”Se il divertimento vi è piaciuto, offritegli il vostro applauso e tutti insieme manifestate la vostra gioia.
Svetonio
È uno dei gesti più inconsci che il nostro cervello ci porta a fare. Lo controlliamo poco. E spesso, molto spesso, lasciamo che sia la folla a determinarne inizio, intensità, durata. Noi semplicemente seguiamo la scia, ci adeguiamo, e qualche volta ci omologhiamo, anche se non siamo del tutto convinti della sua opportunità.
Alex Ross, critico musicale del New Yorker, in un suo saggio recente, si chiede quando sia il momento giusto per applaudire durante un concerto di musica classica, se sia etico influenzare lo spettatore tanto da indirizzare il suo applauso in un momento quasi predeterminato. Se vogliamo allargare la questione, andiamo a ritroso nelle nostre vite. Ecco, non era tanto lo spegnimento delle candeline sulla torta il giorno del compleanno, quanto l’applauso dopo il soffio sulle fiammelle che cercavano di resistere flessibili, sporgendosi dalle piccole aste di cera azzurra o rosa plastificata. L’applauso era spesso simultaneo allo spegnimento, al piccolo sbuffo di fumo dolciastro, talvolta era addirittura precedente di qualche frazione di secondo.
Ma dove prende origine quel gesto?
Nato nel periodo del teatro classico greco, perfezionato e regolato durante l’antica Roma, l’applauso ha attraversato secoli, e con la nascita della radio e soprattutto della televisione è diventato parte quotidiana nelle nostre esistenze. Da un punto di vista antropologico, l’applauso viene considerato come metafora dell’abbraccio, ovvero un abbraccio manifestato a distanza. L’applauso è dunque, fin dall’antichità, un modo per esternare la propria approvazione, il proprio consenso a una o più persone. Già gli antichi romani applaudivano i gladiatori vittoriosi nelle arene. Tale manifestazione consiste nel battere i palmi delle mani ripetutamente producendo un suono secco e forte che solitamente, unito agli applausi di altre persone, risulta simile a uno scroscio. L’entusiasmo del popolo e della plebe passarono sotto il controllo del potere. Presto il battito delle mani divenne molto importante in politica. Un equivalente dell’exit poll o del sondaggio di oggi. Il senatore il cui discorso conquistava più plauso sarebbe stato molto probabilmente il vincitore. La folla però era imprevedibile, incontrollabile. Ecco perché l’avvento dell’impero trasformò l’applauso in qualcosa di obbligato. Quando Cesare entrava nel Colosseo o tornava a Roma reduce da una campagna militare, il plauso del popolo gli era dovuto. Fu allora che nacque il concetto di claque.
Nell’antica Mesopotamia gli applausi venivano utilizzati per coprire le grida delle vittime sacrificali durante i riti religiosi. La storia, non soltanto quella recente, è piena di applausi: entusiastici o ironici, giusti o ingiusti, spontanei o indotti. Impulso inconscio scaturito dal cervello per scaricare un eccesso di energia e di sentimenti positivi, col tempo si è trasformato in un gesto convenzionale, dettato più dalle norme sociali che dalle emozioni. Ma quand’è che l’uomo ha cominciato a battere le mani in modo cosciente? Già nel libro dei Salmi (XI secolo a.C.) gli Ebrei venivano così incoraggiati: “Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia”. E come gesto di approvazione l’applauso venne formalizzato nel V secolo a.C. nell’antica Grecia, a teatro: vestiti a festa, per lo più in bianco, i 14 mila spettatori del teatro di Dioniso esprimevano in modo reboante le loro emozioni, tra scoppi di lacrime per pezzi di bravura eccezionale e applausi scroscianti accompagna-ti da grida.
Non che gli antichi Romani fossero più educati e discreti, anzi: “Quando un uomo viene azzannato, quando urla e scuote la polvere, nei loro occhi non c’è più pietà e con gioia battono forte le mani se vedono schizzare il sangue”, raccontava nel IV secolo il vescovo di Costantinopoli, Gregorio di Nazianzo. Il loro comportamento di fronte alle esecuzioni pubbliche nell’arena, ai giochi e ai combattimenti fra gladiatori, l’applauso, unito al pestare i piedi, era così rissoso il cui entusiasmo era spesso così scomposto, da arrivare alla violenza che l’imperatore Augusto fu costretto a disciplinare gli applausi dando agli spettatori un segnale di inizio. Non a caso, l’imperatore Augusto intervenne e regolò gli applausi, imponendo un disciplinatore che dava il segnale d’inizio.
A teatro, poi, il pubblico romano, eterogeneo, per lo più rozzo e distratto, andava solo perché l’ingresso era gratuito: spesso si annoiava, perciò nel I secolo erano gli stessi autori delle commedie a ricordargli il proprio dovere. “Nunc, spectatores, valete et nobis clare plaudite” (“Ora spettatori, a voi arrivederci, a noi un bell’applauso”), era la formula più comune per chiudere una rappresentazione.
Tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’epoca imperiale, l’importanza dell’applauso passò dalla scena teatrale a quella politica: i Cesari, primi attori sulla scena dell’Urbe, ne avevano bisogno proprio come chi recitava sul palco del teatro. Il motivo era lo stesso per cui i politici moderni hanno bisogno di followers su Twitter e di “mi piace” su Facebook: la ricerca del consenso popolare. Non sono casuali le parole che Augusto, sul letto di morte, rivolse ai suoi amici: “La commedia è finita, applaudite!”.
Il retore e politico Cicerone, che invitava i suoi amici a bighellonare intorno al Foro o al Circo Massimo, i luoghi più gettonati a Roma per assistere ai giochi e spettacoli prima dell’inaugurazione del Colosseo (80 d.C.), in una lettera scriveva che “I sentimenti del popolo romano si mostrano meglio nel teatro”. Lo scopo della “missione” era prendere appunti sulla quantità e la qualità degli applausi che ogni personaggio pubblico riceveva al suo arrivo. Il popolo comunicava con gli applausi e il loro volume, ritmo e durata descrivevano meglio di un exit poll gli umori della plebe e le fortune del politico cui erano diretti.
Anche per questo a Roma c’erano diversi modi di applaudire: con i palmi delle mani, come facciamo oggi, ma anche schioccando pollice e indice o scuotendo il bordo della toga. Quest’ultimo metodo fu rimpiazzato nel III secolo dallo sventolare dell’orarium, un fazzoletto usato dai benestanti per proteggere la bocca e naso dai cattivi odori dell’Urbe, ma che per primo l’imperatore Aureliano fece distribuire ai cittadini perché “non fossero mai sprovvisti di un modo per lodarlo”.
Più o meno nello stesso periodo, il vescovo di Antiochia Paolo di Samosata propose ai fedeli di impegnare in modo simile un telo di lino, durante le sue prediche: in meno di due secoli gli applausi ai predicatori più noti diventarono una consuetudine. Insomma, tutti, dagli attori agli imperatori, passando per gli uomini di Chiesa, avevano bisogno dell’approvazione del proprio pubblico. Non sorprende, quindi, che le prime due categorie cercassero di procurarsela a tutti i costi. Anche pagando. Già nell’antica Grecia, drammaturghi e attori preferivano poter contare su un minimo applauso garantito: racconta l’antico scrittore greco Plutarco che alcuni commediografi si procuravano un gruppetto di persone adeguatamente retribuite, le disponevano per tutto il teatro e le istruivano sui punti della commedia in cui far partire sentiti battimani. Con questo trucchetto, diceva, il famoso commediografo greco Filemone di Siracusa era riuscito a battere molte volte l’avversario Menandro.
A Roma, invece, lavoravano i laudiceni, uomini disposti a offrire il loro plauso a chiunque per soldi: alcune compagnie teatrali ne assumevano una decina, per manipolare la reazione del pubblico, prolungare gli applausi o fischiare gli spettacoli dei rivali. E da bravi “attori” della politica, gli imperatori facevano lo stesso, per evitare imbarazzanti silenzi al loro passaggio tra la folla. Nerone arruolò, pagandoli 400 mila sesterzi ciascuno, più di 5 mila fra giovani cavalieri e prestanti plebei. Il loro compito: battere le mani durante le sue esibizioni canore.
Per svolgere al meglio il proprio lavoro, nessuno di loro portava anelli alla mano sinistra: l’imperatore, infatti, era un tipo esigente, che non si accontentava di applausi normali. Voleva quelli che aveva sentito mentre era in viaggio ad Alessandria d’Egitto: “i mattoni”, “le tegole” e “le api”. I primi erano applausi a palmi aperti, per i secondi bisognava incurvare le mani più o meno secondo la forma della tegola romana, mentre il terzo era una specie di brusio fatto a bocca chiusa, che assomigliava molto al ronzio di uno sciame impazzito.
La moda degli applausi pagati ricomparve a teatro intorno alla fine del XVI secolo. Per tutto il Cinquecento, nelle corti rinascimentali che ospitavano spettacoli privati, nessuno poté mai applaudire più a lungo e più forte del principe o del padrone di casa; quando però in Europa cominciarono a comparire i primi teatri pubblici, tornò in auge l’uso della claque (dal francese claquer, cioè “battere schioccando”). In genere il merito (o demerito) della resurrezione di questa antica pratica viene attribuito al poeta francese Jean Dourat (1508-1588), che per la rappresentazione dei suoi drammi acquistava di tasca propria un mazzo di biglietti da regalare a chi prometteva di applaudire l’esibizione.
A Parigi, a partire dal 1820, comparvero agenzie specializzate che proponevano veri professionisti dell’applauso, della risata a comando o della richiesta di bis a tariffe piuttosto elevate: i costi si alzavano in base al tipo di prestazione richiesta, dall’applauso educato via via a salire per un applauso entusiasta o per i fischi rivolti a uno spettacolo di un concorrente. Per supportare i cantanti d’opera, nel 1919 al Teatro La Scala di Milano, il listino prezzi prevedeva il pagamento di 25 lire (30 euro attuali) per gli uomini e di 15 per le donne. Tra le claque di teatro e gli applausi di piazza rivolti a più o meno discussi leader politici dell’epoca, la differenza non è poi tanta: se non fosse per i metodi, a volte violenti, con cui venivano ottenuti i secondi. Certo c’era chi non aveva bisogno di pagare, come il leader sovietico Stalin: lo storico russo Aleksandr Solženicyn nel suo saggio Arcipelago gulag racconta che in una conferenza del partito i partecipanti accolsero l’arrivo del loro leader con dieci minuti di applausi, in piedi. Nessuno, conoscendone la terribile fama, voleva interrompere per primo l’ovazione: a rompere gli indugi fu il direttore di una fabbrica di carta che si mise a sedere, dando agli altri l’opportunità di seguirne l’esempio. A riunione conclusa l’uomo fu arrestato. In quel caso i poveretti avrebbero avuto davvero bisogno dell’invenzione dell’ingegnere Charles Douglass: la laff box la “scatola della risata” (dall’inglese to laugh, “ridere”) con cui, dal 1950, gli americani cominciarono a infarcire show e sitcom di applausi e risate registrate, talvolta fastidioso contorno a battute poco divertenti. Da allora gli applausi hanno cominciato a imperversare ovunque: come in chiesa per il sì degli sposi e durante i funerali, per chi ormai non può più udirli, o quando, su un volo charter, l’atterraggio è salutato da un battimani.
Il primo a ricevere questo dubbio omaggio fu Totò, nel 1967: ma la bara era vuota e quello il suo terzo funerale, celebrato a Napoli tre mesi dopo la sua morte. Nel 1973, invece, la folla applaudì il feretro dell’attrice Anna Magnani e l’eccezione diventò regola: oggi persino nella composta Inghilterra accade che durante le partite di pallone il minuto di silenzio venga sostituito da un minuto di applausi. Consoliamoci: c’è un illustre precedente: anche Dante fu accolto all’inferno dal “suon di man” dei diavoli sui corpi dei dannati.