto scontato: nella maggior parte dei casi la tensione si esaurisce e ricade su se stessa; in pochi casi essa si realizza pienamente nel trascendimento di sé. Quando ciò avviene, la vecchia persona muore e scompare e al suo posto emerge una persona del tutto nuova, raffinata e nobilitata dall’amore ma anche temprata dalla sofferenza: perchétrascendersi significa soffrire. In altre parole, chi fa l’esperienza di amare compie un salto esistenziale e sposta la propria esistenza su un livello superiore, nel quale nulla è più come appariva prima, e l’anima è ormai capace di affrontare la vita da una prospettiva totalmente diversa, più libera e sicura, più comprensiva e rasserenante. La cosa in apparenza paradossale è che, per giungere a tanto, di solito l’oggetto dell’amore, cioè la persona amata, deve uscire dalla relazione fisica, non appartiene più al mondo delle passioni carnali; vale a dire che è intervenuta una definitiva separazione fisica, oppure la separazione della morte. Chi ha letto laVita nuova di Dante comprende di cosa stiamo parlando: né la distanza, né la morte possono spezzare un vero amore, ma al contrario lo assolutizzano e lo spostano in una regione spirituale così rarefatta, ma anche così autentica, che nulla e nessuno lo potranno mai più incrinare. D’altra parte, il possesso fisico della persona amata non è l’essenziale; se esso viene meno, o se pure non c’è mai stato, ciò contribuisce a far cadere il velo della apparenze e permette alle due anime di vedersi interamente per ciò che sono, nella loro essenza, senza più alcuna deformazione dovuta alla dimensione carnale. Troppe cose ostacolano il godimento totale di due anime che si amano, finché permane la dimensione carnale: la salute, l’età, la disponibilità economica, tutto il lato materiale dell’esistenza, anche nei suoi aspetti più impietosi e grossolani. Non vogliamo con ciò dire che il vero amore non possa comprendere anche il lato materiale; se così fosse, il matrimonio e la formazione di una famiglia escluderebbero la possibilità del vero amore, il che non è vero. Diciamo piuttosto che quando cadono i veli della dimensione terrena, l’anima si mostra nella sua essenza e chi ne è innamorato trova in essa tutto ciò che può desiderare, senza alcun elemento di distrazione: l’età, le rughe, un difetto fisico, una menomazione, o semplicemente la povertà e quindi un aspetto poco curato o poco attraente.
Friedrich Hölderlin (1770-1843)
L’amore profondo e assoluto è piuttosto raro, anche perché richiede l’incontro di due anime di pari valore, entrambe capaci della più alta generosità reciproca ed entrambe disposte e desiderose di perfezionarsi spiritualmente, quindi di accettare i più grandi sacrifici pur di affinarsi e innalzarsi; mentre tutto, nella cultura moderna, spinge le persone a porre le loro reciproche relazioni su di un piano grossolano, utilitaristico e finalizzato al raggiungimento del massimo piacere fisico nel più breve tempo possibile, per poi passare alla ricerca di altri piaceri e altre esperienze gratificanti, ma sempre in modo egoistico e superficiale. A fare l’esperienza dell’amore assoluto è stato il giovane poeta Friedrich Hölderlin (1770-1843), la più alta voce lirica del romanticismo tedesco, allorché il destino lo condusse a far la conoscenza di una donna che possedeva i requisiti per fare, con lui, la medesima esperienza, scevra di qualsiasi elemento volgare e grossolano. Orfano di padre, coltissimo, geniale, ombroso e solitario, si è laureato in teologia ed è divenuto pastore, ma non ha mai assunto tale incarico, per il quale non si sente portato; avrebbe meritato una cattedra universitaria, che gli consentisse uno stipendio regolare e un impegno di poche ore d’insegnamento, lasciandogli del tempo libero per la poesia. Tuttavia nessuno sembra accorgersi del suo enorme talento, neanche Hegel, né Schiller, né Goethe, o forse sì, ma la gelosia lo rinchiude in un recinto d’incomprensione, e per guadagnarsi da vivere deve adattarsi a una professione che non gli è affatto congeniale, quella del precettore privato. I nobili e i ricchi borghesi che assumono un precettore lo considerato alla stregua di tutta l’altra servitù, dato che gli passano uno stipendio (ne sa qualcosa il nostro Parini) e perciò non ritengono necessario usare alcun particolare riguardo nei suoi confronti. L’amor proprio del giovane poeta, già di per sé intimamente instabile e lacerato, sognatore e distratto, cioè perso continuamente nei suoi pensieri di bellezza assoluta (Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l’uomo), ne avrebbe sofferto terribilmente. Eppure, proprio in una di queste case, quella del banchiere J. F. Gontard, incontra la sola persona al mondo che avrebbe potuto dargli ciò che cercava, la pace dello spirito e una profonda gioia di vivere (sono parole sue). Quando Hölderlin entra in casa Gontard, la madre dei suoi due alunni è nel pieno del suo fragile splendore: minata dalla tisi, le restano pochissimi anni di vita, e a lui restano pochissimi anni di coscienza prima che le tenebre della follia calino per sempre sul suo animo troppo sensibile, inadatto alla vita nella sua dimensione pratica e quotidiana. Suzette è una donna giovane, delicata, sensibile, molto bella e molto intelligente, che resta affascinata dal poeta malinconico e introverso, come lui di lei, nella quale vede l’incarnazione del suo ideale di bellezza greca, e fra i due divampa l’amore. L’idillio dura dall’estate del 1796 all’inizio del 1798; poi il marito si accorge dell’intimità che esiste fra loro, diventa geloso e il giovane precettore, offeso da un’ennesima espressione irriguardosa del suo datore di lavoro, con la morte nel cuore deve allontanarsi. Per qualche mese resta nei pressi, e i due innamorati si vedranno ancora qualche volta, scambiandosi, soprattutto, una quantità di lettere struggenti; poi Hölderlin dovrà andarsene definitivamente, troverà un altro posto di precettore, nella lontana Bordeaux, da cui si staccherà bruscamente, e rientrando in Germania, a piedi, affaticato, stravolto, verrà a sapere della morte di lei, precipitando poco dopo nel pozzo di una quieta e irreparabile follia, dalla quale, come più tardi Nietzsche, non sarebbe più uscito sino alla fine dei suoi giorni.
Busto di Suzette Gontard nata Borkenstein 1793-94
Un ritratto di Suzette Borkenstein, che nelle poesie di Hölderlin diverrà la greca Diotima, è stato tracciato dal germanista Vincenzo Errante (1890-1951) nella sua biografica di Hölderlin (La lirica di Hölderlin, Firenze, Sansoni, 1943, vol. 1, pp. 32-34):
Diotima scrive nascostamente al suo poeta. Nascostamente, riceve lettere da lui. Nascostamente i due innamorati riescono qualche volta a vedersi…
Poi, a poco a poco, in entrambi, avviene come una catarsi lirica di questa separazione.
Nelle mirabili lettere di Suzette Gontard all’amato (quelle di lui sono andate quasi tutte smarrite), l’eterno rapimento d’amore, soffocato all’esterno, ribolle da prima, dentro, in fiamme di umana fremente passionalità, che sembrerebbero travolgere la donna a occhi chiusi, soggetta soltanto ai turbini del cuore. Più tardi, sotto l’azione di una lente, acetica ed eroica, magnifica riconquista di se stessa, Diotima si converte invece a un nuovo imperativo categorico. Non tanto a quello che le imporrebbero i suoi doveri di madre e di sposa. Quanto a quello, che le comanda di sacrificarsi alla potenza di perfezionamento etico e d’ispirazione poetica di questo amore immortale: “Se deve essere che noi si divenga vittime del destino, promettimi di liberarti di me, e di vivere in modo che possa renderti ancora felice: nel miglior modo, per compiere il tuo dovere nel mondo. E che l’immagine mia non ti sia d’ostacolo! Solo questa promessa può darmi la pace. Amarti come t’amo, nessuna creatura potrà più mai. Amare come m’ami, non porrai più: perdonami questo desiderio egoistico. Io ho già assolto, in parte, il mio compito. Ho ricevuto da te più di quanto non avessi diritto d’avere. Il mio tempo è passato. Ma tu dovresti avviarti soltanto adesso a vivere e ad agire. Fa’ chi’io non ti sia d’impaccio! Non trascorrere la vita, sognando un amore senza speranza!”
In questa magnifica riconquista etica di se stessa, Suzette Gintard si distingue dalle altre donne, romantiche, amate dai poeti e dai filosofi del Romanticismo tedesco. Ripensiamo a Caroline Schlegel e a Dorothea Veit, che altra legge non riconobbero all’infuori del cielo abbandonarsi, al di sopra d’ogni convenienza sociale, all’imperativo categorico dell’amore-passione soltanto; e che non esitarono per ciò a distruggere e a ricostruir focolari domestici, per cedere al raptus appunto soltanto di un amore-passione, considerato sentito e venerato come una travolgente, sacra potenza cosmica, cui sarebbe colpa, anzi delitto, resistere.
Anche in Hölderlin, allora, la disperazione convulsa, a poco a poco, si placa e si rassegna. Si rassegna, elevandosi al pensiero che il distacco dei corpi era stato indispensabile, perché le anime potessero restare in eterno congiunte. Tutto, al mondo, è caducità. Ma a questa legge inesorabile sfuggono gli Amanti che, come gli Dei, se ne stanno al di sopra dello spazio e al di fuori del tempo. Anch’essi, divini. Anch’essi, immortali… Attraverso questo stato d’animo, il poeta si trasfigura nel personaggio lirico del greco Menone, che piange non il distacco dalla sua Diotima, ma addirittura la morte di lei. E tuttavia avverte che giorno alfine verrà, in cui le anime si ricongiungeranno. O in una landa ultraterrena. O ancora sulla terra: in un’isola beata, simile alla divina Ellade antica. Ne sgorga, col pianto d’un flauto che si sveni in melodia, il “Compianto di Menone per Diotima”: con la goethiana “Elegia di Marienbad”, uno dei più alti vertici espressivi raggiunti dalla rinunzia d’un poeta all’amore.
Quando, nella primavera dell’800, fallitigli un’altra volta il tentativo di costruirsi una vita libera di poesia entro i limiti d’una qualsiasi sistemazione pratica a Homburg, Hölderlin abbandonerà la cittadina del Taunus, Suzette Gontard sarà la prima a spingerlo verso i nuovi destini. E si ritirerà nell’ombra. E scomparirà poi giovanissima, di qui solo due anni, quasi per uniformarsi alla sorte di una Diotima-personaggio nel romanzo lirico “Hyperion”, mentre il suo poeta lotterà ormai invano contro le tenebre paurose, invadenti, della demenza.
La cosa che Vincenzao Errante giustamente sottolinea è la generosità di questa donna, la quale seppe sacrificare tutto, anche se stessa, per far dono totale di sé all’amato, non desiderando altro che la sua felicità e la sua realizzazione e accettando di farsi nell’ombra, non solo fisicamente, ma anche nei suoi pensieri e nei suoi ricordi. Abbiamo detto altre volte che la donna è meno intelligente e meno sensibile dell’uomo e, inoltre, che la donna intellettuale è una pessima compagna di vita per suo marito; ma abbiamo anche detto, con Nietzsche, che, quando ci s’imbatte nel tipo femminile superiore, bisogna riconoscere che esso è capace d’innalzarsi più in alto del tipo maschile superiore; in altre parole, non c’è limite che possa contenere la sua generosità, la sua capacità di donarsi. Esistono, purtroppo, anche donne che simulano la propria appartenenza al tipo femminile superiore. Cercano di piacere al maschio adottando una strategia falsamente spirituale, ma non cercano altro, come il tipo inferiore, che di aggiungere un’altra tacca al loro carniere, per soddisfare la loro vanità narcisista. Quando un tipo femminile così s’imbatte in un tipo maschile superiore, per un po’ sembra che le loro anime si siano incontrate nelle circostanze ideali affinché vi sia il reciproco e perfetto dono spirituale. Ma poi la donna, raggiunto lo scopo di sentirsi gratificata, si tira indietro e nega di aver mai provato quei tali sentimenti, che pure ogni suo sguardo e ogni sua parola recavano scritti chiaramente. Ciò accade soprattutto se si tratta di una donna sposata e madre di figli, la quale non vuol ammettere d’essersi innamorata per non sentirsi una poco di buono. Ma il caso di Suzette/Diotima, che era appunto moglie e madre, dimostra che una donna può confessare il suo amore, se effettivamente lo prova, senza venir meno ai propri doveri, ma come pegno di lealtà e sincerità nei confronti dell’uomo che ha illuminato la sua esistenza, e che a sua volta si è lasciato illuminare da lei. È una relazione delicatissima, nella quale si cammina sul filo del rasoio; tuttavia è possibile essere sinceri sino in fondo con l’amante pur conservando la padronanza di sé e il rispetto dei propri doveri: riconoscere l’amore non è una colpa né un peccato, se tale sentimento rimane nella sfera spirituale e se ci si astiene dal creare le occasioni che possono farlo scivolare in quella materiale. Dopo di che, la vita continua e ciascuno seguirà la strada del proprio dovere: che non può essere se non il rispetto del coniuge e dei figli, perché la famiglia è sacra e nessuno ha il diritto di sfasciarla per inseguire il miraggio di una felicità puramente egoistica.
La grandezza del tipo femminile superiore, rappresentato da Suzette Borkenstein, è proprio questa: ammettere la verità del proprio sentimento, e tuttavia restare sposa e madre fedele. Ciò comporta una tensione fortissima e una enorme capacità di sacrificio; ma il premio è il salto qualitativo nella dimensione spirituale più alta. Chi ha compiuto un simile salto, passando per la porta stretta del dolore, diventa una creatura diversa, che vede il mondo con occhi nuovi ed è pronta a vivere in maniera totalmente rinnovata, libera dalle scorie della carnalità e dell’egoismo. Chi non sa fare quel salto, o chi, peggio ancora, pretende di giocare con l’amore, ingannando se stesso e l’anima che ha incontrato sul suo cammino, si condanna da sé al peggiore dei castighi: quello di un inferno senza alcuna speranza di redenzione
Francesco Lamendola
Copertina: Antonio Canova, Amore e Psiche (1793), museo del Louvre, Parigi
Francesca Rita Rombolà
19 Settembre 2019 a 16:17
Holderlin… fra le più profonde e le più elevate voci del romanticismo tedesco. Non sono d’accordo che la donna sia meno intelligente, meno sensibile e intuitiva dell’uomo. Sì, l’Amore(con la A maiuscola)è più forte della morte è va oltre la morte. E’ immortale, non conoscendo limiti di spazio e di tempo. E’ simile agli dei, anzi per i greci antichi era un dio in tutto e pere tutto.