La tentazione gnostica di considerare la carne umana solo come fardello e non come sede di anima e spirito s’insinua nella mente di chi – come Yuval Noah Harari – pensa l’umanità come prodotto della scienza.
Yuval Noah Harari è uno storico, saggista e professore universitario israeliano. Nel 2012 è stato membro della Giovane Accademia israeliana delle scienze, insegna all’Università Ebraica di Gerusalemme. Di recente ha pubblicato un libro Homo Deus: Breve storia del futuro (Bompiani, pagine 668, euro 25,00).
Ecco le prime righe:
All’alba del III millennio, l’umanità si risveglia, allunga braccia e gambe e si strofina gli occhi. Reminiscenze di un incubo spaventoso ancora le attraversano la mente. “C’era qualcosa con il filo spinato, e gigantesche nuvole a forma di fungo. Oh, be’, si è trattato solo di un brutto sogno.” In bagno l’umanità si lava la faccia, esanima allo specchio le rughe sul viso, poi si prepara una tazza di caffè e apre la sua agenda. “Vediamo che cosa c’è in programma oggi” […]
Dunque, cosa dobbiamo aspettarci dal futuro? Harari dipinge uno scenario che noi, disfattisti dediti al mugugno, non avevamo considerato, per quanto la nostra condizione umana, costretta fra guerre, terrorismo e disuguaglianze economiche sempre più estreme, possa sembrarci miserevole, parrebbe invece che non siamo mai stati meglio da quando l’uomo è apparso sulla terra. «Per la prima volta nella storia si muore più per colpa degli eccessi alimentari che per la mancanza di cibo»: non che la fame sia stata sconfitta ma, secondo Harari, dovremmo riconsiderare il nostro presente e, soprattutto, il nostro futuro. E ancora: «… sempre più persone muoiono di vecchiaia più che di malattie infettive e c’è più gente che si suicida di quella che viene uccisa in azioni di guerra, attacchi terroristici o atti criminali». Roba da restare a bocca aperta, considerato che a snocciolarla è un accreditato studioso richiestissimo per conferenze nei luoghi più prestigiosi del mondo.
Correva l’anno 1964. Davanti a una telecamera della BBC, Sir Arthur C. Clarke, prevedeva che entro l’anno 2000 le persone sarebbero state in grado di comunicare istantaneamente con i loro amici, persino senza aver idea di dove si trovassero. L’autore di 2001: Odissea nello spazio prefigurava un mondo in cui la distanza non era un ostacolo e gli affari potevano essere gestiti con la stessa facilità da Haiti o Bali come da Londra. Eppure, mentre in effetti preconizzava l’avvento di Skype e la diffusione di internet, lo scrittore prevedeva anche che il “problema dei servitori” per le famiglie nel nuovo millennio sarebbe stato risolto da grandi scimmie biologicamente ingegnerizzate, addomesticate e addestrate a svolgere le mansioni che noi umani ritenevamo sgradevoli. L’unico inconveniente, suggerì Clarke, era che alla fine questi “super scimpanzé” avrebbero formato i sindacati e così «ci ritroveremo esattamente dove siamo partiti». Spiritoso. Sir Arthur non si preoccupava se le sue previsioni si sarebbero rivelate vere e, da questo punto di vista, lo scrittore di fantascienza era un vero futurologo.
Peccato che di tutto questo i baldanzosi futurologi, che con tanto ardimento e tanta passione, amano descrivere quello che sarà negli anni a venire non ne tengano conto che carne e corpo, spesso, intrappolati in un delirio gnostico di negazione della materia, sfuggono alla considerazione di molti analisti che preferiscono fare i conti senza di loro.
Lo sviluppo tecnologico accelerato del XXI sottoporrà l’uomo a un tale flusso di informazioni da renderlo obsoleto e inutile costringendolo a gestire quantità di informazioni a cui non riesce a fare fronte. Saranno sviluppati così algoritmi più efficaci dell’uomo che finiranno col renderlo superfluo. E forse sostituirlo. Il futuro annunciato è terribile. I Sapiens si sono evoluti nella savana africana decine di migliaia di anni fa e i loro algoritmi semplicemente non sono attrezzati per gestire i flussi di dati del XXI.
Perderà così valore l’uomo fino a scomparire. Le decisioni non sarebbero frutto della sua azione o della sua libertà.
La stessa regola è ancora seguita da una nuova ondata di futurologi professionisti che vengono assunti dalle aziende per immaginare il mondo che abiteremo tra 20,30 o anche 50 anni.
La futurologia, a lungo considerata appannaggio degli scrittori di fantascienza, eccentrici o ciarlatani, sta diventando un fenomeno consolidato. Dal Texas a Berlino, le università cominciano a proporre tra i loro insegnamenti anche gli studi sui futuri e un numero crescente di aziende stanno costituendo i cosiddetti “team di lungimiranza” per aiutare i loro staff a prepararsi – non tanto per la “prossima grande cosa”, quanto per quello che potrebbe (o non potrebbe) venire dopo.
«Non si tratta di prevedere le cose. È più che altro una riflessione sulle possibilità, su come accrescere la consapevolezza delle aziende e sulla loro capacità di adattamento», afferma Josef Hargrave, responsabile globale del servizio di previsione presso la società di consulenza ingegneristica Arup.
Ridurre l’uomo a reazioni chimiche e a produttore di dati significa perderlo al punto che «nel XXI secolo è più probabile che l’individuo sia inavvertitamente disintegrato dall’interno che brutalmente distrutto dall’esterno». Ecco l’avvertimento che Yuval Noah Harari lancia agli uomini perché si avvedano del «condizionamento contemporaneo al fine di allentare la sua presa e consentirci di pensare al nostro futuro in maniera assai più creativa».
Peccato che dimentichi, in tutto questo, il corpo. Come già San Paolo nella Lettera ai Corinzi non se ne dimentica. Non a caso ammonisce che il corpo «è tempio dello Spirito Santo».
BIBLIOGRAFIA:
Homo Deus: Breve storia del futuro (Bompiani, pagine 668, euro 25,00).