”L’umanità si interroga da tempo immemore su luce e ombra e sulla loro interconnessione
CARAVAGGIO A NAPOLI:
“CHI CAMMINA SEMPE PE L’OMBRA, OFFENNE ‘A LUCE”
L’invenzione del Seicento
Il ’600 napoletano è una ‘invenzione’ recente. È stato riscoperto e definito meno di un secolo fa dallo storico d’arte Roberto Longhi (1890-1970). Secondo lo studioso, il naturalismo di Caravaggio sarebbe la spina dorsale dell’arte napoletana. Gli studi seicenteschi sul Sud derivano, quasi senza eccezione, dalle sue proposte formulate in una serie di saggi che sono stati pubblicati essenzialmente nel secondo decennio del secolo scorso. (f.d.b.)
Caravaggio a Napoli. L’umanità si interroga da tempo immemore su luce e ombra e sulla loro interconnessione. Questi concetti così strettamente legati sono fonte di grande ispirazione per artisti e pensatori. In questo racconto ho cercato di esplorare il rapporto tra luce e ombra attraverso gli occhi del pittore Caravaggio.
Il titolo è “Tanta, immensa Grazia”.
Caravaggio fece un passo indietro, scrutando l’ampia tela che dominava la parete nord del suo studio di Napoli. La sua ultima commissione, “Le sette opere di misericordia”, stava prendendo forma. Lo skyline cittadino sullo sfondo era pressoché ultimato, mancava solo una striscia di palazzi e cielo nell’angolo in basso. Rimanendo appena lo spazio sufficiente per le tre figure chiave che avrebbero equilibrato il disegno e donato significato all’opera.
Fece quindi un passo avanti di nuovo nell’acre aroma degli oli, intingendo il pennello per abbozzare volumi e ombre. Le tonalità vischiose lo ancoravano fra i ribollenti ricordi che minacciavano d’infrangere le sue invalicabili barriere interiori. Concentrandosi intensamente sui pigmenti, si smarriva nelle tinte consuete di terra d’ombra, ocra e nero fumo: i colori d’ombra e terra che più lo rappresentavano.
Mentre la luce del pomeriggio dalle alte finestre virava al caldo, Caravaggio avvicinò il candeliere. Le fiammelle danzavano, gettando sulla sua creazione emergente un alone incarnadino che pareva infondere vita alle immagini. Le figure dei due uomini prendevano forma, dalle espressioni psicologicamente complesse.
L’opera era una storia dipinta, calata nella Napoli caotica, vitale e confusionaria a cavallo tra Cinquecento e Seicento, che faceva eco a un’umanità sofferente ove miseria e nobiltà, malattia e cura, peccato e perdono, disperazione e speranza coesistevano. Ma nella storia, cielo e terra erano uniti dalla Vergine col Bambino ad affermare che gli atti di bontà in questo mondo sono via privilegiata verso il Paradiso. Un’opera che fors’anche giungeva là dove le parole non possono.
L’intera scena era presieduta dalla Vergine col Bambino, entrambi sorretti dalle possenti ali pennute di due angeli.
Caravaggio pensò ad alta voce:
“Resto ipnotizzato davanti alla sua figura che emerge, la Madonna ammantata di grazia. E il Bimbo Gesù che guarda impavido la sofferente umanità. La loro pelle emana un tepore impossibile, benché di soli olio e tela. Quale grazia elargita, che il Cielo s’inchini tanto umile alla mia persona. Che la Luce spunti radiosa da un nomo d’ombra qual io mi sono. Si offrono, trascendenti eppur reali. Indegno io, sì lo so fin troppo. Eppure Lei ancor sorge. Eppure, Egli ancora chiama”.
Chinandosi con mano ferma, il pennello che aggiungeva dettagli al delicato profilo del piccolo Gesù, una vampata di luce abbagliò la vista di Caravaggio. Gridando, barcollò all’indietro mentre chiazze rosse e viola aleggiavano ancora alla sua visione. A poco a poco l’abbagliante luminosità svanì. Sbattendo le palpebre, distinse un fanciullo riccioluto contornato da un alone nebuloso… emergente dalla stessa tela. Quegli occhi senza tempo riflettevano un’eterna saggezza nel sembiante puerile…era il Bimbo Cristo in persona.
Il Divin Pargolo piegò il capo, studiando il pittore sconcertato. Poi alzò una manina, col palmo proteso in avanti, invitando Caravaggio ad inginocchiarsi. Con il cuore che batteva forte, l’artista cadde in ginocchio dinnanzi alla strana apparizione. Lievi passi sfioravano le assi impolverate mentre il fanciullo si chinava in avanti, alzandosi per sussurrare, col respiro caldo contro l’orecchio di Caravaggio nel cinguettio napoletano, terreno ed eterno al pari delle sue tele:
“Chi cammina sempe pe l’ombra, offenne ‘a luce.”
(Chi persiste nell’oscurità offende la luce).
Le parole risuonarono nell’anima di Caravaggio con intenso significato. Gesù posò una mano leggera come piuma sul suo capo chino: benedizione e consacrazione, pace che si diffondeva in tutto il suo essere, sospendendo ogni sensazione oltre quel tocco benedetto…
Finché la mano si ritrasse delicatamente e Caravaggio riemerse nel consueto studio, coi familiari odori e oggetti sparsi. Con gli occhi appannati fissò il dipinto, cercando quegli occhi oracolari, ma le figure erano semplicemente abbozzate in terra d’ombra e nero, l’angolo stranamente spoglio ove era apparsa l’Incarnazione attimi o ere addietro.
Le ginocchia scricchiolavano sul tavolato grezzo mentre calore montava dietro i suoi occhi, Caravaggio lottava per contenere un’emozione travolgente. Poi il divino Sussurro echeggiò di nuovo nella sua mente, in quei toni napoletani densi, terreni ed eterni al pari delle sue tele… e la sua formidabile soglia cedette. Si accasciò del tutto, il possente corpo scosso da singulti convulsi. Una vita di angoscia repressa e inconsolato dolore eruppe in fiumi di sale bollente. Il diluvio catartico lavava le sue interiori ombre finché non restò inginocchiato vuoto, purificato e di nuovo consacrato a sacro intento.
Con gli occhi arrossati, Caravaggio fissò le mani callose, impregnate di una vita di lavoro e ora, pregava, redente dalla grazia dei cieli. Dita ferme raccolsero tavolozza e pennello mentre una visione fresca fluiva in lui. Soffiava dettagli nell’umile bimbo il cui volto e la cui mano avrebbero completato questo capolavoro riecheggiando quel profondo Sussurro per l’eternità. Per quanto fuggisse nell’ombra e lottasse, non avrebbe mai più offeso quella Luce che l’avrebbe sempre cercato e trovato e carezzato finché ogni tenebra avesse ceduto alla sua magisteriale grazia.
Mentre Caravaggio ripercorreva le scene esistenti coi loro significati simbolici, parole risuonarono nel profondo della sua anima:
“Seppellisci i morti…” Sullo sfondo, due uomini recavano un corpo avvolto in un sudario, il pathos della vita mortale incorniciato da nubi indifferenti.
“Visita i carcerati, nutri gli affamati…” Una donna allattava un prigioniero nella sua cella, fosse la Madonna in persona o allegoria della Carità.
“Accogli gli stranieri…” L’oste accennava a un pellegrino in cerca di riparo.
“Vesti gli ignudi…” San Martino aveva lacerato il proprio mantello da ufficiale per scaldare un mendicante.
“Cura gli infermi…” Il santo s’inginocchiava a confortare lo storpio poverello.
“Disseta…” Sansone, mascella sollevata, si rinfrescava alla sua fonte miracolosa.
Tanta umanità racchiusa in un’unica umile tela.
Tanta, immensa Grazia.