Tutti siamo avvezzi alle narrazioni

Pieter Bruegel “La Torre di Babele I”, 1563 Kunsthistorisches Museum, Vienna.

BABELE, QOELET, ULISSE E NOI: UN VIAGGIO NEL POSTMODERNO

La società di oggi risulta essere sprovvista di una metanarrazione appoggiata dai più. Si vive in balia di un futuro non precisato, dove le persone tendono ad avere uno sguardo di indifferenza su ciò che accade e su ciò che si deve fare. Se la torre di Babele permette di identificare il crollo dei modelli, le parole di Qoelet aiutano a sottolineare le conseguenze di quello. Come l’Ulisse Dantesco, ci troviamo alla volta dell’infinito, ma la mancanza di una direzione forse non è una situazione tutta rosa e fiori


Tutti siamo avvezzi alle narrazioni: qualsiasi romanzo che leggiamo presenta uno sviluppo entro cui prende corpo il romanzo stesso. Questo corpo ovviamente deve avere un senso: esiste un punto iniziale, un punto A, da cui prendono avvio le vicende, nelle quali questo muta sempre di più fino a giungere, e quindi tramutarsi, nel punto finale, il punto B. Le vicende che si susseguono sono la diretta risposta di quello che il protagonista decide di fare, permettendogli quindi di essere costruttore delle vicende a cui andrà incontro. Tutto ciò può essere anche applicato non soltanto nella letteratura, ma anche nella società umana: nel momento in cui gli esseri umani decidono di battersi per alcuni valori, questi diventano un orizzonte da poter raggiungere dentro la società stessa, determinando così un cammino entro cui muoversi. L’unica differenza è che, se una narrazione viene consumata in modo privato, a tu per tu con il libro, una metanarrazione coinvolge direttamente, in ogni minima azione che viene svolta.

Nell’epoca moderna si sono susseguite numerose metanarrazioni: cristianesimo, comunismo, idealismo, positivismo. Tutte però hanno dovute fare i conti con il loro nemico per eccellenza: la realtà. Da dopo lo scontro violento con questa, queste metanarrazioni hanno disilluso molte persone, portando ad una condizione spaesamento in cui manca un orizzonte in cui vertere. Ed ecco l’avvento della società di oggi: la società postmoderna. Per poter analizzare questa nascita e caduta delle metanarrazione, possiamo prendere in considerazione un mito contenuto nell’Antico Testamento, come esemplificazione: stiamo parlando del mito della torre di Babele.

Nel mito, viene narrato come sulla terra tutti parlassero la stessa lingua, come se tutti riuscissero a capirsi sui significati e fini voluti: il mondo umano di fatto muove da un confronto e dalla discussione di idee, la possibilità di ritrovarsi tutti su un suolo comune permette di prospettare in modo concorde su come comportarsi nel divenire. Il passo successivo degli uomini, dopo una prima organizzazione delle fondamenta, è costruire una torre, appunto la Torre di Babele:

«Costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo, e facciamoci un nome, per non essere dispersi sulla faccia della terra.» (La Sacra Bibbia, CEI)

Ecco che qui si inizia a parlare di una meta ultima da raggiungere, il cielo, tramite l’applicazione concreta di valori che devono essere perseveranti e costanti nel tempo: i mattoni con cui la torre viene costruita devono essere posti da tutti, ognuno è chiamato a partecipare nella sua costruzione. I valori di una metanarrazione prendono vita solo se ognuno fa la sua parte entro essa. A questo punto, però, entra in gioco Dio stesso che, vedendo la costruzione di questa torre e capendo che il punto di forza di questo progetto è proprio la unità linguistica degli uomini, decide di provocare una frattura: tutti finiranno per parlare una lingua diversa, tanto che il progetto verrà accantonato:

«Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti la medesima lingua; e questo è quanto essi hanno cominciato a fare; […] Dunque scendiamo laggiù e confondiamo la loro lingua, affinché l’uno non comprenda più il parlare dell’altro”. Così il Signore da quel luogo li disperse su tutta la terra, ed essi cessarono di costruire la città.» (ivi)

Lontani da interpretazioni religiose, questo ‘Dio’ possiamo vederlo come il reale stesso che si fa avanti con le sue aporie all’opera di costruzione umana. Quello che l’essere umano può fare è applicarsi nella traduzione dentro il mondo di ciò che aspira, ma questa rimane un progetto puramente ideale: risulta impossibile considerare tutti i minimi fattori. Ogni immagine umana che vorrebbe condurre ad un risultato, si scontra con i dettagli della realtà stessa costringendo ad un compromesso, facendo venire meno il desiderio di unità che soggiace alla metanarrazione. Compromesso dopo compromesso, si fanno avanti pericoli di instabilità: e il rischio di una frammentazione nella ideologia in linee di pensiero diverse diventa concreto, proprio come accaduto alla diversificazione che accade nel mito della torre di Babele.

A seguito della frammentazione, si accendono i contrasti tra le linee di pensiero diverse interne alla stessa ideologia: rimane un fine comune, ma le soluzioni alle aporie sono su due binari diversi. Il risultato finale è che a lungo andare nessuno terminerà più la costruzione della torre, molti si disincanteranno persino di quel fine tanto desiderato e quei pochi rimasti saranno mossi più dal difendersi contro prospettive opposte che dal sapere davvero dove andare a parare. Il risentimento provocherà tentativi di riscossa, ma verrà appoggiato e ascoltato da pochi.

La dispersione ha un effetto: nel momento in cui nessuno bada più alla costruzione della torre, quella rimane pur sempre lì, non finita, occupando dello spazio. Caliamo questa situazione nella nostra società: tante torri di babele, nessuna portata a termine. Se la costruzione di una torre riguarda una univocità di tempo, l’abbandono di più torri porta a una eterogeneità e saturazione dello spazio. I fantasmi delle metanarrazioni non compiute continuano ad aleggiare nella società, come degli appannaggi che non vengono mai concretizzati. La società postmoderna si presenta come un cimitero di torri.

In mezzo a questo cimitero si muoveranno individui senza una direzione verso il futuro ma solo trascinandosi in questo spazio non uniforme, senza capire davvero del perché si dovrebbe prendere una posizione su qualcosa, preferendo muoversi con slogan e detti: risulta più facile farsi trascinare da frasi fatte che muovono i sentimenti piuttosto che scavare il ragionamento dietro di esse. E così si crea una individualità spenta, una individualità cinica priva di direzione che si costruisce un guscio di risposte pronte.

Questo cinismo non ha nulla a che fare con quello portato avanti da Diogene nella Grecia ellenica, il quale sottolineava una importanza nella dimensione fisica per azzardarsi a vivere appieno la propria corporalità per rimanere sé stessi. Famoso è l’aneddoto secondo il quale, quando Alessandro Magno gli chiese cosa volesse per elogiare la sua grandezza, Diogene gli rispose di spostarsi che gli faceva ombra. In questo si nota proprio quella volontà di bastare a sé stessi, di chiudersi nella propria soggettività per non lasciarsi trascinare da una instabilità data dall’esterno. Diversamente da tutto ciò, il cinismo imperante di oggi prevede uno sguardo di indifferenza verso chiunque si intrometta in quello che si fa: anziché chiedere ad Alessandro Magno di spostarsi, gli chiederebbe di fare quel che vuole, purché non lo turbi. La comodità di questo sguardo salva dalle responsabilità che si dovrebbero prendere per fare un qualcosa di concreto, arrivando a pensare sempre che saranno altri a farlo, ma “di certo non io”. Si riconosce la inutilità delle azioni che si fanno in quanto risulta impossibile determinare dove si andrà a parare, ma ci si comporta come se non lo si sapesse derogando le responsabilità a qualcun altro.

Diogene e Alessandro Magno, Sebastiano Ricci (1680-1695) Galleria Nazionale

Se non viene meno una attenzione per azioni concrete collettive verso il futuro, in modo complementare si sviluppa un individualismo che non accetta nessun compromesso: ogni individuo desidera essere libero di poter soddisfare ogni suo capriccio, senza scendere a sacrifici. Anche se potrebbe risultare immediato additare questo come una ‘nuova metanarrazione’, forse non è una definizione adeguata. Vediamo sì una adesione comune a un orizzonte comune, ma solo a livello di forma: il contenuto di ciò che ognuno vuole ottenere nel suo futuro varia da persona a persona. Questo individualismo estremo è l’altra faccia della medaglia del cinismo: la caduta delle torri porta una riduzione di visioni comuni e un accentramento della attenzione su di sé.

Lo scenario postmoderno mostrato permette allora di dare voce a Qoelet: «vanità della vanità: tutto è vanità» (ivi), tutta la vita è un immenso vuoto, una illusione che non porta certezze per il futuro. Il reale, nel suo silenzio, interrompe ogni sogno umano e apre a un futuro incerto, cupo, non delineabile. Sotto il sole nulla cambia: ogni passo avanti che viene fatto risulta difficile poterlo considerare una vera conquista totale, i propri sforzi sembrano essere vani. Non c’è guadagno che compensi la fatica e dia un appagamento concreto.

«Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa.» (ivi)

Qoelet illustra quel sentimento di disagio verso un obbiettivo comune: se ogni propensione ideale verso il futuro si consuma, allora dobbiamo lasciarlo al domani e interessarci del tempo presente. Il carpe diem permette di acquistare passo dopo passo quello che ci viene proposto, nel qui e nell’ora:

«Ecco quello che ho concluso: è meglio mangiare e bere e godere dei beni in ogni fatica durata sotto il sole, nei pochi giorni di vita che Dio gli [all’uomo, N.d.R.] dà: è questa la sua sorte.» (ivi)

Caduta ogni metanarrazione, torna la attenzione per il dettaglio: se questo causa la disfatta delle metanarrazioni, viene visto in modo negativo, ma se lo si considera per quello che è, ossia parte del reale, allora può assumere una accezione positiva e diviene un attimo ricco di vita. Forse non sarà la via più soddisfacente, ma senz’altro è un antidoto per sopravvivere nel cimitero delle torri: accontentarsi per trovare il meglio in mezzo al peggio.

Questa riconquista del reale apre anche alla caduta dei freni inibitori della tecnica e della scienza: poter considerare, approfondire ogni cosa afferrandolo per quello che è davvero ha permesso enormi balzi in avanti alla scienza, portando la società a beneficiarne. Molte cure e molti dispositivi tecnologici oggi aiutano ciascuno di noi, quello che però passa in sordina è la mancanza di limiti a tutto ciò.

Per richiamare un ultimo topos, possiamo considerarci come Ulisse che, come viene narrato nella Divina Commedia, sfida i confini del mondo conosciuto, dirigendosi oltre le Colonne d’Ercole. Se però questo si era dovuto scontrare con dei limiti, finendo appunto inghiottito dal mare e andando incontro al suo destino nell’Inferno, noi siamo liberi di salpare oltre-mondo. Il porto a cui aspiriamo arrivare è sempre più in là, non abbiamo idea di dove arriveremo e se arriveremo, ma il desiderio di andare vince sopra ogni cosa.

In mezzo a questo desolato mare però, non siamo in tutto e per tutto eredi di quell’Ulisse dantesco. Seppur questo abbia sfidato tutto e tutti per andare sempre più in là, si rivolge a Dante con parole che riconoscono tutto il suo errore:

«Considerate la vostra semenza:

Fatti non foste a viver come bruti

Ma per seguir virtute e canoscenza»

(Dante Alighieri, Divina Commedia)

Certamente Ulisse non mancava di conoscenza e di spinta verso questa, come dimostra il suo viaggio in mare, ma ciò senza ‘virtute’, senza una bussola che ci dirige, porta alla perdizione. Per evitare una autodistruzione ed essere soppianti dalle nostre stesse capacità, serve allora non tanto richiamare un fine ultimo ma una dimensione sociale umana. L’essere umano necessita di vivere con i suoi simili, chiudersi nella propria soggettività e nel semplice progresso rischia di consumare la stessa società umana. Un senso di responsabilità, volente o non volente, deve essere una base comune entro cui convivere, e questo è possibile solo se si recupera una dimensione sociale di collettività non tendente a una direzione ma che possa costruire un presente migliore.

In un modo o nell’altro, siamo tutti sulla stessa barca. Non si tratta di tornare indietro e rinunciare, ma di andare avanti nel mare dell’infinito con senno e con responsabilità, senza lasciare indietro nessuno e senza remare con troppa veemenza.

«Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere un’India, ma che fu il nostro destino naufragare nell’infinito? Oppure, fratelli miei? Oppure?» (Friedrich Nietzsche, Aurora)

Tommaso Donati

 

 

 

 

 

 

 

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