Dopo oltre quarant’anni, dobbiamo dire con tristezza “cercasi coraggio, disperatamente”

CERCASI CORAGGIO, DISPERATAMENTE

In una mirabile riflessione sulla drammaticità dei tempi che viviamo, Alessandro Gnocchi ha rilevato il declino progressivo del coraggio nell’Occidente terminale. Fu Alexsandr Solzhenitsyn a dare l’allarme, inascoltato, nel famoso discorso di Harvard del 1978, allorché attaccò le tronfie oligarchie culturali del sedicente mondo libero. “Il declino del coraggio è la caratteristica più sorprendente che un osservatore riscontra in Occidente. (…) [Esso] è particolarmente evidente tra le élite intellettuali dominanti, generando l’impressione di una perdita di coraggio dell’intera società. Vi sono ancora molte persone coraggiose, ma non hanno alcuna determinante influenza sulla vita pubblica. Funzionari politici e classi intellettuali manifestano questo declino, che si concretizza in passività e dubbi nelle loro azioni e nelle loro dichiarazioni. E ancor di più nel loro egoistico considerare razionalmente come realistico, ragionevole, intellettualmente e persino moralmente giustificato il poter basare le politiche dello Stato sul servilismo e sulla vigliaccheria”. 

Dopo oltre quarant’anni, dobbiamo dire con tristezza “cercasi coraggio, disperatamente”. La viltà, l’opportunismo, la mancanza di spina dorsale, il conformismo, la passività codarda si sono impadroniti della nostra società, diventando tratto dominante della sua agonia. Dal febbraio 2020, anno I d.C. (dopo il Covid) il coraggio sembra addirittura espulso con ignominia dall’orizzonte sempre più angusto della terra del tramonto. Occorre dunque spendere qualche parola sull’argomento, a futura memoria. 

Innanzitutto, una modesta notazione personale; verso gli otto o nove anni di età, un mattino d’inverno mi svegliò un’abbondante nevicata, fenomeno raro in una città di mare. Vedevo la neve per la prima volta e non ne volevo sapere di andare a scuola. La mamma, che aveva provveduto l’abbigliamento adatto e le scarpe pesanti, fu costretta a svegliare papà, reduce da una notte di lavoro da tipografo impaginatore in un giornale. Assonnato, il babbo – alpino reduce dall’inferno bianco della guerra di Russia – disse poche, ma decisive parole. Tutti dobbiamo essere al nostro posto e fare il nostro dovere, con il sole o con il maltempo: il tuo posto è a scuola. Roba da Telefono Azzurro, ma io mi convinsi e uscii, un po’ impaurito, ma in preda a una consapevolezza nuova. 

Mi persuasi di avere compiuto un grande atto di coraggio, raggiungendo a piedi la scuola. La sorpresa fu che quasi tutti eravamo presenti: altri tempi. Più di recente, da responsabile di un ufficio pubblico, dovetti prendere atto, in un’analoga circostanza, dell’assenza di un terzo dei colleghi. Il dato più triste fu che la percentuale di assenti era inversamente proporzionale all’età anagrafica. Decadenza generazionale perfino del modesto coraggio di fare ciò che va fatto, essere presenti sul posto di lavoro. Abbiamo disimparato il mestiere di vivere. Per Cesare Pavese non ci si libera di qualcosa evitandola, ma soltanto attraversandola. 

Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, scrisse Bertolt Brecht, drammaturgo comunista, nella Vita di Galileo. Il pessimo maestro aveva ragione, ma per motivi opposti a quelli che mossero la sua affermazione. Davvero disgraziata è l’epoca e la civiltà in cui diventa eroica la vita quotidiana, i suoi doveri, le sue difficoltà, e nella quale la paura, non il coraggio, diventa virtù. Un’altra stazione della Via Crucis del mondo a rovescio.  Secondo un poeta inglese del XIX secolo, tempo in cui il coraggio godeva ancora di ottima reputazione, quasi tutti gli uomini sono dei vigliacchi e non osano agire secondo le loro convinzioni (quando le hanno… N.d.R.). Eppure, tutto ciò che ha mandato avanti il mondo è dovuto a chi ebbe il coraggio delle sue azioni. 

Il coraggio ha abbandonato anche gli uomini di fede, o meglio di Chiesa (i due concetti sono assai divergenti). Porte chiuse, disinfettanti al posto dell’acqua santa, predicozzi sanitariamente corretti, dai quali il coraggio – anche quello di pronunciare il nome di Dio – è escluso e bollato come follia, imprudenza, attentato contro la vita. Un parroco di Casale Monferrato ha affisso il seguente avviso: “chi non è vaccinato costituisce grave pericolo. Non è gradito in questa chiesa”. Chissà se è disposto a confessare chi è sprovvisto di certificato vaccinale o a impartire l’estrema unzione ai morenti. Vi perseguiteranno nel mio nome, avvertì il Fondatore, ma il prete piemontese preferisce di no e rifugge la testimonianza di Gesù almeno quanto ha terrore del virus. Chissà se accoglierebbe, nella sua igienica canonica, Frà Cristoforo o il cardinale Borromeo, impegnati senza posa tra gli appestati di Milano nei Promessi Sposi.

Don Abbondio

Erano pazzi? No, semplicemente esercitavano il loro ministero, ovvero erano al loro posto, il primo, fondamentale coraggio quotidiano. Certo, avere coraggio in un mondo senza Dio è più difficile, ma che dire, allora, del coraggio dei genitori che difendono i figli anche facendo loro scudo con il corpo, di chi ogni giorno affronta per lavoro rischi e pericoli? La verità è che il coraggio, contrariamente a quanto pensava un codardo universale, Don Abbondio, chi non ce l’ha se lo deve dare, sotto pena di non vivere o di trasformarsi in un ratto. 

Esiste il coraggio fisico, la capacità di affrontare il rischio della salute o della vita, e quello morale, dire la propria in ogni occasione, fare la cosa giusta, pagare le conseguenze dei propri gesti. Coraggio è soprattutto superare la paura, trascenderla in nome di qualcosa: può essere l’onore, la reputazione, tramontati beni immateriali che non riempiono o stomaco, (unico obiettivo del vigliacco globale), ma solo l’anima. Può essere l’adesione a un principio, a una causa, un atto d’amore. Sempre, il coraggio è altruismo: si è coraggiosi mettendo in conto di rimetterci, anteponendo l’interesse di qualcun altro al proprio, ma si agisce comunque, pensando a una persona amata, a un valore superiore, per rispondere a un dovere, per obbedire a un imperativo morale. 

Coraggio è fare ciò che è più scomodo e meno facile. Nella moralità del mercante, il coraggio non è previsto, poiché vi è sproporzione tra costi e benefici. Non esiste una partita doppia del coraggio, che è sempre nella colonna del dare. Il buon cittadino globale, riflessivo, tollerante e pensoso non può essere coraggioso. Preferisce il silenzio, la viltà, che chiama pomposamente tolleranza. Con la coscienza a posto, scuote la testa e condanna qualsiasi atto di coraggio. Se qualcuno ruba, rapina, fa violenza davanti ai suoi occhi, non interviene, si volta dall’altra parte, non prima di aver deprecato, ma a bassa voce, per non farsi sentire. Il massimo del coraggio è per lui avvertire la forza pubblica, la legge, meglio se in forma anonima e stando a debita distanza. 

Se qualcuno reagisce, ha pronta la frase fatta, il mantra del vigliacco che crede nelle “regole” e nella “legalità”: non siamo mica nel Far West. Lo indigna la violenza difensiva dei buoni – il coraggio figlio della disperazione – mai la soperchieria, l’arroganza dei malvagi e quella del potere. Il cittadino medio impaurito, tremebondo, scava la sua trincea nella tana. La persona coraggiosa esce all’aperto e accetta di esporsi, diventare bersaglio, difendere ciò che ritiene giusto. Il coraggioso sa opporsi, il vile si limita al borbottio sommesso. 

Ci ha molto colpito, in occasione delle proteste contro il passaporto verde governativo, leggere i messaggi di alcuni leoni da tastiera (in verità gattini da divano) che, per decidere se partecipare alle manifestazioni, chiedevano se fossero stati ottenuti i permessi di polizia. Ridicolo citare i diritti della costituzione – pezzo di carta brandito in ogni occasione, ma mai difeso con vero coraggio – ma ci piace ricordare che nessun cambiamento (non diciamo rivoluzione) è mai avvenuto con il permesso scritto di lorsignori. Coraggio è essere presenti, marcare il territorio, testimoniare anche con il corpo – di cui occorre rivendicare risolutamente la proprietà – la nostra condizione di persone libere. 

La vigliaccheria è contagiosa, lo verifichiamo mille volte al giorno, ma lo è anche il coraggio; esso, inoltre, è la virtù dei giovani, poiché alberga generosità ed entusiasmo; è un inno alla vita perfino quando la mette a rischio. Intristisce l’eccesso di protezione verso bambini e ragazzi: nessuna stupida temerità, nessun’adrenalina a ogni costo, attitudine individualista e sottilmente nichilista, ma il giovane ha la necessità, fisica e spirituale, di mettersi alla prova, tentare strade nuove, andare oltre, togliersi, metaforicamente e talvolta materialmente la maglia della salute diventata camicia di forza. Anche di ardimento ha bisogno l’uomo. 

Non sappiamo se chi ha fede ha più coraggio, ma certo la fede è una componente del coraggio. Un popolo di pavidi conviene solo al potere. Negli anni Settanta – la tempesta del Sessantotto dispiegava la sua devastazione – ci fu una canzone che probabilmente chi scrive è l’unico a ricordare. Era la sigla di una serie televisiva e vi si decantavano le non-gesta di Er Meno, un tizio qualunque che, programmaticamente, evitava i rischi, le cause, gli impegni. Dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, c’è sempre stato un Meno che a casa ritornò, diceva. Penosa parafrasi del Cinque Maggio di Alessandro Manzoni, lirica in morte di Napoleone, uno che coraggio ne ebbe e per questo – nel bene e nel male – cambiò per sempre l’Europa.  

Er Meno è il moderno Tersite, il greco brutto e pavido che voleva tornare a casa dalla guerra di Troia. Se gli avessero dato retta, non avremmo l’Iliade, l’Odissea e gran parte della nostra civiltà, ma ora è un modello positivo. Non è strano che il presente sia buio e il futuro impossibile, se gli esempi proposti sono i paurosi, i conformisti, i fuggiaschi, gli impiegatucci in mezze maniche. Ettore sapeva di soccombere contro Achille, il semidio invincibile, ma non scappò né si arrese. Si vergognava del giudizio dei Troiani (credeva cioè nell’onore, sentimento comunitario come il coraggio) e intendeva essere esempio per il figlio. Follie di uno scriteriato, meglio sopravvivere, nascondersi, restare a casa, come voleva il bambino il giorno della nevicata! 

Nel 1848, i patrioti cantavano Addio, mia bella addio: “se non partissi anch’io, sarebbe una viltà”. Altri pazzi, che misero in palio la vita, l’unica, la sola, l’unico valore supremo a cui tutto deve cedere, per una bandiera. Un bieco reazionario anche Dante, che detestava i pusillanimi, neanche degni dell’Inferno, ma soltanto di vagare nell’Aldilà inseguendo uno straccio, la folla senza volto di chi non sceglie, “l’anime triste di coloro che visser sanza infamia e sanza lodo”. Oggi sappiamo che l’anima non esiste e possiamo essere ignavi in tutta tranquillità e con l’applauso dei superiori…  

Il ritornello, il leit-motiv dei paurosi di tutte le epoche è “chi te lo fa fare?”. Vada avanti qualcun altro, se proprio vuole, poi, a cose fatte, si vedrà. Etica del bilancino: utile, tornaconto, la prudenza come virtù suprema. Basta anche con l’antico “amor fati”, rispetto del destino, tutt’altro che fatalismo, ma azioni di cui si accettano le conseguenze. 

Un libro recente, del francese François Bousquet, si intitola semplicemente Coraggio! Datemi una leva e vi solleverò il mondo: questa leva è dentro di noi e si chiama coraggio; ecco l’incipit. Senza il coraggio, nulla di grande ha mai visto il giorno: forse per questo incombe la notte del mondo di cui parlava Heidegger. Il coraggio, non la paura o la cautela, è la nostra patria. Per Ernst Jünger, è il vento che ci conduce alla riva più lontane. Ma l’homunculus post moderno vuole viaggiare verso qualche approdo, o si accontenta dell’immobilità, del tetto sicuro, del presente sanificato e denaturato? 

Non necessariamente il coraggio è ribelle, ma sempre è presente nella bisaccia di chi dissente, di chi pronuncia apertamente dei sì e dei no. L’etica dei nostri padri, il filo di congiunzione della civiltà cui apparteniamo fu la fede e fu il coraggio. Senza, nessun avvenire, solo il deserto. Esaurite le residue scorte di coraggio – morale, spirituale, fisico – la nostra sorte è segnata in anticipo, sterile come la neutralità disarmata e impaurita di generazioni di Don Abbondio. Cercasi coraggio, disperatamente, o qualcuno scriverà così il nostro ignominioso epitaffio: “morto di fifa, da qualche parte tra il XX e il XXI secolo”.  

Roberto Pecchioli

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