”Il giorno che ci fu lo sciopero…
BUZZATI – SCIOPERO DEI TELEFONI
Il giorno che ci fu lo sciopero, si lamentarono nel servizio dei telefoni irregolarità e stranezze. Fra l’altro, le singole comunicazioni non erano isolate e spesso si intrecciavano, cosicché si udivano i dialoghi degli altri e vi si poteva intervenire.
Alla sera, verso le dieci meno un quarto, cercai di telefonare a un amico. Ma prima ancora che facessi in tempo a far girare l’ultima cifra del quadrante, il mio apparecchio restò inserito nel giro di una conversazione estranea, a cui poi se ne aggiunse una quantità d’altre, in una ridda sorprendente. Ben presto fu un piccolo comizio al buio, dove la gente entrava e usciva in modo inopinato e non si sapeva chi vi intervenisse né gli altri potevano sapere chi fossimo noi, e tutti parlavano quindi senza le solite ipocrisie e ritegni, e ben presto si determinò una straordinaria allegria e collettiva leggerezza d’animo, come è pensabile avvenisse negli stupendi e pazzi carnevali dei tempi andati di cui un’eco ci tramandano le favole.
Da principio udii due donne che parlavano, caso strano, di vestiti.
«Niente affatto io dico i patti erano chiari lei la gonna me la doveva consegnare giovedì e adesso siamo a lunedì sera io dico e la gonna non è ancora pronta e io sa che cosa faccio, cara la mia signora Broggi io la gonna gliela lascio e se la metta lei se le accomoda!». Era una vocetta acuta e petulante che parlava velocissima senza interpunzioni.
«Brava!», le rispose una voce, giovane, cordiale e sorridente, un poco strascicata, con accento emiliano. «E così che cosa ci hai guadagnato? Puoi aspettare, sai, che quella lì ti rifonda della stoffa».
«Voglio vedere voglio con la rabbia che mi ha fatto inghiottire una rabbia che non ti dico per giunta dovrei perderci dovrei tu Clara la prima volta che ci vai mi fai il santo piacere di dirle il fatto suo che non è il modo di trattare mi fai proprio il piacere anche la Comencini del resto mi ha detto che non si serve più da lei che le ha sbagliato completamente quel tre quarti rosso che la fa sembrare una sercantina è inutile da quando le è venuta la clientela fa i comodacci suoi te la ricordi due anni fa quando cominciava e signora qua e signora là non la finiva mai coi complimenti è un piacere diceva vestire un personale come lei dà soddisfazione e tante storie e adesso guardatemi e non toccatemi ha perfino cambiato il modo di parlare vero Clara? anche tu ti sei accorta, no?, che ha cambiato il modo di parlare? E intanto domani che si deve andare dalla Giulietta per il tè non ho neanche da mettermi uno straccio tu cosa dici che mi metta?».
«Ma se tu Franchina – le rispose Clara, placida – non sai neanche più dove mettere i vestiti da tanti che ne hai».
«Oh, questo non lo devi dire è tutta roba vecchia il più fresco è dell’autunno scorso quel tailleurino sai noisette te lo ricordi no? e dopo tutto io non…».
«Io piuttosto. Tu cosa dici? Io quasi quasi mi metterei la gonna verde, quella bella larga con il pullover nero, il nero fa sempre elegante… Oppure dici che metta quello nuovo, quello grigio di maglia? Forse fa un po’ più après-midi, tu cosa dici?».
A questo punto entrò, chissà da dove, un uomo dall’accento grossolano: «E che la mi dica ben so, signora. E perché non si mette quello giallo limone, con un bel cavolo in testa?». Silenzio. Le due donne tacquero.
«E che la mi dica ben so, signora – insisté l’uomo contraffacendo la cadenza romagnola. – L’ha notizie fresche da Ferrara? E lei, signora Franchina, che la mi dica, per caso non ci sarà mica cascata a terra la lingua tutta d’un pezzo? La sarebbe una bella disgrazia, no?».
Da varie parti risposero risate. Altri, evidentemente inseriti nel giro, avevano ascoltato in silenzio, come me.
Replicò, petulante, la Franchina. «Lei, signore, che non so chi sia lei, comunque, è un bel villano anzi villanzone due volte prima perché non si sta ad ascoltare le conversazioni altrui che questa è elementare educazione secondo perché…».
«Ih, che lezione, su, su, signora, o signorina, non se la prenda… Sarà lecito scherzare, spero… Mi scusi! Se mi conoscesse di persona forse non sarebbe così cattiva!…».
«E lascialo perdere! – disse la Clara all’amica. – Perché vuoi stare a discutere con dei maleducati? Metti giù la cornetta che dopo ti richiamo».
«No, no, aspetti un momentino – era un altro uomo che parlava, più garbato e insinuante, si sarebbe detto più maturo. – Signorina Clara, un momento, dopo magari non ci si incontra più!».
«Be’ non sarebbe poi questa gran disgrazia».
Ci fu allora un’irruzione di voci nuove in un garbuglio inestricabile; press’a poco così: «E smettetela, pettegole!» (era una donna). «Pettegola sarà lei, se mai, che ficca il naso in casa d’altri!». «Io ficco il naso? Si vergogni! Io non…». «Signorina Clara, signorina Clara, mi dica» (era la voce di un uomo) «che numero di telefono ha? Non me lo vuol dire? Io, sa, per le romagnole ci ho un debole, confesso, una vera propensione». «Glielo do io il numero fra poco!» (era una donna forse la Franchina). «E lei si può sapere chi è?». «Io sono Marlon Brando». «Ah, ah» (risate collettive). «Dio mio, come è spiritoso». «Avvocato, avvocato Bartesaghi! Pronto, pronto! è lei?» (parlava un’altra donna finora non udita). «Sì, sono proprio io, e come fa a saperlo lei?». «Ma io sono la Norina, non mi riconosce? le telefonavo perché stasera prima di uscire dall’ufficio mi sono dimenticata di avvertirla che da Torino…». Il Bartesaghi, con evidentissimo imbarazzo: «Be’!, signorina, mi telefoni più tardi, qui non mi sembra il caso di far sapere le nostre private faccende a tutta la città!». «Ehi, avvocato» (era un altro uomo) «però era il caso di chiedere appuntamenti alle ragazze no? Il signor avvocato Marlon Brando ha un debole per le romagnole, ah, ah!». «E smettetela, vi prego, c’è chi non ha tempo da perdere in chiacchiere, c’è chi ha urgenza di telefonare!» (era una donna, doveva essere sui sessanta). «Ehi, sentila questa qui» (si riconobbe la voce della Franchina) «non sarà mica la regina dei telefoni lei?». «E metta giù il microfono, non è ancora stanca di parlare? Io per sua regola aspetto una chiamata interurbana e finché lei…». «Ah, dunque mi è stata ad ascoltare eh? quella che non è pettegola!». «Chiudi il becco, papera!».
Breve sospensione di silenzio. Era stato un colpo forte. Sul momento, la Franchina non trovava una replica degna. Poi, trionfante: «Ihiii! Sentila, sentila, la paperona!».
Seguì un lungo scroscio di risate. Saranno state almeno dodici persone. Quindi di nuovo una pausa. Si erano tutti ritirati insieme? O aspettavano l’iniziativa altrui? Ascoltando bene, sul fondo del silenzio, si percepivano fruscii, palpiti, respiri.
Finalmente, col suo bell’accento spensierato, entrò la Clara: «Be’, siamo sole? … E allora, Franchina, cosa dici che mi metta domani?».
Si udì a questo punto una voce d’uomo, nuova, bellissima, giovanilmente aperta e autoritaria, che stupiva per la eccezionale carica di vita: «Clara, se mi permette glielo dico io, lei domani si metta la gonna blu dell’anno scorso con il golf viola che ha appena dato da smacchiare… E il cappellino nero a cloche, intesi?».
«Ma lei, chi è?». La voce della Clara era cambiata, adesso aveva un’incrinatura di spavento. «Mi vuol dire chi è? «L’altro tacque.
Allora la Franchina: «Clara, Clara, ma come fa questo qui a sapere?…».
L’uomo rispose molto serio: «Io parecchie cose so».
La Clara: «Storie! Lei ha tirato a indovinare!».
Lui: «Ho tirato a indovinare? Vuole che le dia un’altra prova?».
La Clara, titubante: «Su, su coraggio».
Lui: «Bene. Lei, signorina, mi stia bene a sentire, lei signorina ha una lenticchia, una piccola lenticchia… ehm, ehm… non posso dirle dove…».
La Clara, vivamente: «Lei non può saperlo!».
Lui: «È vero o non è vero?». «Lei non può saperlo!». «È vero o non è vero?». «Giuro che nessuno l’ha vista mai, giuro, tranne la mamma!». «Vede che ho detto giusto?».
La Clara quasi si metteva a piangere: «Nessuno l’ha mai vista, questi sono scherzi odiosi!». Allora lui rasserenante: «Ma io non dico mica di averla vista, la sua piccola lenticchia, io ho detto soltanto che lei ce l’ha!».
Un’altra voce d’uomo: «E piantala, buffone!».
L’altro, pronto: «Adagio lei, Giorgio Marcozzi fu Enrico, di anni 32, abitante in passaggio Chiabrera 7, altezza uno e 70, ammogliato, da due giorni ha mal di gola, ciononostante sta fumando una nazionale esportazione. Le basta? … tutto esatto?».
Il Marcozzi, intimidito: «Ma lei chi è? Come si permette? … Io… io.».
L’uomo: «Non se la prenda. Piuttosto, cerchiamo di stare un poco allegri, anche lei Clara… è così raro trovarci in una così bella e cara compagnia».
Nessuno osò più contraddirlo o sbeffeggiarlo. Un timore oscuro, la sensazione di una presenza misteriosa era entrata nei fili del telefono. Chi era? Un mago? Un essere soprannaturale che manovrava i centralini al posto degli scioperanti? Un diavolo? Una specie di folletto? Ma la voce non era demoniaca, anzi, se ne sprigionava un fascino incantevole.
«Su, su, ragazzi, di che avete paura adesso? Volete che vi faccia una bella cantatina?».
Voci: «Sì, sì». Lui: «Che cosa canto?». Voci. «Scalinatella… no, no, una samba… no, Moulin Rouge… Aggio perduto ‘o suonno… Aveva un bavero… El baion, el baion!». Lui: «Eh, se non vi decidete… Lei. Clara, che cosa preferisce?».
«Oh, a me piace Ufemia».
Cantò. Sarà stata suggestione o altro, mai avevo udito in vita mia una voce simile. Un brivido saliva su per la schiena, da tanto era splendente, fresca, umile e pura. Mentre cantava, nessuno osò fiatare. Poi fu un’esplosione di evviva, bravo, bis. «Ma sa che lei è un cannone! Ma sa che lei è un artista!… lei deve andare alla radio, farà milioni glielo dico io. Natalino Otto può andare a nascondersi! Su, su ci canti qualche cosa ancora!». «A un patto: che anche tutti voi cantiate insieme».
Fu una curiosa festa, di gente col microfono all’orecchio, sparsa in case lontanissime dei più opposti quartieri, chi in piedi in anticamera, chi seduto, chi sdraiato sul letto, legati l’uno all’altro da esilissimi chilometri di filo. Non c’era più, come al principio, il gusto del dispetto e della burla, la volgarità e la stupidaggine. Per merito di quel problematico individuo che non volle dirci il nome, né l’età, né tanto meno l’indirizzo, una quindicina di persone che non si erano viste mai e probabilmente non si sarebbero nemmeno mai vedute per l’eternità dei secoli, si sentivano fratelli. E ciascuno credette di parlare con donne giovani e bellissime, ciascuna si illudeva che dall’altra parte dei fili ci fossero uomini di magnifico aspetto, ricchi, interessanti, dal passato avventuroso; e, in mezzo, quel meraviglioso direttore d’orchestra che li faceva volare in alto sopra i tetti neri della città, portati via da un fanciullesco incanto.
Fu lui – era quasi mezzanotte – a dare il segnale della fine. «Bene, ragazzi, adesso basta. È tardi. Domattina devo levarmi presto… E grazie per la bella compagnia».
Un coro di proteste: «No, no, non ci faccia questo tradimento!… Ancora un poco, ancora una canzone, per piacere!».
«Sul serio, devo andare… Perdonatemi… Signore e signori, cari amici, buonanotte».
Tutti restarono con l’amaro in bocca. Flaccidi e tristi, furono scambiati gli ultimi saluti: «Beh, quand’è così, allora buonanotte a tutti, buonanotte… chissà chi era quello lì… mah, chissà… buonanotte… buonanotte».
Se ne andarono chi da una parte chi dall’altra. La solitudine della notte discese di colpo sulle case.
Ma io stavo ancora in ascolto.
Difatti, dopo un paio di minuti, lui, l’enigma, ricominciò a parlare sottovoce:
« Sono io, sono ancora io… Clara, mi senti, Clara?».
«Sì – fece lei con un tenero bisbiglio – ti sento… Ma sei sicuro che gli altri se ne siano tutti andati?».
«Tutti meno uno – rispose lui bonario – meno uno che finora è stato tutto il tempo ad ascoltare ma non ha mai aperto bocca».
Ero io. Col batticuore, misi giù immediatamente la cornetta.
Chi era? Un angelo? Un veggente? Mefistofele? O lo spirito eterno dell’avventura? L’incarnazione dell’ignoto che ci aspetta all’angolo? O semplicemente la speranza? L’antica, indomita speranza la quale si va annidando nei posti più assurdi e improbabili, perfino nei labirinti del telefono quando c’è lo sciopero, per riscattare la meschinità dell’uomo?
Vincitore premio Strega 1958
La dimensione misteriosa del reale, i simboli arcani, l’incubo della paura, della morte, della malattia, la solitudine dell’uomo, la strana preveggenza di inquietanti sogni premonitori, la complessa, magica visione del mondo di Dino Buzzati in sessanta racconti brevi.
Mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno.
I Sessanta racconti, raccolti nel 1958, costituiscono una vera e propria “summa” del mondo poetico di Dino Buzzati. In una girandola di narrazioni che riescono sempre a sorprendere le aspettative del lettore, vi si trova rappresentata l’intera gamma dei suoi motivi ispiratori: dalla visione surreale della vita all’orrore per la città, dagli automatismi esistenziali introdotti dall’uomo tecnologico alla suggestione metafisica. La struttura del racconto è congeniale a Buzzati che, vero mago della composizione breve, spazia tra meraviglioso, favoloso e immaginario, e traduce in gioco, tragedia o mistero le situazioni apparentemente più banali o scontate.
Pubblicato il 28 luglio 2019