Una premessa è d’obbligo. Oggi i genitori sono sempre più ostaggio dei loro figli, incapaci di crescerli, sono educativamente assenti. Non solo delegano a scuola, Chiesa e Stato, ma se questi ultimi puniscono, si ergono a difensori dei figli anche quando questi sono indifendibili. Per costoro non esiste la parola “proibire”, tutto è praticabile al fine di una esperienza individuale.
Non è proibendo che si accresce la responsabilità.
In uno dei primi Centri Regionali Anti-Droga fondato in Italia, si ricorda la polemica quando un collega preparò un librino da diffondere tra gli studenti: diceva che la marijuana dà un senso di «benessere». Lunga discussione, per correggere «benessere» in «euforia». Anche l’euforia è benessere, ma un benessere malato. Il ragazzo che prova la prima volta una tirata di spinello, o un quarto di pasticca, dice: «Tutto qui?». È una sensazione «di vittoria». La volta dopo fuma lo spinello tutto intero, o inghiotte tutta la pasticca. La pasticca è più pesante, certo. Ma il primo passo è pericoloso perché rende più facile il secondo. La pasticca si scioglie sprizzando un flash che brilla nel cervello, in quel lampo vedi di più, senti di più, hai l’impressione di godere di più. Ti piace. Ti piace che ti piaccia. Proverai quando vorrai, sei tu che comandi il giuoco. Chi ha la marijuana in circolo ha l’impressione che i colori si ravvivino e il tempo rallenti. È questo che dona euforia: il tempo si ferma, puoi goderti la vita con calma.
Proibire, dunque, significa esercitare un divieto che si basa su un principio di responsabilità da intendersi come limite. Dunque, non una responsabilità come ammissione di una colpa – ho fatto un incidente e ne sono responsabile – ma come limite di una possibilità d’azione.
Non si proibisce se non è chiaro il principio di responsabilità. Oltre una determinata soglia non è lecito andare. Chi sono coloro che si devono assumere il compito di tracciare quel limite, e ne hanno l’autorità, se non le istituzioni educative come famiglia e scuola. Il principio di responsabilità che deve esercitare il genitore è, per esempio, il limite di tempo per il ritorno a casa del figlio. Non lo fa in nome di una presunta libertà da concedere? È un pessimo genitore, cioè un irresponsabile. Così per gli insegnanti di scuola, sono innumerevoli gli esempi, che è facile da immaginare, in cui essi devono esercitare la responsabilità come limite.
Con maggiore responsabilità per il legislatore, dove il discorso non si discosta di una virgola da quelli fatti per famiglia e scuola. Il parlamentare che rifiuta di votare la liberalizzazione della cannabis decide, sulla base di conoscenze scientifiche apprese, di valutazioni personali e di esperienze note, di mettere un limite all’autonomia decisionale del singolo. In realtà non proibisce, esercita il proprio principio di responsabilità da intendersi, appunto, come limite.
Ci sono studi che mostrano come dalle cosiddette droghe leggere si passi progressivamente a quelle pesanti: quindi, mettere subito un limite all’assunzione delle prime vuol dire arginare la deriva che può portare alle seconde. L’effetto della droga, stando a diverse confessioni, è come un’onda che percorre il corpo, e l’onda dà la sensazione che adesso si sta bene mentre prima si stava male: la vita nella droga è sentita come guarigione, e la vita normale di prima è sentita come malattia. È malata la fretta, è malata la preoccupazione, è sana la calma, è sana l’indifferenza. Purtroppo la vita è una gara, e ritirarsi dalla gara significa ritirarsi dalla vita. L’euforia dura poco. Al calore subentra il freddo, che comincia dalle mani. Raffreddandosi, le mani tremano, se provi a scrivere fai degli scarabocchi. Allora subentra la paura, che in certi casi può diventare panico. La paura è maggiore negli studenti, minore nei lavoratori. Perché per lo studente la scrittura è un mezzo per rivolgersi agli altri, perdere la scrittura vuol dire perdere il mondo, essere perduto.
Un giovane, da parte sua, ha così di fronte a sé sia l’opportunità di seguire la strada maestra tracciata dalla legge, sia la possibilità di trasgredirla, di non rispettare il limite assumendone, però, le conseguenze. In questi casi il contenzioso politico crea generalmente il dibattito tra buoni e cattivi. I buoni sono quelli che inneggiano alla libertà della scelta, i cattivi sono gli oscurantisti reazionari. In realtà i primi sono dei relativisti che rinunciano all’esercizio di un principio di responsabilità perché non riconoscono il valore del «principio»: tutto è relativo. Si tratta di un vero e proprio nichilismo travestito da liberismo.
La comunità politica deve esercitare il suo principio di responsabilità: rinunciare ad esso, rimettersi alla decisione del singolo, è una sconfitta.