Una storia divertente che si inserisce a pieno titolo nella tradizione della commedia italiana più trascinante e intelligente. Un romanzo che tocca in profondità temi importanti del nostro tempo.

Con questo romanzo, Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif) tocca con una prosa brillante e comica il tema della fede cattolica, del quale possiamo evincere due visioni opposte. La prima, quella di Arturo (protagonista della vicenda), è legata ad una religiosità che gli è stata imposta due volte (prima dalla famiglia, che lo ha fatto battezzare e gli ha fatto ricevere i sacramenti della comunione e della cresima, poi dalla partner) senza che avesse alcuna possibilità di scegliere il contrario.

La seconda visione, invece, appartenente a Flora, è completamente opposta in quanto incentrata sulla fede incondizionata a Dio ed a ciò che viene affermato nelle sacre scritture.
Non si può dire che la decisione del protagonista di trasformarsi in un fervente cattolico rifletta le vere intenzioni di quest’ultimo: si tratta, infatti, di una mera provocazione, più adatta a suscitare la risata del lettore che a farlo riflettere sull’importanza della fede. Molto celebre, a tal proposito, è la frase di Arturo – «Lei mi vuole cattolico praticante. Bene, allora praticherò ogni santo giorno la parola del Signore e seguirò gli insegnamenti dei cinque evangelisti! Ed evidenziai le prime tre settimane. Solo dopo mi ricordai che gli evangelisti erano quattro.» -, emblematica della totale inconsapevolezza del protagonista su che rapporto instaurare con Dio e con il clero. Questa decisione, però, è un passo a dir poco fondamentale verso l’acquisizione di consapevolezza: applicando alla lettera quanto stabilito dai comandamenti, infatti, Arturo scoprirà un mondo pieno di ipocrisia e superficialità, che coinvolge tutti gli ambiti della sua vita (lavoro, amicizie, ecc..); una scoperta, questa, che ha lo scopo di far riflettere il lettore sul vero significato delle parole uguaglianza, verità e solidarietà e che va a colpire tutte le persone che considerano la religione e la preghiera solamente un passatempo per apparire migliori degli altri, sputando sui più deboli e dimostrando di non dare alcun significato alla fede religiosa.
Molto profonda e ricca di significato, la frase pronunciata dal protagonista ormai consapevole dell’ipocrisia del mondo in cui vive e della difficoltà umana nell’amare il prossimo incondizionatamente: «All’improvviso ebbi tutto chiaro. Stavo parlando con persone che facevano i conti con la propria fede da una vita e le avevano dato mille significati, ma nessuno la concepiva così come io avevo sempre pensato fosse da intendere, motivo per cui mi aveva sempre atterrito e allontanato. Perché essere cattolico è difficilissimo. Amare il prossimo senza volere nulla in cambio è difficilissimo. Perché noi, in fondo, vogliamo che i nostri gesti buoni abbiano una ricompensa.»

La trama del romanzo.

Il protagonista della vicenda è Arturo, agente immobiliare single di 35 anni originario di Palermo. Ha poche passioni che condivide con gli amici di sempre. La sua vita è scandita fra lavoro, allenamenti di calcetto e soprattutto visite alle migliori pasticcerie del capoluogo siciliano, delle quali apprezza tutte le dolci prelibatezze a base di ricotta di capra. Single e poco avvezzo alla vita di coppia, si dimostra sempre pronto ad innamorarsi. Un bel giorno, Arturo fa un incontro destinato a cambiargli la vita per sempre. Lei si chiama Flora, ed è una ragazza bella, brillante e, udite udite, titolare di una pasticceria che, per Arturo il cibo, è la cosa più importante e irrinunciabile: famoso per la sua pignoleria gastronomica, gli amici spesso si fanno il segno della croce quando al ristorante è il suo turno di ordinare. Insomma, l’impresa di trovare la donna ideale per lui sembra compiuta. Ma. (eh, c’è sempre un “ma”), Flora possiede un piccolo difetto, del quale Arturo inizialmente non aveva tenuto conto: è una fervente cattolica, che ogni domenica assiste alle celebrazioni liturgiche con gran empatia e che desidera tanto condividere questa sua fede con il proprio compagno. Lei sulla religione ha la stessa pignoleria di Arturo sui dolci. Ciò nonostante, Lei si innamora e per un periodo felice i due stanno insieme, senza che lei si accorga della sua indifferenza religiosa né, tanto meno, senza che Arturo la confessi… Arturo, però, col passare del tempo, non sembra affatto convinto di accettare la fervente religiosità della partner: d’altronde, lui è un cattolico medio, di quelli che hanno ricevuto comunione e cresima solamente perché gli era stato imposto dai genitori senza alcuna possibilità di scelta. In altre parole, Arturo è una sorta di miscredente, che smozzica le preghiere sia perché non se le ricorda, sia perché le considera una litania imparata a memoria in tenera età (quando andava all’oratorio senza provare dentro di sè alcuna fede in Dio, come succede a tanti bambini italiani del giorno d’oggi) e ormai dimenticata in età adulta. Per far finta di condividere questa fede con Flora, Arturo accetta, seppur malvolentieri, di recarsi a messa tutti i sabati pomeriggio e finge di interessarsi alla preghiera ed alle sacre scritture. Questo precario equilibrio, fatto di verità non dette e risposte liturgiche mezzo inventate e mezzo bofonchiate, non può durare. La delusione di Flora, col passare del tempo, si fa sempre più evidente. E proprio il fatto di aver deluso la sua partner spingerà Arturo a prendere una delle decisioni più importanti della sua vita: trasformarsi per tre settimane in un perfetto cattolico, che applica alla lettera i dogmi della Chiesa ed il catechismo. Una conversione, questa, che avrà conseguenze davvero imprevedibili nella vita del protagonista, a partire dal comandamento “non dire falsa testimonianza” (che durante il tentativo di vendere una casa da tempo inutilizzata lo costringerà a rivelare agli acquirenti i possibili difetti della stessa) fino all’applicazione del comandamento “ama il tuo prossimo come te stesso”. Con il suo percorso di conversione alla religione cattolica, Arturo avrà l’occasione di mettere in discussione la fede all’acqua di rose, scoprendo l’ipocrisia e la superficialità del mondo in cui vive.

Come inizia.

Prologo

   Il mio primo serio, intenso e vero colloquio con Dio avvenne quando ero ancora bambino, il 5 luglio 1982. Al 43° minuto del secondo tempo della partita Italia-Brasile dei Mondiali di calcio in Spagna. Al Brasile bastava anche un pareggio per andare in semifinale, l’Italia doveva vincere.

   Sembrava un’impresa impossibile, perché la squadra sudamericana schierava alcuni tra i migliori giocatori che il Brasile abbia mai avuto: Cerezo, Falcão, Sócrates, Zico. Mentre l’Italia era considerata la Cenerentola dei Mondiali e nessuno avrebbe scommesso sulla sua vittoria. Nonostante questo, qualche tifoso brasiliano piazzò delle gallinelle dietro la porta italiana, forse per un rito vudù. Quella partita, alla fine, cambiò la vita ad almeno due persone. A Paolo Rossi e a me. Lui, dopo lo scandalo del calcio scommesse, fu definitivamente riabilitato, e io ottenni un collegamento diretto con Nostro Signore. Ma ecco i fatti più salienti della partita.

   Al 5° minuto del primo tempo, Antonio Cabrini lanciava un traversone in aerea per Paolo Rossi, che di testa la metteva dentro. Italia 1-Brasile 0. Io e mio cugino, fiorentino ma di vacanze estive palermitane, saltammo in aria e ci abbracciammo come se avessimo segnato noi. Sette minuti dopo Sócrates pareggiava con un tiro che passava tra il nostro portiere, il grandissimo Dino Zoff, e il palo sinistro. Fu così secco, il tiro, che la palla alzò della polvere di vernice, appena superata la striscia della linea di porta. Italia 1-Brasile 1. Ufficialmente eravamo fuori. Io, che avevo appena scoperto la gioia dei Mondiali, mi sedetti sul divano e, solenne, dissi a mio cugino: “È la vita! Con una mano dà e con l’altra toglie”. Ma al 25° minuto, ancora grazie a Paolo Rossi, la vita ridava. Rubando un passaggio corto di Cerezo ai compagni di squadra, in pieno stile suo, segnò il secondo gol dell’Italia: Italia 2-Brasile 1. Eravamo in semifinale. Il Brasile era fuori. Fine primo tempo.

   Visto che la vita dà e la vita toglie, durante l’intervallo mi chiesi come potessi influenzare io la vita. Fu in quel momento che compresi come la preghiera fosse l’unica arma a nostra disposizione per riuscirci… il problema era che non conoscevo che il Padre nostro e l’Ave Maria. Nel tempo infatti avevo brevettato un atteggiamento ben preciso da assumere davanti a un prete, o suora, che discorreva di cose religiose. Partiva al terzo minuto di parlato ininterrotto, litanie comprese: il mio capo prendeva a dondolare ritmicamente dall’alto verso il basso, simulando un atteggiamento ragionato, profondo e ponderato. In realtà pensavo a cose del tipo: “Ma oggi pomeriggio gioco con il Super Santos oppure ci facciamo una partita a Subbuteo?”.

   Il risultato di questa tecnica sopraffina, però, fu che nel primo momento di vero bisogno non ero in grado di chiedere aiuto a Dio se non con le preghiere più scontate.

   Cominciò il secondo tempo. Al 10°, Cerezo si lanciò verso la porta italiana, ma venne bloccato da una strepitosa uscita di Zoff al limite dell’area. Qualche minuto dopo, Dino ci salvava anche da un insidioso colpo di tacco di Serginho davanti alla porta. Ma al 23° minuto del secondo tempo la vita tornò a togliere. Paulo Roberto Falcão si liberò con una finta di tutta la difesa italiana e con il sinistro, complice una lieve deviazione di Beppe Bergomi, segnò il secondo gol. Italia 2-Brasile 2. I sudamericani tornavano in semifinale e noi italiani tornavamo fuori dai giochi. Io cominciai a sospettare che Dio non volesse bene ai cattolici italiani. Nonostante le mie preghiere, il Brasile aveva pareggiato. Lo trovai religiosamente ingiusto. Poi, però, mi resi conto che dall’altra parte nel mondo, in qualche città del Brasile, doveva esserci un bambino che come me pregava per la vittoria, e forse meglio di me. Anzi, sicuramente meglio di me, visto il risultato. Mi sforzai di ricordare le preghiere che infinite volte avevo ascoltato dalle suore, sperando che magari il mio inconscio le avesse registrate. A volte, scoprii, basta chiedere: Angelo di Dio, Eterno riposo, Salve Regina, Benedictus, Preghiera dell’incenso, Anima di Cristo, Santo Rosario, Te Deum, Addio all’altare, Atto di fede, Atto di speranza, Atto di dolore, A tto di carità, e per finire le Beatitudini che non sapevo se potevano essere catalogate come preghiere, ma nel dubbio le misi dentro comunque.

   Con il tipico atteggiamento di superiorità del bambino occidentale, pensai che il bambino brasiliano non poteva conoscere tutte quelle preghiere. E fu così che al 74° minuto del secondo tempo, mentre in ginocchio davanti alla tv terminavo le Beatitudini, al passaggio “Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”, ancora una volta Paolo Rossi davanti alla porta deviò un tiro di Marco Tardelli, spiazzando il portiere brasiliano Waldir Peres. Italia 3-Brasile 2. L’Italia era in semifinale, il Brasile fuori. Io avevo esaurito tutte le preghiere che conoscevo e mancavano ancora 14 minuti alla fine della partita.

   Le emozioni non erano ancora terminate. Oriali passava la palla ad Antognoni che, solo in area di rigore, segnava il quarto gol per l’Italia. Mio cugino, vedendo la bandiera della sua Fiorentina segnare, scese lungo le scale del palazzo urlando a ripetizione: “Antogol!!! Antogol!!!”. Ma, appena uscì in cortile, l’arbitro della partita, l’israeliano Abraham Klein, annullò la rete per un inesistente fuorigioco. Mi sporsi dalla finestra per avvisarlo: mentre dagli appartamenti tutt’intorno si sentiva imprecare, lui stava ancora esultando. Ma alla fine lasciai perdere, perché pensai a quel passaggio delle Beatitudini che dice: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”, e in quel momento mio cugino era uno di loro.

   Ed ecco l’azione chiave della partita: a due minuti dalla fine, Éder batté una punizione che andò dritta sulla testa di Oscar, spingendola verso il lato destro della porta italiana. Il grandissimo Dino Zoff intuì la direzione e, piegandosi sulle ginocchia, con un incredibile balzo si lanciò verso il pallone, che nel frattempo l’oltrepassò. A pochi centimetri dalla linea della porta, arcuandosi all’indietro, smorzò la forza del tiro con le due mani. Caddero tutti e due per terra. Il pallone, però, non aveva ancora fermato la sua corsa e cominciò a rotolare verso la rete.

   L’Italia intera smise di respirare, tranne mio cugino che continuava a urlare “Antogol! Antogol” per il cortile, girando in cerchio come un cavallo durante un numero circense. Io ripresi a recitare, da capo, tutte le preghiere alla velocità del suono: AngelodiDio-Eternoriposo-Angelus-SalveRegina-Benedictus-Preghieradell’incenso-AnimadiCristo-SantoRosario-TeDeum… terminando, ancora una volta, con le Beatitudini. E fu in quel momento che Zoff allungò il braccio sinistro, inchiodando definitivamente la palla sulla linea di porta. I giocatori brasiliani iniziarono subito a sbracciarsi per indicare il gol al guardalinee. Fortunatamente l’arbitro, che si trovava in un buon punto di osservazione, fece continuare il gioco. Due minuti dopo la partita finì.

   L’Italia era in semifinale e il Brasile, eliminato, avrebbe sempre ricordato quel giorno come la Tragedia del Sarriá, nome dello stadio di Barcellona. Mio cugino fu umiliato fino all’esame di maturità dai suoi compagni di scuola, perché continuava a esaltare il gol di Antognoni di Italia-Brasile.

   E io pensai che le preghiere avessero effettivamente un potere, però non mi spiegavo come mai quelle del bambino brasiliano valessero meno delle mie.

1.

   Personalizzare, è da personalizzare.

   La frase magica dell’agente immobiliare mi fu svelata mentre seguivo il corso di formazione. Com’è che c’ero arrivato, ancora non lo so; è stato tutto un “proviamo e poi vediamo”. Ovviamente è da personalizzare – l’ovviamente dà più veridicità al concetto. E più la casa era brutta, più mi divertiva dire “è da personalizzare”. Non sono falso nella vita, anzi direi che era quella l’unica infrazione. È tutto un gioco delle parti: le persone che si rivolgono alle agenzie non hanno le prove ma ugualmente lo sanno. L’agente immobiliare prende una percentuale dal venditore e un’altra percentuale dall’acquirente. Le due cose si annullano a vicenda. La conseguenza è che, alla fine, l’agente lavora per se stesso. E quando favorisce una parte è perché vuole concludere il prima possibile l’acquisto per prendersi la provvigione nel tempo più breve e con la minore fatica. Ovviamente è da personalizzare.

   Nella mia agenzia venivo considerato un cane sciolto, perché circa un mese dopo la mia assunzione avevo deciso di non indossare la tipica cravatta di categoria, con il nodo grande come la testa di un bambino. Dopo due mesi avevo smesso anche di vestirmi come se ogni volta fossi dovuto andare a un matrimonio. L’agente immobiliare si veste molto, molto elegante per acquisire agli occhi del cliente una credibilità che nella realtà non ha. E si vede. Dell’appartamento in vendita solitamente sappiamo poco o nulla. Il 90 per cento delle volte nemmeno a quanto ammontano le spese condominiali. L’informazione base. Quando ci viene rivolta questa domanda, rimaniamo stupiti come se fosse del tutto inaspettata e rispondiamo con un “intorno a…, ma poca roba”. Siamo l’approssimazione della società odierna.

   Un soppalco viene venduto come un pezzo di pregio della casa. Se si scopre che è abusivo, rimaniamo sbalorditi e sorpresi come il cliente stesso, con la differenza che lui paga e noi veniamo pagati. È uno stupore da personalizzare. Un misero monolocale, giusto un po’ più grande, diventa un loft che si suddivide in area giorno e area notte. Quando perfino noi agenti immobiliari non abbiamo il coraggio di spacciare un appartamento per vivibile, diventa “ottimo per investimento”. Come dire: fateci vivere un disgraziato che non ha i soldi né per comprare una casa, né per pagare un affitto decente. O non si può permettere un albergo decoroso. Perché alla fine la gente si rivolge a noi? Perché siamo così affamati di appartamenti da vendere o affittare che è meno stancante accettarci che passare il tempo a respingere noi e i nostri opuscoli, bigliettini, le nostre telefonate… E poi facciamo quello che nessuno può permettersi di fare, ossia organizzare gli appuntamenti. Il nostro vero valore aggiunto.

   Mentire – o omettere quando va bene – nel mondo di chi vende è la prassi. Chi più, chi meno. Lo sanno tutti e questo ripulisce la coscienza: anzi, il lavoro dell’agente immobiliare è uno sciopero di coscienza.

   All’inizio il proprietario di casa è un ottimista nel proporre il prezzo di vendita. L’agente deve lasciarlo sfogare, sapendo che alla fine c’è solo una legge naturale nel mondo immobiliare: il mercato lo fa chi compra, non chi vende. Presto questo periodo di sfogo del venditore finisce e solo allora l’agente immobiliare si avvicina all’acquirente di turno e, dopo aver comunicato la richiesta economica ufficiale, a bassa voce, in maniera del tutto ingiustificata visto che ci sono solo loro due, dice: “Il prezzo è trattabile, possiamo scendere di qualcosina”. Alludendo al fatto che grazie alla sua abilità la cosa prenderà il verso giusto. Eppure anche in questo lavoro c’è sempre l’eccezione, c’è sempre la casa che non si riesce a vendere. Ogni agente immobiliare ha avuto, ha o avrà la sua “Indomabile”. Il periodo di sfogo del proprietario si esaurisce e noi non riusciamo a venderla comunque. L’unica exit strategysarebbe proporre la vendita per il suo valore effettivo, ma sarebbe un affronto. Una sconfitta. La sera stessa, una volta tornati a casa, non avremmo il coraggio di guardare negli occhi i nostri figli – per chi li ha. E, quel che è peggio, perderemmo il gusto di fare questo mestiere.

   Noi in agenzia ne avevamo una, di Indomabile. Ultimo piano con terrazzo, sei stanze, più soggiorno, due bagni, uno stanzino e una cucina abitabile, in discrete condizioni. L’appartamento era bello, molto grande ma difficile da suddividere in diversi ambienti e con tre grossi problemi.

   Il primo: sopra il terrazzo campeggiava un’antenna telefonica gigante, che a volte ti veniva da fare il segno della croce, perché sembrava di essere sotto il Cristo Redentore a Rio de Janeiro. Questo scoraggiava un tantino la vendita.

   Secondo problema: avendo nelle vicinanze un assessorato, trovare il posto auto sotto casa durante il giorno era praticamente impossibile.

   Terzo problema, decisivo: il vicino, un uomo piuttosto anziano, prendeva il sole sul terrazzo di fronte, completamente nudo. E a volte consumava del sesso con donnine allegre. Almeno così aveva dichiarato la signora Erminia del sesto piano. Se non si possiede quella specifica curiosità, difficilmente può essere considerata una vista piacevole. È abbastanza imbarazzante, soprattutto quando si hanno ospiti. Roberto e io avevamo tentato di metterci in contatto con l’arzillo signore, ma senza successo: nessuno dei vicini aveva il suo numero di telefono e non rispondeva mai al citofono. Per noi agenti immobiliari, invadenti come siamo, non riuscire a prendere contatto con una persona è una grave macchia professionale.

   Ormai regolarmente io e il mio collega Roberto, spinti dal nostro capo, Tommaso, sostavamo sul terrazzo da vendere in attesa che il signore godereccio facesse il suo per capire le dimensioni del danno. Ma come quando hai mal di denti per una settimana, poi vai dal dentista e non senti più dolore, ogni volta che arrivavamo noi del signore non c’era traccia. In compenso, trascorrevamo diverse ore lavorative a prendere il sole in attesa dell’evento, e parlavamo dei massimi sistemi. Con Roberto mi trovavo bene, perché anche lui era diventato agente per caso, anche lui era single e non aveva grosse pretese nella vita. Come me, l’acqua lo bagnava e il vento lo asciugava. Sfogava il suo lato cialtrone nel lavoro. Anche perché non c’era la benché minima passione in quello che faceva, la sua era solo una fuga dal mondo, che odiava. Potremmo dire una ribellione “passiva”. Era un inguaribile pessimista e detestava il proprio passato, che ignoravo totalmente perché non lo raccontava mai. Devo dire che questo lo rendeva ancora più interessante. Saltuariamente si concedeva di prendere in giro il piccolo paesino arroccato sulle montagne dove era nato, spacciando qualche bella casa in vendita per la sua abitazione. Si faceva una manciata di foto e le mandava ai suoi paesani. Aveva, come ogni italiano medio, un debole per le donne. Ma lui ci metteva lo stesso impegno di quando doveva vendere una casa, anzi molto di più.

   Per capire il tipo: “Arturo, quando ti piace una bella ragazza, punta sull’amica brutta. La bella ragazza, che è il tuo vero obbiettivo, si chiederà come mai non stai abbordando lei e si farà avanti cercando di scavalcare l’amica brutta”. Ecco, questo mondo qua.

   Anch’io avevo la passione per le donne, ma una strategia di questo genere era troppo faticosa per me. Al lavoro ancora ancora, ma in altri campi proprio non mi veniva. Del resto, io nella vita ne ho sempre avuta anche un’altra, di passione.

2.

   Nascere a Palermo vuol dire convivere con una serie di problemi, apparentemente irrisolvibili. Così irrisolvibili che spesso sei costretto a emigrare. Chi rimane deve districarsi come se si muovesse in una giungla. Se ci vieni in vacanza sembra, e in realtà lo è, una delle città più belle del mondo. Ma basta trascorrere “la vacanza” + un giorno, e scopri cosa vuol dire vivere nel Meridione.

   Per fortuna a chi rimane resta una consolazione: la ricotta! Sì, la ricotta di pecora. Quella che si trova nel cannolo e nella cassata. A Palermo la infilano ovunque e io ne sono schiavo. Mi fa dimenticare tutto il resto. Mangerei qualunque cosa, se accompagnata dalla ricotta. Più viene esaltata dal resto del dolce e più mi piace. Per esempio: c’è il cannolo classico, con ricotta e pezzi di cioccolato oppure il cannolo “scafazzato”, vale a dire un cannolo preso a martellate, e con i pezzi della crosta fai la scarpetta dentro un sugo di ricotta. Ma per apprezzare meglio la ricotta, non c’è dubbio, bisogna prendere quello che a Palermo chiamiamo lo “sciù”. Vale a dire il bignè. Lo si trova generalmente mignon; non essendo fritto, la ricotta non viene uccisa, ma anzi il suo sapore si esalta. Altra mia passione è l’iris. Ne esistono due varianti: fritta o al forno. Il purista la vuole fritta, io invece la preferisco al forno. In pratica è la brioche che si usa per il gelato, riempita di ricotta e pezzi di cioccolato e poi, appunto, fritta o cotta al forno. Su quest’ultima a volte si trova una strisciata di cannella, che a me però non piace. Ma ancora più ignorante, un po’ come il cannolo scafazzato, anche qui fritto o al forno, è il cartoccio. La ricotta viene infilata in un “tunnel” scavato in una brioche allungata. Questo vuol dire che ogni volta che gli si dà un morso la ricotta tende a uscire dall’altra parte. Tecnicamente è un difetto, ma a me piace recuperare un po’ di ricotta sulla camicia, mi fa godere.

   Una volta in terrazzo, in attesa che il signore godereccio facesse il suo, con Roberto avevo tentato di intavolare un discorso sulla ricotta. Ma non era stata una buona idea: Roberto è nato in un paesino in provincia di Catania e, culinariamente parlando, è molto distante dalla ricotta. A Catania l’iris è con la crema, addirittura! La loro ossessione è il pistacchio, lo mettono ovunque. E poi quando un palermitano incontra un catanese, province comprese, il discorso finisce sempre lì: “Si dice arancina, non arancino!” e il catanese risponde: “Arancino, si dice arancino”. E il palermitano: “Ma che minchia dici? Arancia, piccola arancia, arancina. Mica è un piccolo albero di arancio!”. La discussione sul genere sessuale della palla di riso, fritta esternamente, è un punto fermo della nostra esistenza. All’inizio il tono è scherzoso. Dopo dieci minuti si può arrivare alle mani.

   Per quanto mi riguarda, credo che passerò la mia vecchiaia davanti a una vetrina di dolci. So che per questo morirò molti anni prima del previsto, ma saranno anni spesi bene. Mi ritroverò insieme a Mick Jagger in purgatorio. Mick morirà a cento anni, dopo essersi fatto di tutte le droghe del mondo, mentre io a sessanta, per troppa ricotta nel sangue. Non è molto rock and roll, lo so, ma mi sta bene.

L’autore. 

Pierfrancesco Diliberto. In arte Pif.

Pif, il cui vero nome è Pierfrancesco Diliberto, nasce il 4 giugno 1972 a Palermo, figlio del regista Maurizio Diliberto e discendente dello scultore danese Bertel Thorvaldsen. Appassionatosi al cinema sin da bambino, si diploma al liceo scientifico e, invece di iscriversi all’università, decide di trasferirsi a Londra per prendere parte ad alcuni corsi di Media Practice.Nel 1998 partecipa a un concorso di Mediaset vincendolo, e iniziando la carriera di autore televisivo. Dopo avere fatto da assistente a Franco Zeffirelli per il film “Un tè con Mussolini” e a Marco Tullio Giordana per il film “I cento passi”, vincitore di quattro David di Donatello, nel 2001 è autore del programma di Italia 1 “Candid & Video Show”; in seguito, entra nella redazione delle “Iene”, prima come autore e poi come inviato: è proprio alle “Iene” che gli viene dato il soprannome Pif, assegnatogli dal collega Marco Berry. Di lui il critico Aldo Grasso ha detto: “Il suo è un giornalismo d’inchiesta innovativo che ha molta presa sul pubblico più giovane: quella di Pif si potrebbe definire un’antropologia light”.

Ricordiamo, fra i tanti lavori cinematografici: La mafia uccide solo d’estate, film del 2013 interpretato e scritto da lui stesso con Michele Astori e Marco Martani.

«Per me da bambino la mafia era lontana pur essendo dietro casa. Chissà quante volte ero vicino a un mafioso, senza saperlo. Giocavo a calcio di fronte alla casa dove Vito Ciancimino riceveva Provenzano: magari è arrivata qualche pallonata sulla sua macchina. Il rischio è abituarsi. Se il negozio vicino a scuola prende fuoco perché non pagano il pizzo, la prima volta fa impressione, la decima ti abitui. E invece bisogna scandalizzarsi: abituarsi significa rassegnarsi.»

Pif.

 

 

  • … che Dio perdona a tutti
  • Pif
  • Editore: Feltrinelli
  • Collana: I narratori
  • Anno edizione: 2018
  • Pagine: 186 p., Brossura

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