Hollywood, specchio del potere americano, da megafono della Guerra Fredda a pedina strategica nell’era Trump.

C’ERA UNA VOLTA HOLLYWOOD

Il Simplicissimus

Per decenni Hollywood è stata il riflesso patinato dell’identità americana, megafono del potere durante la Guerra Fredda e avamposto simbolico del soft power globale. Ma oggi, l’impero dei sogni mostra crepe evidenti. Mentre la supremazia culturale americana vacilla al di fuori dell’Occidente, le produzioni migrano altrove e persino un presidente come Trump sceglie di sostenere l’industria hollywoodiana non per passione, ma per strategia. Questo saggio esplora il legame storico e controverso tra le amministrazioni americane e l’industria cinematografica, svelando quanto la fabbrica dei sogni sia sempre stata anche una macchina di propaganda — e come, forse, stia ora smettendo di funzionare. (f.d.b.)


Le amministrazioni americane hanno sempre avuto parecchio a che fare con Hollywood che per molti anni è stata la manifestazione più tangibile della american way of life, il megafono propagandistico di Washington durante la guerra fredda e successivamente l’arma impropria del potere planetario. In effetti le varie agenzie governative hanno costantemente sorvegliato le produzioni e garantito che non vi fossero “eresie” nella narrazione. Ma oggi la situazione è cambiata a tal punto che Trump si è deciso a sovvenzionare la produzione: certo è una mossa per avere più potere contrattuale in un ambito dove trova gli ostacoli maggiori per il suo Maga, ma è anche il riconoscimento della perdita di centralità del cinema americano al di fuori dell’Occidente con la ricaduta di problemi economici e di struttura, tanto che oggi è molto più economico produrre film o serie altrove che non a Los Angeles e dintorni. In ogni caso, per parecchi decenni dopo la Seconda guerra mondiale, Hollywood ha avuto solo concorrenti minori, non tanto sul piano della qualità, quanto su quello della diffusione: solo il cinema di alcuni Paesi europei che tuttavia attraeva un modesto pubblico di cinefili in tutto il Nord America e rari estimatori altrove. Solo occasionalmente penetravano produzioni esterne, qualche film giapponese o cinese e per il resto sporadici lungometraggi nati nell’ambito di circoli filoamericani in Paesi, via via considerati ostili e spesso interamente finanziati a Langley.

Hengdian World Studio (Hollywood cinese)

Da tempo però non è più così e Hollywood non è più in grado di controllare la narrazione planetaria: attori, sceneggiatori e registi dell’epoca d’oro sono ormai anziani, le produzioni diventano sempre più o ideologiche o di una banalità sconcertante, i dialoghi sono stati soffocati dagli effetti speciali, le storie sono diventate ripetitive fino alla nausea, l’uso della macchina da presa codificato a tal punto da suscitare un irresistibile effetto noia e anche il pubblico si è frammentato in maniera impressionante, spingendo verso la riproposizione continua di ciò che ha avuto più successo. Nel frattempo sono nate cinematografie diverse e più attrattive per gli spettatori al di fuori del mondo occidentale strettamente inteso. Non è solo Bollywood, ma anche gli studi Hengdian in Cina, i più grandi del mondo, o quelli di Manila per non parlare della rinascita russa, tanto per fare un esempio. Persino le produzioni africane stanno crescendo, hanno già una Nollywood in Nigeria, cui si contrappongono quella del Ghana, del Senegal o del Sudafrica. Insomma a questa immensa massa di spettatori non importa un fico secco di Hollywood divenuta ormai scontata; non seguono la notte degli Oscar; hanno divi locali e non attendono più Spencer Tracy e Katharine Hepburn; non palpitano per le avventure di Indiana Jones e men che meno per Top Gun che singolarmente è stato scelto dalla biblioteca del Congresso in quanto “culturalmente, storicamente o esteticamente significativo”, pur essendo un polpettone con niente di notevole in nessuno di questi ambiti. Oggi abbiamo la possibilità di sperimentare diversi tipi di narrazione, da quella orientale dove gli eventi fanno da sfondo alle emozioni a quella africana con il continuo rimando a qualcosa di ancestrale così che anche un’indefinita nostalgia diventa lotta politica o azione comica.

Benigni un regista al soldo del Politicamente Corretto. 

Probabilmente non si trova più un regista che per fregiarsi di un Oscar faccia liberare Auschwitz dagli americani e il cinema americano deve constatare che non è più il tempo in cui gli Usa potevano chiamare World series un campionato nazionale. È vero che siamo sepolti sotto una nevicata continua di banalità generata in serie dai nuovi padroni dell’intrattenimento come Netflix e compagnia, ma anche questo è un rischio perché molte cinematografie nell’ambito del Washington consensus possono fare il verso a Hollywood sfornando serie e film imitativi e di mercato che tuttavia risultato spesso più interessanti a causa di subliminali differenze culturali che rendono questi prodotti meno standardizzati. Il fatto che Trump giunga in soccorso con le sue sovvenzioni e con i dazi per le produzioni estere, dimostra che non è poi così semplice far ritornare grande l’America.

Redazione

 

 

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