Era un venerdì di quel maledettissimo giorno del 22 novembre 1963, quando alle 12:30 tre colpi in rapida sequenza squarciarono l’aria della Dealey Plaza di Dallas, in Texas. Furono sufficienti 8,3 secondi, secondo la maggioranza degli esperti, il tempo che trascorse tra la prima e l’ultima detonazione, sufficiente ad assassinare John Fitzgerald Kennedy il 35° presidente degli Stati Uniti d’America, uno dei presidenti più celebrati nel Novecento, mentre il governatore del Texas John Connally restava gravemente ferito.
Kennedy aveva solo 46 anni.
In quegli anni si era nel bel mezzo di una della Guerra fredda, gli americani, per la prima volta, scoprirono di essere una nazione terribilmente vulnerabile. A cinquantaquattro anni da quell’assassinio a Dallas, non è stata ancora raggiunta alcuna certezza sull’autore, o sugli autori. La famosa “Commissione Warren” (dal nome del suo presidente della Corte suprema Earl Warren) che la istituì nel 1964, dichiarò che l’unico colpevole era Lee Harvey Oswald, e che abbia agito da solo utilizzando un vecchio fucile Carcano (per altro arma piuttosto efficiente), comprato per posta. Tutto ciò ha creato infinite teorie del complotto, complotto che le provate e svariate congetture non sono riuscite a comprovare nulla. Da quel momento oltre mille libri e biografie con il suo nome – saggi, inchieste giudiziarie e indipendenti, film e fiction televisive in cui sono state avanzate le più varie ipotesi di cospirazione anti kennediana -, prendendo spunto da fatti reali collegati in maniera tale da formulare un’interpretazione che spieghi, con apparente semplicità, eventi complessi. In tutti quegli scritti c’è però un comune denominatore, un elemento veritiero che li accomuna, e cioè la pluralità degli sparatori da luoghi diversi. Era cosa abbastanza nota che l’FBI diretta da Edgar G. Hoover, fosse un nemico acerrimo dei Kennedy. Non da meno era la CIA che si lamentava del presidente, perché non aveva autorizzato l’intervento militare a sostegno dello sbarco anticastrista, fallito alla Baia dei porci di Cuba.
Ma che entrambe le agenzie avessero più volte avuto per le mani il marxista Oswald, e che questi avesse fatto avanti e indietro dall’Urss e che avesse apertamente criticato la politica di Kennedy verso L’Avana, certamente fu un grave errore. Soprattutto non indagarono a fondo il suo viaggio a Città del Messico dove si recò all’ambasciata cubana. Ovviamente dopo la morte del Presidente fecero tutto il possibile per far passare sotto traccia i loro errori.
L’episodio della Baia dei Porci fu un disastro che creò una frattura tra Kennedy e la CIA. L’operazione, programmata dal direttore della CIA Allen Welsh Dulles, durante l’amministrazione Eisenhower, fu lanciata nell’aprile del 1961, neanche tre mesi dopo l’insediamento di John Kennedy alla presidenza. L’invasione sarebbe servita a rovesciare il regime di Fidel Castro, messo in atto da un gruppo di esuli cubani e di mercenari, addestrati dalla CIA, che progettavano di conquistare Cuba a partire dall’invasione della parte sud-ovest dell’isola. Le forze armate cubane, equipaggiate ed addestrate dalle nazioni filo-sovietiche del blocco orientale, sconfissero la forza d’invasione in tre giorni di combattimenti.
Altre teorie che vedevano Cosa nostra, che aveva più d’una ragione per far fuori John Fitzgerald Kennedy, e bloccare così le inchieste sul crimine organizzato del fratello Robert, ministro della Giustizia, vendicando così il tradimento verso chi aveva contribuito all’elezione del presidente, assoldando Jack Ruby, delinquente di piccolo calibro, per assassinare Lee Harvey Oswald.
Anche la riduzione delle tariffe sul petrolio e l’acciaio, e il complesso militare-industriale, di temere l’abbandono del Vietnam, già annunziato dalla Casa bianca, nonostante le migliaia di consiglieri inviati per pilotare la guerra contro il Nord comunista, avrebbe dato un pretesto di contrastare Kennedy. Le teorie più inquietanti vedono nel vicepresidente Lyndon B. Johnson, il principale burattinaio del complotto in combutta con i segregazionisti del Sud, il motivato timore era di non essere candidato nei probabili sfidanti alle presidenziali Democratiche del novembre 1964.
L’elenco delle teorie cospirative potrebbe continuare all’infinito senza per questo trovare una verità definitiva sull’uccisione di Kennedy. Quello che si può dire con certezza è che l’elezione di John Fitzgerald Kennedy, se pur sancita da un ristretto margine di voti, fu per l’America un’immagine di grande speranza, di giovinezza e vigore. La sua morte ha indotto molti americani a elevarlo al rango di grandi presidenti come George Washington o Abraham Lincoln. I critici di Kennedy evidenziavano, invece, le sue avventure sessuali a volte sconsiderate, e un continuo rischio per la sicurezza. Dietro l’ immagine luminosa e la leggenda di un Camelot, sotto il ciuffo il sorriso e le donne, la vita di John Fitzgerald Kennedy fu la storia di un calvario di malattie e di dolori che soltanto i proiettili di Dallas interruppero, quasi come un colpo di grazia. Quello che si riteneva il più affascinante dei presidenti americani, sotto quel sorriso, egli nascondeva una Via Crucis. Otto pillole diverse che doveva inghiottire ogni giorno per combattere l’osteoporosi che già a 40 anni, il male degli anziani che corrode le ossa, lo aveva colpito. La colite spastica, la depressione, l’insonnia, la spossatezza e l’eccitazione scatenate dalle disfunzioni ormonali, la farmacia che doveva ingerire per sopravvivere, gli ascessi alla colonna vertebrale che invano gli ortopedici avevano tentato di irrobustire con placche di titanio. Il piccolo dramma quotidiano di un uomo che non riusciva a infilarsi più le calze da solo e divenne la possibile tragedia del mondo, nei giorni dello scontro con la Russia su Cuba, quando i medici dovevano pomparlo di analgesici e steroidi per tenerlo in piedi e lucido.
Le amicizie in odor di mafia, fu un temibile strumento nelle mani dei rivali. Se l’elezione del presidente Eisenhower (1952-1960) favorì la crescita del benessere delle classi medie, pur caratterizzata da un conformismo sociale. Il suffragio del giovane leader ebbe l’effetto di smuovere i ceti più dinamici della società americana, cosa che turbò molti ambienti conservatori. Nel giugno del 1963 con il Civil Rights Bill favorì l’integrazione razziale, deliberato da suo fratello Bob e da Martin Luther King, questo in tema di politica interna. Nei rapporti internazionali, uno dei risultati più importanti fu la gestione della crisi dei missili di Cuba nel 1962, disinnescando quello che probabilmente poteva essere l’episodio più rischioso per una guerra nucleare. Inoltre il famoso discorso tenuto al Rudolph Wilde Platz il 26 giugno 1963 di fronte al Muro dove pronunciò la celebre frase: “Ich bin ein Berliner” io sono un berlinese, diede prova di fermezza anticomunista. In seguito intensificò i rapporti internazionali tra Est-Ovest ammorbidendo i toni in piena Guerra Fredda, avviando le trattative per la riduzione degli armamenti nucleari.
Il politologo Joseph Nye sostiene che Kennedy è stato un buon presidente, ma non un grande presidente. Tra i suo meriti annovera non soltanto la sua capacità d’ispirare gli altri, ma la prudenza mostrata quando si trattava di decisioni di politica estera complesse. È un peccato averlo perso dopo soli mille giorni, conclude Nye.
Dopo tutte le congetture, sui mille complotti, in questo continuo gioco di luci e ombre, a cinquanta quattro anni dalla sua morte prematura, forse è venuto il momento di riflettere maggiormente su ciò che è stata la presidenza di John Fitzgerald Kennedy nella storia contemporanea.