Le materie umanistiche, tanto screditate dalla nostra contemporaneità, hanno perduto il loro posto legittimo nel mondo

E. Hopper, Compartimento C (1938)

C’È ANCORA SPAZIO PER GLI UMANISTI?

punti critici e potenzialità degli studi umanistici in Italia

 

Lo studio della storia, della filosofia, della psicologia o persino delle lingue risulta tutt’oggi a dir poco insufficiente e poco spendibile nel mondo del lavoro. Il cammino degli umanisti è abbastanza amaro e tortuoso, soprattutto quando si realizza che si sarebbe potuto investire lo stesso tempo in discipline che avrebbero dato maggiore soddisfazione nel mondo del lavoro. Ma è realmente così?


Le materie umanistiche, tanto screditate dalla nostra contemporaneità, hanno perduto il loro posto legittimo nel mondo, facendo credere a molti che, siccome non offrono un’occupazione sicura e immediatamente spendibile nella società, allora non hanno alcun valore.

Ma guardando più da vicino, nella società della performance (termine utilizzato in La società della performance di Colamedici e Gancitano) il valore degli studi è strettamente legato al lavoro e alla propria spendibilità lavorativa – in una realtà che non riesce ad assorbire i pochi laureati di cui dispone, sintomo di un’economia che non può permettersi più di educare i suoi cittadini.

Infatti, se si dà maggior spazio ai pochi profili tecnici esistenti, disincentivando la formazione universitaria – che non rispecchia le esigenze del mercato –, il nostro paese continuerà a soffrire dello skill mismatch, un’espressione diventata popolare, che nasconderebbe una dinamica più complessa di quel che si potrebbe credere. Infatti, essa rispecchia una logica ben precisa: i laureati, in particolar modo gli umanisti, rallenterebbero le performance aziendali piuttosto che dare un contributo significativo alle stesse.

Inoltre, quel che mancherebbe al sistema italiano sarebbe una forma di orientamento post-laurea solido, in grado di direzionare con successo i neolaureati nel grande marasma del mercato del lavoro e permettere loro di coltivare la propria professionalità.

E qui vorrei riportare le parole di Alessandro Barbero in un’intervista in cui parla della riforma della Buona Scuola:

«Mentre prima, finché a scuola ci andavano i figli dei padroni, tutti sapevano che andare a scuola era importantissimo per fare di te una persona più forte con più possibilità, quando hanno incominciato ad andarci anche i figli degli operai, si è incominciato a dire “ma appunto, in fondo in fondo siamo sicuri che poi tutto questo serva?” E adesso siamo arrivati al punto che questa grande conquista per cui si era detto “tutti devono avere davanti molti anni durante i quali studiano senza chiedersi a cosa mi servirà questo specificamente” non va più bene, si è cominciato a pensare che per mandare la gente a scuola la cosa debba essere poi spendibile nel mondo del lavoro e si è arrivati adesso all’assurdità che si è tornati a dire ai ragazzi come ai loro nonni analfabeti: anche se avete soltanto sedici o diciassette o diciott’anni, però un po’ di lavoro lo dovete fare. Che è questo lusso di passare quegli anni solo a studiare a scuola?» 

Mi fermerei a riflettere sull’ultima considerazione di Barbero: studiare tanti anni è diventato un lusso che non ci possiamo più permettere? Infatti, la percezione diffusa è quella che la cultura stia diventando sempre di più un privilegio per pochi.

A tal proposito, si vorrebbe lanciare una provocazione: è giusto investire il proprio tempo nell’approfondimento di Kant ed Hegel se il mondo nel frattempo cerca ingegneri, economisti e informatici?

È giusto che si dia sfogo alle proprie passioni e naturali inclinazioni quando queste – almeno apparentemente – non trovano un’immediata applicazione nel mondo del lavoro? Si potrebbe semplicemente approfondire certi argomenti in maniera autonoma, senza passare necessariamente per le porte dell’Università. Studiare Kant ed Hegel non mi aiuterebbe ad eseguire meglio un processo meccanico, redigere un contratto o a rispondere più velocemente ad un’e-mail (magari aiuterebbe ad evitare errori ortografici, ma neanche questo è scontato). Eppure, quegli studi potrebbero aiutarmi a guardare le cose sotto un profilo più critico, curioso e interrogativo.

Certi studi e discipline sono in grado di creare un profilo più complesso e dinamico: l’umanista è, infatti, in grado di osservare certe realtà sotto angolature diverse, contribuendo a ricomporre, ridimensionare e ridefinire ciò che fino ad allora era dato per scontato, chiaro, lineare o “intoccabile”.  Tutto questo dovrebbe certamente essere affiancato da abilità e competenze tecniche, ma senza svalutare le prime a favore delle seconde.

Eppure, tutto questo non soddisfa: sembra si debba pensare l’Università come un luogo che cresce professionisti (che è diverso dall’accusare la formazione universitaria italiana di teoreticismo).

Anticamente le Università contribuivano allo sviluppo delle scienze e delle arti, erano luoghi nei quali circolava la cultura e dove si contribuiva a riscrivere il diritto romano e a fare ricerca.  Con la democratizzazione e l’avvento della società di massa, le Università, anche se lentamente e gradualmente, sono diventate un posto comune per tutti, capaci di ospitare non solo pochi privilegiati ma chiunque avesse avuto voglia di approfondire determinate discipline.

La società non è più immobile, statica, avvolta su se stessa. Nasce la scuola e l’Università per tutti e di tutti, che non mira a selezionare i pochi migliori, ma che consente alla maggior parte di sviluppare le proprie potenzialità. Ed è proprio quello che l’Università di oggi in qualche modo sta contribuendo a creare, più o meno direttamente, attraverso l’erogazione di borse di studio e contributi economici per gli studenti con redditi famigliari bassi.

Perché questo non ci sta bene? Perché la scuola non seleziona più come in passato e, se tutti possono raggiungere più facilmente un grado di istruzione, allora quel grado d’istruzione ha meno valore di prima.

In questo quadro gli umanisti sarebbero solo dei perdigiorno, che credono di poter spendere del tempo a pensare a chissà quale problema teorico-filosofico o a discutere sui concetti di buono e giusto, bello e utile.

Proporrei a questo proposito di fare un piccolo esperimento mentale: ci troviamo nel 2100, le discipline umanistiche sono studiate sempre meno, se non da chi decide di insegnarle a scuola. Il test selettivo per diventare insegnati è severissimo, accessibile a pochi.

Ed ecco che si assiste ad un’inversione radicale: tutti scelgono percorsi utili quali l’ingegneria, l’economia, l’informatica, l’intelligenza artificiale – disciplina ormai nata dalla psicologia più scientifica e l’informatica più umanistica. Tutto è volto a dare al mercato quel che vuole il mercato, il lavoro solo a chi si impegna nelle discipline che “servono”. È la macchina perfetta: ad ognuno è dato quello per il quale ha studiato e ognuno studia quello che realmente serve al mercato. Tutti sono indirizzati perfettamente a fare quel che può garantirgli un posto nella società, ormai perfetta, infrangibile, infinitamente riproducibile. Non esistono più figure che non riescono ad essere posizionate nel mercato del lavoro.

L’Università non è più un luogo in cui circola la cultura, ma un percorso che ha il solo fine di far nascere professionisti, compresi gli insegnanti, gli unici che possono permettersi di studiare la storia, la filosofia, la psicologia.

Ma dov’è in tutto questo l’elemento divergente, il ribaltamento di un sistema fin troppo avviluppato su se stesso? Dove nascerebbe, in questo mondo, lo scontro tra contrari che potrebbe generare il potenzialmente nuovo?

Se ognuno di noi potesse elaborare mentalmente quel che in futuro sarebbe utile, probabilmente non sceglierebbe neanche più una strada piuttosto che un’altra, non creerebbe qualcosa di assolutamente “stridente” con quel che la realtà vuole. Non divergeremmo, non cercheremmo più, non vagheremmo più alla ricerca del giusto match tra noi e il mondo. Non potremmo neanche più permetterci di unire quel che apparentemente sembrerebbe antitetico: la scienza e la filosofia, la psicologia e l’informatica, la letteratura e l’economia, le lingue e la robotica.

Non essendo mai fuori posto, se non in periodi brevi sufficienti a ristabilire l’ordine nella grande macchina perfetta dello studio-lavoro, non potremmo mai raggiungere qualcosa di assolutamente inedito.

Se dal nulla non nasce nulla, neanche dal perfetto nascerebbe il perfetto. Infatti, è dalla radicale imperfezione che può crearsi la tensione verso quel che non c’è ancora.

Quel che mancherebbe, effettivamente, sarebbe la possibilità economica di realizzare tutto quello di cui si sta parlando; non possiamo più permetterci di far passare tanto tempo i ragazzi nelle aule universitarie ad approfondire, pensare, esplorare, meravigliarsi perché, al di là di quella meraviglia, c’è il grigiore di chi si vuole arricchirsi subito con risorse immediatamente impiegabili, senza far passare il neolaureato per la porta della formazione specialistica che gli permetta di unire gli strumenti della cultura critica con quelli della tecnica.

Vero, non è necessario un laureato in filosofia, storia o psicologia per dire, pensare o approfondire certe questioni: basterebbe una persona curiosa che nel tempo libero si diletti a sfogliare certi testi e sia spinto dall’impulso di scrivere certi pensieri, senza passare necessariamente dalle porte dell’istituzione universitaria.

Ma se non passassimo per quella porta istituzionale, non potremmo dedicare un arco di tempo abbastanza lungo – e finanziato dalle Università stesse – per toccare certi temi che possono anche solo di poco contribuire allo sviluppo intellettuale di una persona che, a sua volta, può contribuire allo sviluppo intellettuale di un’intera comunità, attraverso idee e pensieri che escano dal già tracciato e scritto.

Servono laureati in filosofia o lettere per far notare che siccome certe cose sono andate sempre in un certo modo, non necessariamente debbano continuare ad andare in quel modo lì?

No, essere laureati è una condizione non sufficiente per elaborare certi pensieri, ma è sicuramente una possibilità in più che l’Università stessa è in grado di darci per poterlo realizzare.

Infatti, ognuno di noi nella propria vita decide di porre la sua attenzione su qualcosa di diverso rispetto agli altri: è proprio il tempo speso su un oggetto a rendere unico il proprio percorso.

E, se è vero che siamo un po’ tutti filosofi e psicologi, allora non sarebbe più necessario distinguere un runner professionista da un corridore della domenica: entrambi sanno correre, certo, ma non alla stessa velocità.

 

Francesca Sciarretta

 

 

 

 

 

Fonte: Gazzetta Filosofica del 28 luglio 2022

 

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