Calcio femminile? Se ci fregano anche il pallone, siamo veramente fottuti. Questa pessima imitazione della “nobile arte pedatoria” è divenuta un simbolo che governa le grandi pulsioni e i piccoli pensieri dell’idiota collettivo.

  Ma non solo noi maschi. Siamo fottuti proprio tutti, maschi, femmine e le mille varianti sul genere che ormai iniziano con tutte le lettere dell’alfabeto. Da quando è iniziata l’edizione 2019 del campionato mondiale, il calcio femminile non è più un semplice sport minore, come volevano buon senso e consuetudine. Questa pessima imitazione della nobile arte pedatoria è divenuta un simbolo che governa le grandi pulsioni e i piccoli pensieri dell’idiota collettivo e, come tale, non fa prigionieri: non ammette cuori che battano a ritmi sfasati, cervelli che rifiutino di finire all’ammasso, estetiche refrattarie alla dittatura dell’unisex.

Germania vs Cina.

Qualche mese fa Fulvio Collovati, campione del mondo nel 1982, disse in televisione a “Quelli che il calcio” che «le donne non possono parlare di tattica, quando sento che lo fanno mi si rivolta lo stomaco». Bravo, pensai, ma non mi feci illusioni, bisognava solo attendere la mattina successiva: sospeso per due settimane da tutte le trasmissioni Rai e costretto alle rituali scuse del giorno dopo. “Rituali” nel senso più stretto del termine perché ogni offesa recata al pensiero unico e ai suoi simboli esige un atto di riparazione celebrato secondo canoni che non ammettono il più piccolo abuso. La liturgia del politically correct non è mica la messa postcattolica.

E così, per evitare che il possibile embrione di una logica difforme potesse crescere e vedere la luce, meno di ventiquattr’ore dopo la bestemmia antifemminista pronunciata in diretta tv l’improvvido Collovati ha dovuto assumere pubblicamente via twitter la pillola riparatrice del giorno dopo: «Mi scuso se le frasi involontariamente sessiste pronunciate ieri, pur nel clima goliardico di “Quelli che il calcio” abbiano urtato la sensibilità delle donne. Sono state inopportune e me ne dispiaccio non era mia intenzione offendere nessuno». Magari la sintassi della formula non è proprio rotonda, ma la materia mediatica c’è e l’intenzione riparatoria rispetta almeno l’apparenza. In ogni caso, supplet ecclesia spiritum mundi, cui non interessa che la fede sia sincera, ma solo che venga professata pubblicamente.

   Dunque, il calcio femminile non è solo un fatto sportivo: non lo è più. E questo spiega perché, martedì 18 giugno, 7.300.000 italiani si sono sciroppati Italia-Brasile giocata dalle donne, raccontata dalle donne e commentata dalle donne. Circa due milioni in più rispetto alla partita della nazionale maggiore maschile con la Grecia e dell’Under 21 con la Spagna. Un ascolto da varietà del sabato sera per una banalissima prova di sport minore che fino allo scorso anno sarebbe stata trasmessa in sintesi solo in terza serata. Evidentemente, qualcosa è cambiato. O meglio, qualcuno ha deciso che doveva cambiare. E che doveva rendere: basta pensare a quante scarpette, magliette e pantaloncini verranno vendute da qui in avanti a mamme e figlie convinte che la femminilità va affermata facendo l’uomo sul campo di calcio invece che la donna in famiglia. Un giro da milioni di euro e di dollari, che vanno sempre a braccetto con il politicamente corretto.

Tutto merito di un’operazione da manuale partita con l’invasione del mondiale di calcio femminile sulle pagine sportive di tv, radio, web e giornali e poi tracimata nelle sezioni di costume, cultura, società e politica trascinando l’entusiasmo dell’idiota collettivo. Cosicché, adesso, discutere sulla qualità e la sostanza sportiva del calcio femminile è una battaglia persa in partenza. Basterebbe poco per chiudere la questione in un amen, anzi per non aprirla neppure, ma ora ogni ragionamento che rispetti la realtà e la logica si trova automaticamente, se mi si concede lo scontato riferimento, in fuorigioco. La retroguardia del pensiero unico avanza in linea a comando e quel poco che rimane del buon senso viene colto in fallo dall’arbitro e dal Var, inflessibili guardiani della nuova ortodossia.

   Non serve più considerare, per esempio, che nella pallavolo le donne giocano con una rete meno alta rispetto a quella degli uomini, nel tennis si misurano al meglio dei tre set invece che cinque, nello sci corrono su percorsi più corti, nel basket usano una palla più piccola, in atletica saltano ostacoli più bassi. È inutile dedurre da queste evidenze che se, nel calcio, le donne pretendono di giocare sugli stessi campi dei maschi, con porte grandi come quelle dei maschi e con lo stesso pallone calciato dai maschi, possono soltanto dare vita a un calcio minore, come quello dei ragazzini all’oratorio, che corrono tutti dietro alla palla perché il territorio per loro è così grande da sentirsi perduti se mantengono la posizione da soli. Tutto questo non ha valore perché ti rispondono, come ha fatto una giornalista su un importante quotidiano, che loro, le donne, “non vogliono campi più piccoli, ma un mondo più grande in cui ci sia posto per tutti”. Un’altra lingua, un’altra logica, un altro cuore, un altro mondo.

Però se il barista che tutti i giorni mi serve il caffè e la brioche ai frutti di bosco, prima di farmi il sorrisetto complice indicando la prima pagina della “Gazzetta” naturalmente okkupata dalle donne che giocano a pallone, si assicura che veramente anche a me la cosa non piaccia, allora questa lingua, questa logica, questo cuore, questo mondo sono già qui, in questo momento. E quando dico il barista, intendo l’ultimo baluardo del caro vecchio senso comune. Perché dai locali alla moda fino agli oratori ormai è tutto uno sfavillare di teleschermi davanti ai quali le rispettive tribù si riuniscono, vuoi per ammirare le cosce della centravanta e della portiera, vuoi per santificare il genio femminile.

Milena Bertolini, ct azzurre.

«Un’uscita così la associo a una mentalità primitiva. Un po’ come nelle migrazioni barbariche quando le donne avevano come unico compito contenere le vivande. Qualche anno però è passato, hanno inventato il frigorifero nel frattempo, ma come mentalità c’è ancora chi è rimasto là». Spedita a Fulvio Collovati da Milena Bertolini, ct delle azzurre di calcio, questa certificazione di rozzo primitivismo ha fatto il suo dovere su tutti gli organi di stampa mettendo out l’uomo delle caverne e il barbaro insensibile ai perenni diritti del femminino. Non brilla per raffinatezza, ma me la carico volentieri sulle spalle e replico con un sublime elogio della rozza e primitiva anima del calcio: «Il calcio è il re di giochi. Per quale motivo? Secondo me perché – come la danza – riporta il nostro corpo a quel che si potrebbe definire la preistoria dei nostri movimenti. Nel calcio vi è assolutamente vietato – se non giocate in porta, beninteso – l’uso delle mani e delle braccia. Insomma, degli organi con cui, abitualmente eseguite tutti i vostri atti. Organi grazie ai quali ottenete il massimo di precisione, di rendimento e di destrezza. Potete adoperare soltanto piedi e gambe – questi antenati sottosviluppati delle mani e delle braccia. Ed ecco che, non potendo più fare ciò che per voi sarebbe normale o naturale, siete ritornati a funzioni arcaiche. Costretti a riannodare il legame con una memoria animale sepolta dentro di voi». Firmato Vladimir Dimitrijević(1), La vita è un pallone rotondo, un capolavoro in cui solo un esule serbo poteva fondere la nostalgia per la sua terra e l’amore per il calcio.

Un’altra lingua, un’altra logica, un altro cuore, un altro mondo, questi di Dimitrijević: la nostra lingua, la nostra logica, il nostro cuore, il nostro mondo. E un altro Cielo: il nostro Cielo. Un Cielo in cui non regna il dio Femmina che gioca al pallone dopo aver sottratto al maschio tutto quanto gli era proprio: i mestieri e i ruoli sociali, gli articoli e le desinenze di ciò che è universale, le parole e il sembiante per dire la paternità divina. Ma è il Cielo degli esuli, forse per questo Dimitrijević lo canta con inarrivabile, dolorosa cerimonia nella sua piccola Apocalisse calcistica, dove le schiere celesti e il popolo dei salvati celebrano la liturgia del pallone come Dio, da sempre, comanda.

   Nel cielo dell’eterno femminino, da cui promanano i miasmi cerebrali del pensiero unico, si celebrano altri riti, governati dalla Donna Sacerdote, che qui in terra hanno i loro nuovi templi negli stadi di calcio. Un passo ancora e poi i cerimoniali del dio Femmina entreranno nelle nuove chiese, officiati da sacerdoti donna. Ma sarà un passo brevissimo e indolore visto che le neochiese sono simili a palazzetti dello sport e i neosacerdoti sono sempre meno maschi.

 

NOTE

(1) Vladimir Dimitrijević (Skopje, 28 marzo 1934 – Armes, 28 giugno 2011) è stato un editore e scrittore serbo, fino al 1992 jugoslavo.

Fonte: Wikipedia. 

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Immagine: Paolo Villaggio in Fantozzi.

2 Commenti

  1. Francesca Rita Rombolà

    24 Giugno 2019 a 10:11

    Comunque qualche diritto alla donna in millenni di storia “prettamente al maschile” spetterebbe pure. La donna non può di certe essere considerata in eterno soltanto una buona moglie e una buona madre, sempre dietro i fornelli o a cambiare i pannolini del bebè.

    rispondere

    • Riccardo Alberto Quattrini

      24 Giugno 2019 a 16:05

      Non metto censure ai pezzi che i collaboratori mi inviano. Pur avendolo pubblicato non l’ho condiviso appieno. Un caro saluto Francesca. L’Amministratore.

      rispondere

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