Un grande omaggio allo scrittore che ha impresso sulla letteratura italiana una nuance fasciocomunista spiazzante, inattesa, indecifrabile, con un linguaggio ruspante e al contempo colto, vernacolare venetopontino

 

La vicenda inizia col ‘900, prosegue attraversando la prima guerra mondiale, si snoda tortuosa tra il biennio rosso e l’avvento del fascismo, fino a seguirne l’apice e l’eclissi dopo il secondo conflitto mondiale. Ma non è un libro di storia: è una saga familiare, quella dei componenti della famiglia Peruzzi, che s’intreccia molte e molte volte con i fatti principali che ha vissuto l’Italia in oltre 50 anni di vita.

È il 1904 quando il nonno, capofamiglia, assiste ad un comizio del riformista Rossoni, salvandolo da un possibile linciaggio: i due finiranno insieme in carcere e diverranno amici. Quando, nel 1926, Mussolini impone la “quota 90” in politica agraria, i padroni Zorzi Vila si approfittano dei loro mezzadri Peruzzi per ridurli sul lastrico. Pericle e Temistocle vanno allora a raccomandarsi a Roma dal Rossoni, che nel frattempo ha aderito al fascismo: egli nulla può contro i nobili Zorzi Vila, però si muove affinché i Peruzzi abbiano un podere di proprietà nelle Paludi Pontine, che il regime sta iniziando a bonificare. Così, dalla Pianura Padana, i Peruzzi (e con loro molti altri “cispadani”) devono trasferirsi nel Lazio, maledicendo in più occasioni gli Zorzi Vila. A guidare la famiglia nell’avventura nelle Paludi Pontine, il forte zio Pericle, con i vecchi genitori, le nuore e i fratelli al seguito: Adelchi, Temistocle, Treves… E tante donne, ognuna con un suo ruolo: l’altera ma affettuosa nonna, la generosa Santapace, la velenosa Bissola, la stravagante Armida. Dal podere 517, a sinistra del maestoso Canale Mussolini costruito per il deflusso delle acque verso il Tirreno, i Peruzzi iniziano una nuova vita in cui, ancora, la loro storia s’intreccia a doppio filo con quella del Belpaese. Nei primi periodi, difficili saranno i rapporti coi locali laziali “marocchini”, che non vedon certo di buon occhio i “cispadani” invasori: non mancano scontri e vendette reciproche, mentre il sudore della fronte permette ai Peruzzi di risollevarsi economicamente. La famiglia s’ingrandisce con nuove nascite e matrimoni misti integrandosi gradualmente nell’Agro Pontino nonostante la comica richiesta, fatta direttamente al Patriarca di Venezia, di un prete veneto che possa capire il loro dialetto. Non ci sarà guerra senza almeno un membro dei Peruzzi al fronte, tra il Corno d’Africa, la Spagna franchista, Stalingrado, El Alamein… ma anche quando la guerra, dopo l’8 settembre, passerà sul suolo italiano, i Peruzzi (e le donne dei Peruzzi, soprattutto!) non si sottrarranno di certo, sparando coi tedeschi sugli alleati “invasori” per difendere il loro podere! Solo lo sbarco di Anzio, con la conseguente fuga sui monti Lepini, costringerà “marocchini” e “cispadani” a una forzata convivenza che, tra le comuni difficoltà, permetterà a tutti di superare le reciproche diffidenze.

Che dire della trama: pienamente verosimile, perché nonostante sia ampiamente e gradevolmente romanzata, non è affatto da escludere che a qualche famiglia in Agro Pontino sia successo qualcosa del genere (o, come dice l’autore, a più famiglie messe insieme sia accaduto quel che nel libro succede solo ai Peruzzi!). Alla fine, ma solo alla fine, l’autore rivela le circostanze della sua nascita nella grande famiglia Peruzzi, permettendo al lettore di ricollegare tutte le questioni lasciate in sospeso.

Stile piacevole e scorrevole, per certi versi sorprendente: dopo un inizio in sordina, la storia procede e prende corpo man mano che le pagine vanno avanti. C’è, ogni tanto, qualche inutile digressione o qualche (forzata) allusione alla realtà odierna, ma non troppo da annoiare o distrarre. Nella seconda parte del libro, poi, l’ironia la fa da padrone e più volte mi sono sorpreso a ridere su qualche pagina particolarmente ispirata. Il linguaggio è arricchito da comprensibili espressioni in dialetto veneto-ferrarese, che aggiungono ulteriore umorismo alla scena narrata. Oltretutto, Pennacchi ci offre anche un modo diverso di ripassare la storia, in un libro fatto con notevoli sforzi per ricostruire fedelmente alcune vicende storiche ed i relativi particolari. Un grande insegnamento.

 

La trama del romanzo

 

Premio Strega 2010. Canale Mussolini è l’asse portante su cui si regge la bonifica delle Paludi Pontine. I suoi argini sono scanditi da eucalypti immensi che assorbono l’acqua e prosciugano i campi, alle sue cascatelle i ragazzini fanno il bagno e aironi bianchissimi trovano rifugio. Su questa terra nuova di zecca, bonificata dai progetti ambiziosi del Duce e punteggiata di città appena fondate, vengono fatte insediare migliaia di persone arrivate dal Nord. Tra queste migliaia di coloni ci sono i Peruzzi. A farli scendere dalle pianure padane sono il carisma e il coraggio di zio Pericle. Con lui scendono i vecchi genitori, tutti i fratelli, le nuore. E poi la nonna, dolce ma inflessibile nello stabilire le regole di casa cui i figli obbediscono senza fiatare. Il vanitoso Adelchi, più adatto a comandare che a lavorare, il cocco di mamma. Iseo e Temistocle, Treves e Turati, fratelli legati da un affetto profondo fatto di poche parole e gesti assoluti, promesse dette a voce strozzata sui campi di lavoro o nelle trincee sanguinanti della guerra. E una schiera di sorelle, a volte buone e compassionevoli, a volte perfide e velenose come serpenti. E poi c’è lei, l’Armida, la moglie di Pericle, la più bella, andata in sposa al più valoroso. La più generosa, capace di amare senza riserve e senza paura anche il più tragico degli amori. E Paride, il nipote prediletto, buono e giusto, ma destinato, come l’eroe di cui porta il nome, a essere causa della sfortuna che colpirà i Peruzzi e li travolgerà.

 

Come inizia

Il libro

Canale Mussolini è l’asse portante su cui si regge la bonifica delle Paludi Pontine. Su questa terra nuova di zecca, bonificata dai progetti ambiziosi del Duce, vengono fatte insediare migliaia di persone arrivate dal Nord. Tra di loro ci sono i Peruzzi, gli eroi di questa saga straordinaria. A farli scendere dalle pianure padane sono il carisma e il coraggio di zio Pericle. Con lui si trasferiscono i vecchi genitori, tutti i fratelli, le nuore. E poi la nonna, dolce ma inflessibile. Il vanitoso Adelchi, più adatto a comandare che a lavorare. E poi c’è lei, l’Armida, la moglie di Pericle, la più bella, la più generosa, la più strana, una strega forse. Un poema grandioso che, con il respiro delle grandi narrazioni, intreccia le vicende drammatiche e sorprendenti dei suoi protagonisti a quelle, non meno travagliate, di mezzo secolo di storia italiana.

 

A mio fratello Gianni,

a tutti i nostri morti.

 

 

Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo. Fin da bambino ho sempre saputo di dover fermare questa storia – le storie difatti non le inventano gli autori, ma girano nell’aria cercando chi le colga – e raccontarla prima che svanisse. Nient’altro. Solo questo libro.

   Ogni altra cosa che ho fatto – bella o brutta che sia – l’ho sempre sentita come preparazione e interludio a questa. Anche gli altri libri sono nati in funzione di questo e solo per lui mi sono messo a studiare le storie più strambe di questo mondo, dall’uomo di Neandertal all’architettura e bonifiche fasciste: solo per poter fare questo libro. Non sembrerà quindi strano se a un certo punto capiterà di imbattersi in brani o cose già lette negli altri. Non è lui che copia da loro. Sono loro che furono scritti per lui.

    Non esiste naturalmente nessuna famiglia Peruzzi in Agro Pontino a cui siano capitate tutte le cose narrate qui. Sia la famiglia Peruzzi che la successione delle cose che le capitano – anche in riferimento ai personaggi storici realmente esistiti – non sono che frutto di invenzione: non è vero niente ed è tutta opera di fantasia. Non esiste però nessuna famiglia di coloni veneti, friulani o ferraresi in Agro Pontino – e anche questo è un fatto – a cui non siano capitate almeno alcune delle cose che qui capitano ai Peruzzi.

   In questo senso e solo in questo, tutti i fatti qui narrati sono da considerarsi rigorosamente veri.

 a.p.

 

I

 

Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui? Lì eravamo sempre stati e lì stavano tutti i nostri parenti. Conoscevamo ogni ruga del posto e ogni pensiero dei vicini. Ogni pianta. Ogni canale. Chi ce lo faceva fare a venire fino qua?

   Ci hanno cacciato, ecco il perché. Con il manico della scopa. Il conte Zorzi Vila. Ci ha spogliato di tutto. Derubati. Le bestie nostre. I vitelli. Le mucche con delle poppe così. Non ha idea del latte che facevamo. Con uno schizzo solo riempivamo un secchio. Non facevamo nemmeno in tempo a sederci sullo sgabello e a massaggiare un po’ la tetta che via, come titillavi il primo capezzolo partiva un getto che lo riempiva. Dovevamo reggerlo forte tra le gambe perché non cadesse.

   Cosa fa, ride? non ci crede? Glielo avrei voluto far vedere.

   E i buoi? Avevamo certi buoi che tiravano gli aratri a due a due peggio di un caterpillar.

   Che fa, ride di nuovo?

   Se li portavano in spalla gli aratri quei buoi, sulle corna. Se li mangiavano coi denti. Lei non ha proprio idea, le giuro, noi le rivoltavamo un podere in un giorno, lassù, con una coppia delle bestie nostre. E dalla mattina alla sera il conte Zorzi Vila ce le ha rubate. Se le è fatte sue, le bestie nostre. Nudi come vermi ci ha lasciato. E fu quella volta – quando si portarono via le bestie dopo averci dato lo sfratto – che zio Adelchi corse su in casa e poi in solaio, a prendere sotto la capriata, dietro il mattone smosso, la pistola di zio Pericle. Poi scese come un matto giù nell’aia, strillando e sparando. E il fattore scappava. E tutti scappavano. Ma il fattore saltellando a zompi dietro agli altri, a cercare di nascondersi perché era proprio lui che voleva lo zio Adelchi. «At cópo!» gridava al fattore: «Dove sì ch’at cópo?». E mia nonna – l’unica che non scappasse, oltre alle bestie naturalmente, le bestie che di colpo ferme in mezzo alla corte, già in fila per partire, non capivano più niente poveracce, e ruminavano – mia nonna sola andava incontro al figlio che sparava: «Delchi, tosato, Delchìn».

   E zio Adelchi finì i colpi e restò con la pistola in mano e la guardò, la pistola, chiedendole quasi perché. E poi s’abbracciò a sua madre a piangere come da bambino. E mia nonna faceva: «Delchìn, Delchìn», inginocchiati tutti e due in mezzo all’aia a lamentarsi, mentre gli altri gli si rifacevano attorno.

   E pure il fattore tornava, mentre il conte Zorzi Vila silenzioso gli faceva con la mano il cenno di stare lontano. Finché non sono arrivati i carabinieri. E così li hanno trovati i carabinieri, in mezzo all’aia inginocchiati e con mio zio piangente. Gli hanno messo le catene e hanno preso a tirarlo e nello stesso istante il conte Zorzi Vila ha ripreso ad urlare con la boria di sempre al suo fattore: «Avanti! Cosa stiamo aspettando?», e lui ha ripreso a tirare le catene delle bestie e sono ripartiti assieme, zio Adelchi coi carabinieri e le bestie nostre con la gente degli Zorzi Vila.

   Come dice? Che lei non ce lo vede proprio lo zio Adelchi in preda alla furia che spara come un matto e poi si mette a piangere tra le braccia di sua madre? che lei se lo ricorda alto ed impettito, riverito da tutti nella divisa dei vigili urbani?

   Ma questo è venuto dopo, molto dopo, e poi comunque la furia c’è sempre stata nella mia famiglia. Mica che uno va in giro tutto il santo giorno a dire alla gente: «Guardate che ho la furia appresso». Uno se la porta dentro, nascosta bene bene in una piega dell’anima e magari non esce mai fuori. Ma poi salta il giorno in cui meno te lo aspetti e ti pungono sul vivo, nel vivo di quella piega d’anima e la furia esce fuori e prende il sopravvento e tu dopo dici: «Ma che è successo? Io non lo volevo fare. Torniamo indietro di un minuto solo, vi prego, torniamo a tutto com’era prima». E invece niente sarà più come prima e magari ci fosse, quel giorno, tua madre per piangerle addosso.

   Comunque zio Adelchi non era quel santo che ricorda lei, quello che, come dice lei, tutti lo andavano a cercare quando c’era una lite per fare da paciere. Altro che paciere, lui ha portato sempre la guerra, almeno in casa sua, che poi era anche la nostra. E fu più per lui che per le bestie, alla fin fine, che noi venimmo qui.

   Per le bestie non c’era niente da fare. Mio zio Pericle – prima che arrivasse il giorno del conte e del fattore – era già stato ad informarsi al fascio e ai sindacati, prima a Rovigo e poi a Ferrara, perché a Rovigo non contavano niente. Era Ferrara che comandava e se a Ferrara ti dicevano: «Guarda Peruzzi, non c’è niente da fare, la questione è così e così, è la quota 90, ci vorrebbe solo Rossoni», tu capivi che era persa, perché quelli erano di Balbo, dalla parte degli agrari e se ti dicevano «Vai da Rossoni» – che non si erano mai potuti vedere – era poi per dargli la colpa: «Visto? Non t’ha fatto niente». E poi Rossoni stava a Roma, chi lo trovava più? Mio zio Pericle si metteva ad andare fino a Roma?

   E invece quando ha visto il fratello più piccolo – zio Adelchi venticinque o ventisei anni mentre zio Pericle, che era del ’99, ne aveva trentadue di anni e già qualche figlio a carico – quando oltre alle bestie ha visto il fratello trascinato via in catene dai carabinieri e mia nonna che si voltava verso di lui, Pericle, come se solo lui ci potesse mettere rimedio, ed urlava «Pericle, Pericle!», lui avrebbe anche voluto dire: «Eh, Pericle un casso», perché mai si sarebbe aspettato che l’Adelchi potesse dare di matto. Sì, lo aveva visto salire su in casa di corsa, ma non ci aveva fatto neanche caso, perché non lo teneva in gran conto quel fratello – sempre altrove, quando c’era davvero da menare le mani – e lo avrebbe riempito di botte ogni volta che strillava invece con quella voce aguzza addosso alle sorelle. Ma quando lo ha visto risbucare dalla scala, o meglio, dalla porta che dava sulla scala e lasciare anche aperta la zanzariera e strillare e sparare, e un altro po’ inciampare nello scendere dalle scale esterne e sparare come un matto e il fattore che scappava e lui «At cópo, at cópo» a sparare ancora – be’, detta così sembra chissà quanto tempo, e invece è un attimo solo – in quell’attimo a zio Pericle, a vedere il fratello, gli è venuto da ridere: «Varda l’Adelchi». E all’improvviso gli ha voluto bene.

   E così quando sua mamma gli ha detto «Pericle, Pericle», lui avrebbe voluto rispondere «Pericle un casso», ma quella ha aggiunto subito: «Va’ fìn Roma, Periclìn», che Periclino non lo aveva mai chiamato neanche da bambino. E allora ha detto: «Va bèn, domàn andémo a Roma», voltandosi come per un dato di fatto, una constatazione più che un ordine, a zio Temistocle, il fratello più grande, che lei però non può ricordarselo, non può averlo conosciuto perché i figli lo riportarono in Altitalia negli anni Sessanta, a Torino. Loro andavano in fabbrica, alla Fiat, e lui li aspettava a casa.

   Come dice? quanti eravamo? Una caterva. Diciassette figli aveva fatto mio nonno, otto femmine e nove maschi, e altri diciassette ne aveva fatti suo fratello, otto femmine e nove maschi anche lui. Tutti uniti come un solo braccio all’inizio, una famiglia sola, ma poi ci siamo divisi. Loro sono rimasti là, non sono venuti in Agro Pontino. Ma non ci siamo divisi per questo; non sono venuti perché ci eravamo già divisi e non ci siamo più uniti. È la politica che ci ha diviso. Comunque eravamo diciassette figli e allora funzionava così, non era come adesso che i figli sono una spesa. Prima coi figli prosperava una famiglia, perché erano braccia per lavorare la terra. Come dice? che bisognava anche dargli da mangiare? E certo che bisognava dargli da mangiare, però neanche tanto, quello che trovavi. E se il figlio era forte veniva su da solo. Non è che quando si ammalava andavi dal pediatra e compravi le medicine. Mia nonna accendeva una candela e si metteva a pregare. E quello guariva e si faceva grande, a lavorare. E se non guariva moriva. Tu piangevi, pregavi, lo sotterravi e ne facevi un altro. Tutti così del resto, mica solo noi. Per lavorare la terra ci volevano le braccia, non è che ci fosse un’altra medicina. I trattori e tutte queste cose qua sono venute adesso, prima non c’erano, e se c’era pure lei, faceva lo stesso pure lei. Dai secoli dei secoli si faceva così, saeculorum amen. Mica c’era il benessere, c’era solo la fame.

   Come dice? che così era peggio, era solo gente in più a spartirsi la stessa fame? Per noi erano braccia, che le debbo dire; noi avevamo fame e ci servivano le braccia per produrre il cibo, la ricchezza. Ma anche adesso, non sono solo i ricchi a non fare più figli? Noi in Italia non ne facciamo più ma in Africa invece, che sono ancora poveri e s’affogano sulla via di Lampedusa per venire qui, continuano a farne come se niente fosse. Glielo vada a spiegare a loro che non li debbono fare. Secondo lei non lo sanno, quando mettono al mondo un figlio, che poi gli muore di fame o di Aids? È per questo che ne fanno tanti: «Prima o poi qualcuno mi camperà». Lei fa i figli perché le servono, e più è povero e più gliene servono; è quando è ricco che gliene bastano pochi.

   Voleva venire anche zio Iseo, comunque, il terzo dei maschi che si portava due anni soli di differenza con zio Pericle ed erano sempre insieme spalla a spalla, sia sui campi a zappare che all’osteria. Anche zio Pericle avrebbe preferito Iseo, perché non è che andavi a Roma e tornavi il giorno dopo. Mica c’era l’eurostar come adesso. Tornavi chissà quando e chissà pure se tornavi certe volte; magari non proprio quella volta lì che c’era già il fascismo e aveva portato un po’ di ordine, ma pochi anni prima, quando l’Italia era ancora divisa o si era appena unita e la gente – a parte il fatto che non gli veniva neanche in mente di andare fino a Roma – quella poca che ci andava per un pellegrinaggio o l’anno santo o l’accidente che li spaccava, prima di partire andava a fare testamento, perché non si sapeva mai quello che incontravi, dai briganti per le strade, in mezzo ai boschi e alle foreste, alle malattie, e il tempo che ci mettevi. Comunque era una cosa che era meglio farla insieme a qualcuno che – se ci fosse stato da doversi giocare la pelle – tu eri sicuro che spalla a spalla quello avrebbe difeso la pelle tua come tu la sua. È vero che lo stesso si poteva dire di zio Temistocle, con cui zio Pericle andava anche d’accordo ed era legato. Zio Temistocle aveva fatto pure la guerra, gli scontri all’arma bianca, e lo sapeva bene cosa vuole dire tagliare la gola a un uomo per non fargli tagliare la tua. Mica gli era capitato una volta sola in guerra.

   Però con zio Iseo era più stretto. Tanto che più avanti – quando qua si sono messi per conto loro e le cose non sono andate più bene e prima gli si ruppe l’argine del Canale Mussolini e poi la grandine – allettati dalla paga s’arruolarono volontari tutti e due per la guerra mondiale, l’ultima, e li mandarono in Africa Orientale a difenderla contro gli inglesi che erano entrati dal Kenya e avevano le Land Rover, le autoblindo, quelle cose lì, e noi invece niente, solo moschetti e bombe a mano, le bombe a mano nostre, le Balilla SRCM di latta, che facevano solo scheggette di filo di ferro, non come le Ananas degli inglesi, bombe a mano vere col ferro vero. E quella volta i miei zii, mentre andavano all’assalto tra gli scoppi e i fumi, tra la gente che cadeva e che strillava e il capomanipolo che urlava «Avanti! Avanti!», a un certo punto zio Iseo s’era ritrovato in ginocchio e poi a terra, senza fiato. «E che è successo?» aveva pensato, e s’era messo una mano al fianco e quasi non lo trovava più, e poi ha ritratto la mano rossa, l’ha guardata e lo ha cercato ancora, ma ha sentito il dolore senza però quasi più ritrovarlo quel fianco, e allora ha strillato: «Pericle, Pericle, Periclìn».

   E zio Pericle s’è ritrovato pure lui giù per terra vicino al fratello: «Stà calmo, stà calmo».

   «I me gà ciapà, i me gà ciapà» faceva zio Iseo e poi: «Am mòro, am mòro, pènsaghe tì a mè fiòi». E zio Pericle lo ha trascinato alcoperto, dietro una camionetta rovesciata, e gli ha messo un tampone sulla ferita mentre gli altri continuavano a andare e tutto intorno erano scoppi e fumi e urla, e zio Iseo insisteva: «Non star lasiàrme solo, resta qui».

   Ma tutti gli altri continuavano a andare sparando, e zio Pericle lo ha lasciato al coperto: «Stà calmo, stà qui, vado all’assalto e torno, spèteme fradèo».

   E lui: «At spèto, at spèto; se non mòro at spèto», e poi sappiamo come è andata.

   Però quella volta di Roma toccava al più grande, non è che potessero andare tutti, e così è toccata a mio zio Temistocle. Le donne hanno messo l’acqua sul fuoco poi riempito la tinozza nell’aia, e zio Pericle e zio Temistocle si sono fatti il bagno, prima l’uno e poi l’altro nella stessa acqua, perché allora funzionava così, c’erano mica le docce ancora. Poi cenato e via in letto, dove ognuno avrà dato una botta alla moglie. E la mattina appresso sono partiti. Zio Pericle in realtà gliene deve avere date anche più d’una, perché era noto che fosse focoso e magari avrà voluto anche fare provviste, come si suole dire, per la prevedibile astinenza. E del resto era focosa anche lei. Dicevano i miei cugini – che sentivano ogni tanto di là dal muro della stanza mentre facevano – che lei digrignasse al marito: «Dai Pericle, dai, dai». E lui invece: «Non star grafiàrme», con rabbia. Comunque sono partiti la mattina presto in bicicletta, che ancora non faceva giorno, per andare a Roma.

   Come dice? perché non hanno preso il treno? Ma se avessimo avuto i soldi per pagare il treno, li avremmo avuti anche per pagare il padrone, era quota 90 le ho detto, e non c’era una lira in giro a pagarla oro. Avevamo i sacchi pieni di grano ma non avevamo una lira in tasca perché anche il grano non valeva più niente; con quota 90 se ne comprava quanto se ne voleva all’estero, oramai. Quella volta il Duce l’ha ammazzata l’agricoltura italiana. L’industria no, ma l’agricoltura l’ha ammazzata.

   Comunque sono partiti e una pedalata appresso all’altra sono arrivati a Roma. Ci hanno messo cinque o sei giorni, ma non ricordo bene. Avranno fatto un centinaio di chilometri al giorno, mica era come al Giro d’Italia adesso, che fanno duecentocinquanta e anche trecento chilometri al giorno, a sessanta all’ora di media con l’eritropoietina. Le biciclette erano pesanti, i copertoni consumati. Ogni tanto bucavi e ti dovevi fermare a riparare col mastice la camera d’aria. Loro se ne erano portata pure qualcuna di scorta, ma già vecchia e riparata più volte anche quella. E poi un sacco di pane per il viaggio, e i vestiti. Le strade non erano poi tanto mal messe, perché il fascio aveva già costituito l’Anas e da Ferrara a Roma, prima per la via Emilia e poi per la Flaminia, era pure strada asfaltata. Dormivano dove capitava, nelle stalle e nei fienili di qualche povera gente e ogni tanto c’erano gli ostelli per i pellegrini, gli anni santi, questa roba qui. E su e giù per le montagne, a forza di garretti, sono arrivati a Roma. Sono andati a dormire alla Casa del viaggiatore vicino alla stazione e la mattina dopo si sono lavati, si sono messi la camicia nera e la divisa della milizia che si erano portati appresso arrotolate in un pacchetto legato dietro la sella, e che si erano fatti stirare la sera prima da una inserviente, e si sono presentati a palazzo Venezia: «Tòc, tòc, noi vogliamo parlare con Rossoni».

   «E che è, tuo fratello?» gli ha detto quello là: «E come ti permetti? L’Eccellenza Rossoni vorrai dire! E poi chi sei? Ma che uno si presenta qua, a palazzo Venezia, e dice voglio parlare con questo e con quest’altro? E perché non con il Duce? Ma voi siete dei sovversivi».

   Zio Pericle lì per lì non s’è offeso subito, anzi. Lui per la strada, mentre venivano giù a piedi da via Nazionale e il fratello gli diceva: «Ma tu che dici, sei sicuro che ci faranno entrare? Non è che ci cacciano via?», lui lo aveva rassicurato: «Ma scherzi? Ci cacciano via? E che l’abbiamo fatta a fare la rivoluzione, allora? Stai tranquillo». Però lui tanto tranquillo dentro di sé non ci stava. Per tutta la strada su e giù per l’Appennino – anche quando trovavano le peggio salite al Furlo e per l’Umbria intera, che non riuscivano più nemmeno a spingere i pedali e gli toccava scendere e tirare le biciclette a piedi – lui non aveva avuto una sola esitazione: «Aspetta solo che arrivo a Roma, e in quattro e quattr’otto sistemo tutto». Ma appena dopo Terni, quando oramai era chiaro che erano arrivati e a sera sarebbero stati a Roma, non faceva che dirsi: «Vuoi vedere che qui non sistemo niente, e chissà proprio se mi ci fanno arrivare al Rossoni?».

   Per questo motivo zio Pericle non s’è offeso subito. Se l’aspettava quasi, era rassegnato. Ma quando ha visto la faccia delusa del fratello, con l’espressione tipica che aveva zio Temistocle fino da bambino, che tu capivi subito: «È fatta, non c’è più niente da aspettarsi, un altro viaggio a vuoto, l’aghémo ciapà in quel posto anca stavolta», zio Pericle s’è offeso e gli è saltata la mosca al naso. Ha messo la mano al pugnale che portava al cinturone, l’ha tirato fuori e ha cominciato a urlare, e già stava con l’altra mano a fare perno sul piano del bancone per poterlo scavalcare e andare dall’altra parte, faccia a faccia con l’usciere. Ma intanto – appena messa la mano al pugnale – a tutti e due gli erano saltati addosso in quattro i poliziotti dell’Ovra o quello che so io, e li hanno ingabbiati come salami e zio Pericle ha avuto giusto il tempo di finire di urlare all’usciere «Digli Peruzzi di Codigoro al Rossoni! testa de casso», e li hanno sbattuti in gattabuia, che la camera di sicurezza stava proprio lì dietro a portata di mano. E mentre li portavano di peso in cella, li riempivano bene di cazzotti ai fianchi. Poi buttati al volo sopra al tavolaccio e richiusa la chiave, con zio Pericle che continuava a strillare «Peruzzi di Codigoro!», fino a che l’ultimo poliziotto gli ha detto: «Statte zitto mo’, che avemo capito».

   Il capoposto però – per sicurezza sua – prima di chiamare la questura centrale per farli portare via, ha mandato uno al piano di sopra: «Hai visto mai?». Quello lo ha detto all’usciere del piano, l’usciere a una segretaria, la segretaria al segretario e quest’ultimo, pigliandosi appresso un po’ di roba da firmare, ha bussato alla porta ed è entrato dentro: «Scusate Eccellenza, ci sono due matti di sotto che dicono di chiamarsi Peruzzi. Di Codigoro mi pare. Per sicurezza li ho fatti mettere dentro».

   Be’, lei non ci crederà, ma Rossoni è saltato su dalla scrivania come una molla, è sceso lui per le scale e s’è fatto aprire la cella, e come s’è aperta gli ha aperto le braccia: «Peruzzi!».

   I miei zii sono saltati dal tavolaccio dove s’erano seduti e – scattati sull’attenti – hanno fatto il saluto romano e detto reverenti: «Eccellenza!».

   «Ma quale ecelènsa, fiòi de can! Vegnì qua» e se li è abbracciati stretti uno a uno, e faceva al suo segretario: «Questo l’è il Pericle Peruzzi, stia attento sa, l’è un desgrassià, lo conosco da ragazzo» e se li è portati su, sottobraccio insieme a lui.

   «Testa de casso» ha ridetto però un’altra volta, ripassando vicino alla guardiola, zio Pericle all’usciere.

   Rossoni – come sta scritto pure sui libri di storia – era il numero due quella volta. Dopo il Duce veniva lui; prima di Balbo e di tutti gli altri che di nome erano ministri, ma chi minestrava era lui, perché era sottosegretario alla presidenza del consiglio, come il segretario di stato americano, faccia conto, con il presidente Usa. Era l’orecchio del Duce, quello che gli stava più vicino, e ogni carta passava da lui. Era il numero due, le ripeto. Certo non è sempre stato così per tutti i vent’anni. Col Duce c’era poco da stare tranquilli. Oggi ti portava in palmo di mano e domani mattina ti ritrovavi nella spazzatura. Guardi quello che fece a Balbo. E a Ciano? Ciano che era pure il genero – il marito della figlia – lo ha fatto fucilare. Si figuri gli altri. Pure a Rossoni quindi gli era toccato il tempo del bastone, subito dopo la Carta del lavoro, quando il Duce lo fece dimettere e mandare a casa dalla presidenza dei sindacati fascisti – s’era anche diffusa la voce che fosse scappato in Svizzera con tutta la cassa dei sindacati, il «tesoro» diceva la voce; ma lui ha sempre smentito, ha detto che non era vero, anche se quelli che arrivarono dopo non trovarono più una lira, solo debiti – ma questa volta però no, nel 1932 era di nuovo il tempo della carota e lui faceva davvero il bello ed il cattivo tempo. Certo il Duce gli stava sempre sopra il collo – a un ufficio di distanza – ma prima di entrare dal Duce dovevi entrare da lui. E appena ha visto zio Pericle gli è saltato al collo e se lo è portato sopra in spalla.

   Cosa fa, non ci crede? Lei dice che la storia è troppo romanzata, che non può essere che uno come il Rossoni si scapicolli per loro o che addirittura li abbiano fatti entrare dentro il portone di palazzo Venezia – sia pure a parlare con il portiere – senza che nessuno li fermasse, come fosse stato un qualunque condominio di una via Vincenzo Monti? Anzi, pure a un condominio di via Vincenzo Monti, due contadini non li fanno avvicinare così?

   E che ragionamenti sono, è chiaro che l’ho accorciata. Mica mi posso mettere a raccontare tutto quanto, particolare per particolare. È chiaro che nella prima tappa, quando sono partiti la mattina presto da Ca’ Bragadìn, sono andati prima a Ferrara. E mica erano cretini, si mettevano alla ventura così, senza neanche lo straccio di un pezzo di carta? Quelli poi erano tempi che uno mica si spostava come voleva: «Adesso mi sono stufato di stare qui e vado là»? Ti ci volevano i permessi. C’era il commissariato per le migrazioni interne. Quelli controllavano chi andava e chi veniva. Era proibito, per esempio, lasciare la campagna e andare a stare in città – «Poi cerco un lavoro» – non ti facevano iscrivere al collocamento, non ti davano la residenza, ti rispedivano via col foglio obbligatorio come i clandestini adesso. Va bene quindi che eravamo contadini e pure un po’ ignoranti, ma prima di partire per Roma i miei zii sono andati in federazione a Ferrara, al fascio provinciale, a farsi fare una lettera che dicesse: “I camerati Tizio e Caio vengono per questo e per quest’altro, dategli la massima collaborazione, saluti fascisti e grazie” Vuole che il federale di Ferrara non gliela facesse, quella carta, a mio zio Pericle? Ma lei ha capito di che stiamo parlando? E poi a Roma è logico, in piazza Venezia, ancora prima dell’imbocco, l’hanno fatta vedere subito a un vigile urbano quella carta, e poi mano mano a un paio di poliziotti in borghese, via l’uno via l’altro, fino in mezzo alla piazza e poi ancora oltre, fin che sono arrivati al portone centrale, dove c’era il piantone della milizia che stazionava di fianco al moschettiere del Duce impettito in garitta e questo – il piantone – li ha fatti entrare e accompagnati dall’usciere. È l’usciere che senza manco dare un’occhiata al foglio che chissà quanti ne aveva già visti in vita sua, quel giorno s’era svegliato storto e quando ha visto questi due contadinotti pure mezzo arroganti – «Vogliamo vedere Rossoni!» – chissà che gli deve essere passato per la testa e ha detto: «Mo’ gli faccio vedere io a sti du’ burini come li metto sull’attenti, li debbo far strisciare». Poi va a sapere, lui, che noi abbiamo la furia come tara di famiglia. Noi due però – signore mio – non possiamo andare avanti così. Bisogna che ci mettiamo d’accordo. Io non ho capito bene che cosa le serve, ma se lei vuole sapere tutto quanto – particolare per particolare – io glielo posso pure dire perché non ho niente da nascondere a tanti anni di distanza, e tutto quello che le dico è l’esatta verità. Però di questo passo non finiamo più. Se lei vuole che le racconti la storia e che facciamo in tempo a finirla, i particolari che non contano bisogna saltarli. Se io le dico che hanno fatto una cosa, hanno fatto una cosa e basta, mi deve credere, se no è meglio che lasciamo stare. Io non mi invento niente. Al massimo posso ricordare male.

   Comunque, per sua norma e regola, mio nonno col Rossoni c’era stato in galera assieme quando erano ancora rossi e socialisti, a Copparo, nel 1904, l’anno che poi nacque zio Adelchi, l’unico che è nato che il padre non c’era. O meglio, il nonno non c’era mai stato neanche quando erano nati tutti gli altri. Lui, quando la mattina vedeva la nonna che alzandosi diceva «Oggi non vengo in campagna» e cominciava a mettere pentoloni d’acqua sul fuoco e a tirare fuori federe, lenzuoli e biancheria pulita, lui non aspettava nemmeno che la moglie spedisse via uno per uno tutti i figli più piccoli in braccio alle figlie più grandi, ma le chiedeva solo: «Che dici, vado a farmi una partitina alle carte?».

   Lei: «Va’, va’».

   E lui se ne andava all’osteria – seduto dentro, neanche fuori, dovesse non sia mai arrivare fino lì qualche rumore – a giocare a briscola e bere vino, finché nel primo pomeriggio, o verso sera, arrivava un figlio a dirgli: «L’è nato».

   «Maschio o femmina?» chiedeva. Quello glielo diceva e allora lui s’alzava e andava a vederselo.

   Tutti di giorno li ha fatti mia nonna, neanche uno di notte, perché di notte l’osteria era chiusa. E tutti in casa senza mio nonno tra i piedi. Tutti eccetto zio Temistocle che era il più grande – il primo – e non era ancora pratica e non seppe quindi riconoscere i segnali e lo fece in campagna, mentre lavoravano a cavare le bietole. Le si ruppero le acque mentre col rampino stava facendo forza per cavarne una grossa, le si ruppero le acque con quella barbabietola da zucchero mezza dentro e mezza fuori proprio come il bambino e lei disse: «E che è?», e lasciò la barbabietola così, col rampino ancora attaccato. «Scusate un attimo» disse, e attraversando il campo andò verso la scolina, si sedette all’ombra d’una pianta e sfornò mio zio Temistocle. Alle altre donne – che appena capita la situazione si erano sparsa la voce e le si erano fatte tutte attorno – disse: «Ah, un’altra volta resto a casa», e subito alzatasi voleva ritornare in mezzo al campo a finire di cavare la sua bietola. Riuscirono a riportarla a casa solo con la scusa di dover lavare il bambino.

   Quella volta comunque stavamo a Codigoro. Non so da quanti anni ci stessimo, ma comunque non tanti. I miei giravano. Una volta di qua e un’altra di là, a seconda di come trovassimo i contratti di mezzadria. Diche parte precisa fosse il nonno non glielo so dire. Veniva comunque su dal Po pure lui, da ben prima che il Po si divida e cominci il delta. Forse, addirittura, la famiglia d’origine veniva dalle parti di Modena o di Reggio Emilia. Pare che avessero dei soldi all’inizio – così dicevano i vecchi – stessero bene, erano mugnai. Un nonno o un bisnonno – non so se per parte di padre o di madre – pare fosse stato in Russia con Napoleone e al ritorno si fosse fatto uno di quei mulini ad acqua, sa, quelli sui barconi galleggianti che stazionavano sul Po e l’acqua, da sotto, faceva girare le pale. La gente portava il grano e loro si tenevano la parte, e facevano i soldi. Poi si sono mangiati tutto. S’erano comprati terre. E si sono mangiati anche quelle. Forse affari andati male, qualche figlio scapestrato, una piena del fiume, un’alluvione che s’è portata via tutto – mulini e fortuna – e a mio nonno e a suo fratello, ma già anche a suo padre e sua madre, erano rimaste solo le pezze al culo, senz’arte né parte. Vivevano dentro i casoni, capanne di frasche di legno e di rami, che si chiamavano casoni solo perché erano grosse. E s’erano messi a fare i carrettieri su e giù per le strade e i paesi. È così, facendo il carrettiere, che mio nonno aveva conosciuto mia nonna, facendo avanti e indietro per le strade della Grande bonifica ferrarese, che anche se si chiamava “ferrarese” pigliava però pure di là dal Po, lungo il delta, nel Polesine, che era provincia di Rovigo. Non l’ho mai capito bene questo fatto: forse erano ferraresi i soldi della bonifica, i capitali e le società, oppure quando era iniziata la bonifica era ancora provincia di Ferrara. Comunque mio nonno e suo fratello, dai e dai avanti e indietro, passando e ripassando dalle parti di Formignana, dove c’era una frazione che si chiamava Tresigallo – non era una città vera come adesso, ma tre case in tutto e una chiesetta – passando e ripassando davanti a un casolare vedevano sempre questa bella figliola. Non so se lei se la ricorda in fotografia – alta e grossa come un carabiniere anche da vecchia – e chissà che cosa deve essere stata da giovane, tutta mora com’era. Comunque passa e ripassa mio nonno le faceva i complimenti. E quella prima arrossiva ma poi rispondeva per le rime. Non le è mai mancata la risposta. Anche mio nonno però era un bel toso dall’alto di quel carretto; biondo, la fronte larga, i baffi folti, il sigaro sempre in bocca. I fratelli di mia nonna non volevano: «Senz’arte né parte» le dicevano. E poi: «Un carrettiere?», come per dire morto di fame.

   Loro erano contadini, lavoravano la terra. Avevano anche qualche campo in proprietà, e poi terra in affitto e a mezzadria, e anche bestie loro. Ma erano quei quattro metri di terra in proprietà a farli sentire dei signori tali e quali agli agrari. Nobili quasi, rispetto a mio nonno. E non ci si volevano sporcare. Invece la sorella s’è andata a invaghire di quello – «Uno scansafatiche» dicevano – e non c’è stato niente da fare, se lo è preso come lo ha voluto e i fratelli allora hanno fatto buon viso e si sono messi sotto a farlo diventare contadino provetto anche lui. Gli hanno insegnato pure a leggere e scrivere.

   Lui non voleva, gli piaceva il carretto, i cavalli, andare in giro per le strade e fermarsi di tanto in tanto alle osterie. Però gli piaceva anche quella donna, pure se deve avere capito subito che a cassetta ci si sarebbe messa lei. Lo riveriva e lo adorava, santa donna, e ha continuato pure da vecchia ad arrossire e ridere ogni volta che lui la guardava negli occhi in un certo modo, ridendo sotto i baffi. Ma ogni volta che c’era da prendere una decisione non stava a sentire nessuno, solo i suoi fratelli – specie il più grande, quello che non ha mai preso moglie – e poi decideva tutto lei.

   Lui, il nonno, era buono, era un pezzo di pane e rideva sempre. I figli – e poi i nipoti e i figli dei nipoti – se li è sempre presi in braccio e ci rideva e scherzava anche se lei non voleva. Lei diceva: «Prendi la frusta», e invece eravamo noi bambini che un altro po’ frustavamo lui. Non lo abbiamo visto arrabbiato una volta, neanche un rimprovero; ti guardava e basta, e ti guardava pure dolce. Eseguiva felice e contento tutto quello che diceva lei e se qualcuno per caso, anche quando eravamo già in Agro Pontino, andava da lui a chiedere un parere su una qualunque questione, lui buttava le mani avanti: «Ah, sentite lei».

   Lei invece decideva tutto senza neanche consultarlo, gliele diceva dopo le cose, e se qualcuno dei figli provava ad avanzare il dubbio – «Ma il papà? Siete sicura che il papà non dirà niente?» – «Ah» faceva lei, «al cognosso mì.»

   Io non vorrei però che lei avesse capito male, forse non mi sono spiegato bene: mica che mio nonno fosse uno zerbinotto o una pezza da piedi. È che loro due erano contenti così. Si figuri che alla fine poi – nel 1952 – una mattina mia nonna s’è alzata come al solito e ha visto però che lui non lo faceva, restava nel letto a impigrirsi. Allora lo ha guardato accigliata come a dire: «Che aspetti?».

   Lui ha fatto: «Al son drìo non sentirme tanto bèn. Al resto in leto inquò». E non s’è più alzato, e venti giorni dopo, una sera, lei gli si è seduta a fianco e lui le ha detto, con voce fioca: «Come te sì bèa».

   Lei ha risposto: «No, caro: te sì tì che te sì bèo», e lui poco dopo è morto.

   Lei era andata avanti e indietro su e giù per le scale per tutti i venti giorni ad accudirlo come un bambino e dopo morto se lo è voluto lavare e vestire lei e il giorno dopo, al funerale, è rimasta impettita per tutta la cerimonia – fino al camposanto – impettita e senza una lagrima. La sera però, tornati a casa, s’è messa in letto e non si è alzata più, e venti giorni dopo è morta pure lei.

   Fatto sta che dopo sposato, mio nonno s’è messo a fare il contadino. Avrà avuto ventidue anni. Prima è stato lì con loro – coi fratelli della moglie – anche per impratichirsi diciamo così, pure se impratichirsi da contadino non è così facile come a dirlo, ci devi nascere sulla terra e se non ci sei nato resti sempre poco pratico, non saprai mai qual è il momento giusto di piantare o raccogliere le cose, devi guardare gli altri, e anche nei movimenti resti sempre un po’ impacciato; e forse è per questo che lui si è sempre affidato a lei. Dopo due o tre anni hanno deciso di andare via e mettersi da soli. Lei stava sempre a sentire i fratelli, però a stare voleva stare da sola, per conto suo, con la sua famiglia. A farla breve, hanno preso dei campi in affitto a Codigoro e avevano qualche vacchetta datagli dai fratelli e andavano anche a giornata fuori, come braccianti, e ogni tanto, quando capitava, mio nonno si faceva pure un viaggio col carretto, tanto in campagna governava mia nonna. Poi, un anno appresso all’altro, i figli arrivavano e crescevano, e già diventavano anche loro forza lavoro e si prendeva in affitto altra terra.

   Comunque quella volta – nel 1904 – mio nonno si trovava a passare per caso per Copparo durante uno di questi viaggetti. Stava sul carretto e trasportava una partita di vino con tutte le botticelle legate l’una sopra l’altra. A un certo punto ha visto confusione. C’era una manifestazione di operai: operai a giornata delle bonifiche ferraresi, terrazzieri, braccianti, scarriolanti. E lui ha visto su un palchetto l’Edmondo Rossoni che strillava gesticolando.

   «Fammi stare a sentire il Rossoni» s’è detto mio nonno, perché lui lo conosceva quel ragazzotto alto e segaligno, un pennellone che sulla piazza di Copparo adesso pareva un matto. Era uno di Formignana, anzi proprio di Tresigallo, quella piccola frazione tre case e una chiesetta dove stavano anche i cognati di mio nonno. Il padre faceva lo spondino – quei terrazzieri che scavavano i canali a mano – tirava su le sponde. La madre era di Comacchio e andava a giornata fuori, bracciante, a mondare il riso e a zappare l’erba via dal grano. Mio nonno lo aveva visto ragazzino, essendoci un otto o nove anni di differenza. Il Rossoni adesso ne aveva una ventina e mio nonno quasi trenta, perché era del ’75 – 1875 – e a trent’anni aveva già una barca di figli: Temistocle appunto, nato subito nel ’97, poi una femmina nel ’98, ’99 zio Pericle, 100 l’hanno saltato, ’1 zio Iseo, ’2 una femmina, ’3 un’altra femmina e ’4, come detto, zio Adelchi.

   Comunque il nonno ha visto il Rossoni con la giacchetta, la camicia e il fiocchetto da studente e s’è messo ad ascoltarlo dietro a tutti gli operai. Pare che qualche giorno prima – in un posto chiamato Buggerru, in Sardegna – i soldati avessero sparato sui minatori in sciopero e ne avessero ammazzati tre. O almeno così diceva il Rossoni. Ma come non bastasse, qualche giorno dopo i carabinieri a Castelluzzo in Sicilia avevano sparato su una lega di contadini ammazzandone due e ferendone dieci. «Eh no» conveniva mio nonno, «queste cose non si fanno. E che, non ho neanche il diritto di protestare?» No, non ce lo avevi. Ora sia chiaro che non è che mio nonno cadesse dal pero. Lui pure sapeva com’è che va il mondo. Faceva il carrettiere e non è che avesse un’idea politica vera e propria, lui sapeva che esistono e sono sempre esistiti i ricchi e i poveri e non c’è niente da fare, è inutile che ti fai venire idee strane, è meglio che ti rassegni e basta. Ma quando però uno si trova con l’acqua allagola e non ce la fa a tirare avanti la famiglia e ti chiede a te che stai pieno di roba di farlo lavorare o di pagarlo una lira in più, tu non gli puoi far sparare addosso dai carabinieri o dai soldati: «E che madonna» diceva fra di sé mio nonno.

   Ma proprio in quel momento sono arrivati i soldati. A Copparo. In piazza. Con le guardie regie e il commissario di pubblica sicurezza. Mentre parlava il Rossoni. E lo volevano far tacere: «Questa è una manifestazione non autorizzata, lei è in arresto, scioglietevi». Allora sono cominciate le botte e i parapiglia. Mio nonno è rimasto di fianco ai portici – imbambolato – a guardare da sopra il carretto. Dietro agli operai.

   Una confusione che non le dico. Il polverone – mica c’era l’asfalto – urla, strida, e poi colpi di moschetto e la gente che scappava di qua e di là e proprio mentre mio nonno oramai stava alzando il frustino per dire in fretta al cavallo «Vai, vai, squagliamocela anche noi», gli è piombato sul carretto, sbucando come Mosè da una nuvola di polvere ma con un nugolo di guardie che gli correvano scalmanando appresso, gli è sbucato e piombato, «Tònf», sopra il carro il Rossoni, anche lui strillando: «Scàmpame Peruzzi, scàmpame».

   Che poteva fare mio nonno? Il Rossoni lo conosceva da quand’era ragazzino. Lo lasciava lì? Non s’è manco posto il pensiero mio nonno, è stato un riflesso automatico. Ha alzato il frustino e «Vai!» ha urlato al cavallo. Ma non ha fatto in tempo a dirgli «Vai» che le guardie gli sono state addosso. Chi tentava di fermare il cavallo prendendolo per il morso e chi menava di piatto con gli sciaboloni addosso al carro, al cavallo e al Rossoni.

   Io adesso non lo so se sono state più le botte al Rossoni o quelle al cavallo. Ma fatto sta che a mio nonno gli è saltata la mosca al naso e ha cominciato a tirare frustate con la frusta lunga a destra e a manca: guardie, borghesi, passanti, tutto quello a cui arrivava. «Fiòi de can» strillava: «Fiòi de can!», fuori di sé.

   Il cavallo non lo aveva mai visto così – glielo ho detto che era un uomo tranquillo, un pezzo di pane, dove lo mettevi stava per tutta la vita; ma chissà cosa dev’essergli preso quel giorno, la furia, forse, che da qualche parte a noi deve pure arrivare, in fin dei conti – e comunque il cavallo non lo aveva mai visto così e ha preso paura. Mica per le guardie e le bastonate sul groppone, quello s’è preso paura per il padrone e s’è imbizzarrito, ha cominciato a sgroppare come un puledro, saltava come ai rodei, s’incurvava, e il carretto saltava appresso a lui, con mio nonno e il Rossoni che si reggevano alle sponde e con mio nonno che strillava ancora «Fiòi de can» e le funi che si rompevano e tutte le botticelle che cadevano per la strada e si sfasciavano, e il vino che andava perso, e mio nonno che pensava: «Che casso ghe dìgo inquò?» alla moglie, per tutti i danni del vino e delle botti che ci sarebbero stati da pagare.

   Per farla breve sono caduti per terra e s’è rotto anche il carretto, e poi il cavallo s’è fermato e le guardie li hanno presi e sbattuti in prigione, dopo avergli però dato un sacco di botte, soprattutto a mio nonno più che al Rossoni. Sia perché mio nonno era contadino vestito da contadino e quell’altro invece – per quanto sovversivo e rivoluzionario – era sempre vestito da persona per bene, col fiocchetto pure. Sia però per via delle frustate, perché diciamo la verità, il Rossoni le aveva solo prese ma mio nonno le aveva anche date. Poi gliele hanno restituite tutte – e un po’ anche al Rossoni – e li hanno messi in prigione. Processo e un mese di carcere.

   Adesso non so se il mese lo hanno scontato a Copparo o li hanno portati alle carceri di Ferrara, però so che stavano in cella assieme, una cella grande, un camerone, e per un mese hanno diviso sia il rancio schifoso che il bugliolo. Non sa cos’è il bugliolo? Era un vaso di coccio messo in un angolo, in cui ognuno andava a fare i propri bisogni. Spartivano il pane e i bisogni in pratica, e mio nonno, che non aveva mai avuto un’idea politica in vita sua – sì, i preti non gli piacevano, ma la politica era roba da signori per lui – mio nonno in quel mese, a stare a sentire il Rossoni dalla mattina alla sera, era diventato una specie di Carlo Marx pure lui, anche se ogni tanto, specie poco prima di dormire, quando ognuno stava rannicchiato nel suo cantuccio per tentare di acchiappare al volo il sonno, ogni tanto mio nonno diceva forte, da sotto la sua coperta: «Scàmpame, Peruzzi, scàmpame!» e tutta la camerata si metteva a ridere, Rossoni compreso. Poi, dopo che s’era placata l’ultima risata dal fondo della cella, mio nonno aggiungeva disperato: «Còssa ghe dìgo mo’ a mè mojère?». Gli altri ridevano ancora, ma quello era il pensiero suo fisso, e man mano che passavano i giorni e finiva la pena da scontare e arrivava il momento di uscire, a mio nonno aumentava la pena di uscire: «Trenta giorni? Trent’anni dovevano darmi».

   Liberi comunque, rilasciati. E salutato il Rossoni al bivio di Tresigallo, mio nonno s’è avviato verso casa a Codigoro – una quindicina di chilometri a piedi – sempre con la voglia di rallentare o addirittura voltare e tornare indietro. Ma buono pure come il pane, non era però un uomo da sottrarsi al suo destino; quel che è fatto è fatto e così, lasciata la strada grande, ha preso la poderale verso casa. Lei l’ha visto da lontano – era pomeriggio inoltrato – che appariva e spariva tra l’ombra scura dei fogliami e gli sprazzi luminosi del sole che, oramai, si faceva strada a fasi alterne tra gli olmi del filare. E gli è andata incontro.

   Lui l’ha indovinata – percepiva solo la figura, col sole alle sue spalle; senza i lineamenti – e ha aumentato il passo: «Sia quel che sia». Ma quando a venti metri l’ha vista in viso che non era arrabbiata, che non ci sarebbe stata guerra per le botti il vino ed il carretto, che lei era solo felice di vederlo – felice e basta, e le ridevano gli occhi oltre che le labbra – allora mio nonno è corso per abbracciarla. Però appena l’ha toccata – solo le mani tese in avanti, prima ancora di abbracciarla – mio nonno s’è messo a piangere, che lei non lo aveva mai visto e neanche lui, a ricordarselo, s’era mai messo a piangere prima in vita sua. E mia nonna gli diceva: «Pagarém Peruzzi, pagarém» per consolarlo, perché pensava che lui piangesse per il dispiacere, per i pensieri, i debiti, il danno. E invece lui piangeva di contentezza: «Come te sì bèa» le diceva, «come te sì bèa». Mio nonno piangeva perché la moglie era bella. Tutto qua. Sì, certo, s’era pure sentito sollevato, placato oramai d’ogni ansia e disavventura; ma lui piangeva perché quella era bella, e non solo era bella, gli voleva anche bene. Lei non piange per queste cose qui?

   È stato solo dopo – a sera, a letto, dopo essersi placati d’amore e d’astinenza – che a lei è venuta voglia di qualche spiegazione in più. Prima aveva messo a letto i figli nell’altra stanza e s’era tenuta solo l’ultimo nato, l’Adelchi, nella culla a fianco al letto loro. S’era lavata col sapone profumato che teneva da una parte nel cassetto del comò, aveva dato la poppa all’Adelchi, ingozzandolo quasi, «Mangia fiòlo, mangia», che oramai gli usciva a rivoli il latte dalla bocca, finché non s’è addormentato come un sasso, sulla tetta. «Ora dorme fino a domani» aveva detto allora mia nonna e l’aveva messo nella culla, e subito alle tette ci si era messo il nonno, fino a stancarsi tutti e due dopo tutta quell’assenza, e solo dopo la nonna gli ha finalmente chiesto, ridendo quasi sotto i baffi, a canzonarlo: «Ma cos’è che t’ha preso Peruzzi, còssa te gà tòlto?». E rideva di gusto, tanto che s’è dovuta voltare pei sussulti del riso, perché erano coricati di fianco, uno dietro l’altra, e s’è voltata verso di lui, poggiata col gomito sul cuscino a chiedergli: «Ma còssa te gà tòlto? Spiégheme, Peruzzi» e rideva, perché non ci aveva voluto credere quando la gente era venuta a dirle di lui che strillava sopra al carro «Fiòi de can» e menava frustate alle guardie. E adesso stava lì a ridere, appoggiata al cuscino a immaginarsi la scena: «Còssa te gà tòlto?», con lui invece che guardava in alto al lume di candela verso una macchia del soffitto – una macchia d’umidità – con le mani giunte sotto la testa e i gomiti larghi; assorto, serio, a chiedersi anche lui cosa gli fosse preso quel giorno. «Non lo so neanch’io» le ha detto prima. Ma dopo un po’ ci ha ripensato – mentre lei ancora rideva e già ricominciava fintaindifferente a stuzzicargli con l’altra mano il cagnolino addormentato – e le ha detto voltandosi anche lui, e ricominciando a baciarla: «El cavàl, fémena, el cavàl no ghéa da tocarmelo!». E la nonna gli ha sentito nella voce un suono duro e sordo – la minaccia – che unito ai baci le rabbrividì la schiena.

Continua a leggere…

 

L’autore

 

Antonio Pennacchi (Latina 1950). Operaio fino a cinquant’anni, ha pubblicato per Mondadori i romanzi Mammut (2011), Canale Mussolini (2010, premio Strega), Il fasciocomunista (2003, premio Napoli), da cui è stato tratto il film Mio fratello è figlio unico, e i racconti di Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni (2006). È autore anche di Palude (Dalai 2011) e Fascio e martello – Viaggio per le città del Duce (Laterza 2008). Collabora a «Limes». Ha moglie, due figli e due nipoti femmine.

 

 

 

 

 

 

Canale Mussolini. Parte prima Condividi

di Antonio Pennacchi (Autore)

Mondadori

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