”Sui campi e sulle strade/silenziosa e lieva/volteggiando,la neve/Cade./Danza la falda bianca/nell’ampio ciel scherzosa,/Poi sul terren si posa/Stanca.
La danza della neve.
Ada Negri
L’Artico cambia più velocemente del previsto, il mare si scalda, il ghiaccio si scioglie, aumentano l’attività umana e l’interesse commerciale internazionale.
Il riscaldamento climatico, ma soprattutto l’appetito crescente per i minerali e gli idrocarburi dell’Artico, minacciano lo stile di vita tradizionale dei nativi, che non possiedono la terra che fu dei loro avi su cui pascolano le renne o cacciano e la devono dividere con sempre più numerose attività estrattive, commerciali e infrastrutture. I pascoli si riducono e le renne non riescono a migrare alla ricerca di cibo. Del resto la Dichiarazione Onu sui diritti delle popolazioni indigene del 2007 è stata votata dai Paesi scandinavi ma non da Usa, Russia e Canada (che ha fatto marcia indietro nel 2016) e comunque è generica e non vincolante.
La mostra che c’è stata in aprile alla Casa dei Tre Oci a Venezia sull’isola della Giudecca, è una mostra che ha fatto riflettere. Si intitolava Artico. Ultima frontiera e ruotava attorno ad alcuni temi cruciali: la difesa di uno degli ultimi ambienti naturali non ancora sfruttati dall’uomo, l’allarme per il riscaldamento globale, la sostenibilità ambientale necessaria, la dialettica tra natura e civiltà. Curata da Denis Curti, le foto scattate da tre maestri della fotografia di reportage: l’italiano Paolo Solari Bozzi (1957), l’islandese Ragnar Axelsson (1958) e il danese Carsten Egevang (1969). Attraverso tre angolazioni, indagavano su alcuni Paesi ed aree del Pianeta. Groenlandia, Siberia, Canada, Alaska, Islanda. Dunque, natura ma anche antropologia, nell’esistenza quotidiana di 150 mila individui della popolazione Inuit, costretti a vivere in un ambiente ostile.