Prendiamo ad esempio quel malefico, microscopico esserino che ci sta rovinando le giornate. Il volgo lo ha chiamato, fin dall’inizio, “coronavirus”…

Moloch, l’eterno nemico dell’uomo

Prendiamo ad esempio quel malefico, microscopico esserino che ci sta rovinando le giornate. Il volgo lo ha chiamato, fin dall’inizio, “coronavirus”, con la variante pronunciata vezzosamente “coronavairus” da alcuni semicolti, inglesismo che sta esteticamente alla lingua italiana come l’unghia del mignolo lasciata crescere, come usava qualche generazione fa, sta all’eleganza maschile. Poi sono arrivati i Signori Scienziati che ci hanno pazientemente spiegato che no, il termine coronavirus non va bene, perché troppo generico: questo termine indica un’ampia famiglia di virus respiratori che possono causare malattie diverse, compreso il banalissimo raffreddore. È allora doveroso utilizzare il termine Covid-19, nome che significa esattamente la stessa cosa essendo acronimo di Co (corona), Vi (virus), D (“disease”, malattia) e 19, l’anno di identificazione, ma poiché inventato dall’ “autorevole” OMS, è più “scientifico”.

Si tratta di un nome politically correct. Infatti la denominazione ufficiale rispetta precise linee guida, un “galateo della scienza”, elaborato dall’OMS in nome della solita Correttezza Politica, per evitare che i nomi delle epidemie richiamassero alcune comunità etniche. Non possiamo più denominare una pandemia “asiatica”, “cinese” o “spagnola” (un falso storico: chiamata così perché non essendo la Spagna nel 1918 in guerra e non essendoci quindi censura militare, la stampa iberica fu la prima a parlarne. In realtà sembra che sia stata portata in Europa da soldati americani e diversi epidemiologi hanno ipotizzato che il virus della spagnola si sia diffuso originando dalla provincia cinese del Kwangtung). Chiamare il Covid-19 “cinese” sarebbe “razzismo” e i pipistrelli dell’Impero di Mezzo, che sembra siano la causa originaria del virus, potrebbero offendersi.

Però Trump, che pare essere indecorosamente insensibile alla political correctness, la chiama “cinese” con chiaro intento accusatorio, anche perché diversi complottisti statunitensi ritengono che questo virus sia sfuggito da un segretissimo laboratorio militare cinese, mentre complottisti di segno opposto concordano sì sulla fuoriuscita da un laboratorio militare segreto, ma americano.

Ciò che questi tristi eventi ci significano, tra l’altro, è l’importanza assoluta delle parole. Le parole non sono semplici insiemi di fonemi, ma molto di più. Non solo le parole ci permettono di comunicare, ma danno significato e senso alla comunicazione. E, ancor di più, ci forniscono un segno di valore, o di disvalore, dei concetti comunicati. Noi pensiamo con le parole e nel nostro pensare assumiamo anche l’implicito contenuto, di significato e valoriale, delle parole stesse.

La lezione di Orwell nel suo 1984(L.C.)è ben nota: la Neo-lingua dal cui nuovo vocabolario sono escluse le parole e i pensieri non in linea con le direttive del Partito e del Ministero della Verità, e quindi rappresentano uno “psicoreato”. Ci conviene leggerlo, o rileggerlo, 1984: è una fedele descrizione di quello che ci sta succedendo. Michel Onfray, intellettuale francese controcorrente, ha recentemente pubblicato Teoria della dittatura. Perché non viviamo più in una società libera, (L.C.)edito in Italia da Ponte alle Grazie, che ci accompagna in una rilettura di 1984 e La Fattoria degli animali, svelandone la terribile attualità riguardo alla feroce censura liberal che oggi ci opprime.

La parola è anche segno magico: in magia, così come in politica, le parole cambiano la realtà, cambiano il mondo. Dare il nome alle cose, ai luoghi, agli animali significa dichiarare, affermare il proprio possesso, il proprio diritto ordinatore, di più, la propria signoria su di essi. Carl Schmitt(1), con lucida chiarezza, ci ricorda che: “Una conquista territoriale ha un effetto costitutivo solo quando chi attua la presa di possesso riesce a imporre un nome.” Non è banale ricordare che non è per nulla ininfluente chiamare un certo arcipelago Falkland Islands o Islas Malvinas (in buon italiano Isole Maluine). In un’antica leggenda della Val d’Ossola si trova un brano illuminante: “Dopo aver creato tutte le cose, il Buon Dio cominciò a dare loro dei nomi e disse loro: siete vive perché avete un nome. Il vostro nome è la vostra anima. Non fatevi togliere il nome perché sareste morte. Non fatevi cambiare il nome perché sareste schiave di chi ve lo ha cambiato”.

Ecco perché la Rivoluzione liberalmondialista, i Signori del Caos, gli Apologeti della Perversione sono così impegnati a inventare nuove parole portatrici di un significato implicito, spesso non percepito come giudizio di valore. Oppure a modificare il senso di parole che originariamente ne avevano un altro, magari più neutro o semplicemente descrittivo. O ancora a proibire, pena conseguenze anche penali o comunque di stigmatizzazione e di discriminazione sociale (è uno psicoreato), l’uso di termini che potrebbero veicolare concetti non graditi al regime.

Consideriamo termini come “femminicidio”, “maschilismo”, “sessismo”, “specismo”, “omofobia”, “xenofobia”, “islamofobia”, oppure “gay”, “LGTB”, “queer”, “gender” o ancora l’ingannevole, anche se non recente, “migrante” (in realtà invasori clandestini): solo qualche decennio fa non esistevano, sono neologismi creati dal potere per meglio veicolare un sottinteso di vergognosa condanna o di esaltata apologia. “Femminicidio”, ad esempio, obbrobrio lessicale, grammaticale e sociologico-penale, ha lo scopo precipuo di demonizzare il grande nemico dei tempi moderni, il Grande Satana del Politicamente Corretto: l’Uomo Bianco, Europeo, Eterosessuale, Cristiano.

Una rappresentazione satirica del “fardello dell’uomo bianco”

Esaltato da Kipling(2) per il suo fardello, è oggi invece considerato colpevole di ogni delitto: dalle carestie nel terzo mondo, alla deforestazione in Amazzonia, alla distruzione della natura e alla conseguente generazione dei virus, alla persecuzione delle minoranze (neri e omosessuali innanzi tutto). E ovviamente, allo sterminio sistematico delle donne. Quante volte l’abbiamo sentito nei telegiornali: “ennesimo femminicidio…”. Femminicidi ovviamente dovuti all’imperante ideologia “maschilista”, orribile perversione intrinseca all’uomo bianco eterosessuale. Scrive Roberto Pecchioli: “Nel contesto di una società femminilizzata, solo l’accusa terribile di “maschilismo” può atterrire quanto quella di razzismo”.

Oppure, consideriamo il termine “gay”, creato con il precipuo scopo di far simpatizzare, o antipatizzare di meno, l’opinione pubblica con l’omosessualità, coniando un’auto-definizione gradevole sin dal suo suono. Il termine “gay”, infatti, significa non solo omosessuale ma anche “allegro”, “gaio, “glamour”, “stravagante”, “spensierato”. Più che una deviazione sessuale, una categoria dello spirito.

“Islamofobia”: gli Europei di mezzo continente, dalle coste mediterranee ai Balcani, dalla Grecia all’Europa centrale, dalla Spagna alla Russia, che per centinaia di anni hanno subito le minacce, gli attacchi, le aggressioni, i massacri, le distruzioni, i rapimenti, le oppressioni, le persecuzioni religiose da parte dei musulmani, si stupirebbero e si indignerebbero per questo significato “negativizzante” della “paura dell’Islam”, da considerarsi sbagliata, ingiusta, eurocentrica, perché l’Islam è “una religione di pace”.(cfr1-ndr)

Loro, i nostri antenati, fino a poche generazioni fa (ancora nel 1821 l’Elba venne assalita e depredata dai pirati barbareschi e molti isolani fatti schiavi) sapevano bene che dell’Islam dobbiamo aver paura. Noi, invece, nonostante guerre in Medio Oriente, massacri di cristiani, attentati e arroganti invasioni, ce ne siamo dimenticati o lo vogliamo ignorare.

Sulla voluta, aggressiva distorsione di termini quali “fascismo” e “razzismo”, sul loro falsificato e falsificante uso storico-politico, aggressivamente manipolatorio, strumentale alla demonizzazione degli avversari (il 25 Aprile è ormai la giornata equivalente ai “due minuti di odio” del 1984 di Orwell), non c’è bisogno di soffermarsi.

Nicolás Gómez Dávila

[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’10e614′ ccolor=’0a0909′]“Chi accetta il lessico del nemico si arrende senza saperlo” Nicolás Gómez Dávila [/stextbox]

Vi è poi il fenomeno della “lingua tagliata”, delle parole proibite. L’uso di parole come “negro”, “clandestino”, “zingaro” è, in molti casi, passibile di essere perseguito penalmente. E, ove non bastasse la liberticida legge Mancino, ci sono le disposizioni dell’Agcom e quella della “Carta di Roma” voluta dall’Ordine e dal sindacato dei giornalisti, che indicano imperiosamente quali termini usare e quali non usare perché “offensivi”. L’ONU e l’Unione Europea hanno da tempo emanato diktat linguistici che impongono un linguaggio ispirato alla distorsione della realtà della politically correctness: occorre quindi sostituire policeman con police officersalesman con salespersonwife/housband con spouse e via corrompendo. D’altronde, ben più vicino a noi, l’imposizione progressista, omosessualista e genderista di sostituire madre e padre con genitore uno e due ha già purtroppo preso piede nelle nostre istituzioni.

Piazza San Marco con la chiesa di San Giminiano, demolita da Napoleone

D’altronde, la proibizione di parole sgradite ai potentati della sovversione, in nome del loro odio per la verità e la realtà, non è solo fenomeno di oggi. Quando nel 1797 Napoleone e la sua soldataglia rivoluzionaria aggredirono e invasero la millenaria Repubblica di San Marco, massacrando, saccheggiando, derubando, espropriando palazzi e ville, spogliandola delle innumerevoli, preziosissime opere d’arte, privandola di ogni libertà con la complicità dei giacobini italiani, gli occupanti d’oltralpe proibirono, in odio all’aristocrazia veneta, di chiamare “servitori” i servitori delle case patrizie e di sostituire questo termine con “domestici”. Ignoriamo se abbiano anche imposto di modificare il titolo della famosa commedia di Goldoni, obbligando i teatri a rappresentarla con il titolo: “Arlecchino domestico di due padroni”.

Infine, troviamo la categoria delle parole e delle espressioni “dolcificanti”, create per non offendere le delicate orecchie e le indurite coscienze dei moderni di fronte alla cruda realtà della morte procurata: così l’aborto diventa “interruzione volontaria di gravidanza”, l’embrione “un prodotto del concepimento” e l’eutanasia “dolce morte”.

La rana bollita

Come siamo arrivati, passo dopo passo, a tutto questo? Certamente, c’entra il principio della “rana bollita” di Chomsky(3): una rana buttata in acqua bollente schizza subito fuori, ma cotta lentamente in acqua inizialmente fredda si lascia quietamente bollire. È il nostro caso. Solo qualche lustro fa, ci saremmo indignati per la distorsione linguistica che subiamo oggi. Ma la causa principale è stata la sistematica, organizzata, strategica conquista, da parte della sinistra, prima marxista poi liberal, di tutte le agenzie “datrici di senso”: scuola, università, case editrici, premi letterari, stampa, televisioni, persino lo star system: con tale totalitaria potenza di fuoco, le è stato facile imporre parole, significati, divieti.

Così, lentamente ma inesorabilmente, le parole hanno subdolamente insinuato nel “sentire comune” dell’opinione pubblica anche un significato di valore:

Ida Magli

in molti casi, l’implicita positività del significante e del significato (ad esempio, “gay”, “gender”) viene imposta dalla pressione sociale e culturale e con la minaccia di stigmatizzazione dei dissenzienti. Il tutto, gestito con le regole feroci della Correttezza Politica, che Ida Magli definì: “la forma più radicale di lavaggio del cervello che i governanti abbiano imposto ai propri sudditi” che, nel caso delle parole, è definibile: “l’obbligo di acquisire, attraverso norme linguistiche, un sistema non corrispondente alla realtà.” Definizione, quest’ultima, particolarmente veritiera in termini di negazione della realtà naturale, soprattutto, ma non solo, se correlata ai temi dell’omosessualità e del gender.

Daniela Mattalia

D’altronde è proprio questo l’obiettivo dei Signori del Caos: pervertire, distorcere o negare la realtà. Particolarmente esplicativo questo pezzo di un articolo di Daniela Mattalia: “Funziona così: si prende una mela e la si chiama – per decreto o per decisione di qualche politico in stile Laura Boldrini – pera. Poi si redarguisce (o si querela o si esclude dal dibattito) chiunque si ostini a dire: “Ehi, guardate che quella è una mela!”. Col passare del tempo, il linguaggio si modifica: si cominciano a chiamare pere quelle che sono a tutti gli effetti mele. Modificando il linguaggio si modifica la realtà.” A proposito di mele, di parole e di realtà: pare che San Tommaso aprisse la prima lezione di ogni anno di studi all’Università di Parigi mettendo una mela sul leggio e dicendo: “Questa è una mela. Chi non è d’accordo se ne può andare”. Aneddoto improbabile (ma coerente con la sua filosofia realista) data la naturale mitezza del Dottore Angelico, ma significativo dell’importanza di difendere la realtà e la corrispondenza veritativa delle parole con le cose.

Il variegato, talvolta confuso fronte degli avversari delle sinistre e delle élite mondialiste – definiamolo pure “le destre” – ha reagito debolmente, anche se non sono mancati autori coraggiosi e organi di stampa reattivi, finendo spesso per utilizzare le parole, le categorie, i concetti e quindi assumendo implicitamente i valori dell’avversario. Insufficienza di mezzi di comunicazione e di strumenti mediatici con cui reagire? Timori di condanna sociale, considerato anche lo strapotere mediatico degli apologeti della correttezza politica? Insufficiente consapevolezza del diabolico meccanismo di corruzione della realtà? Una non sempre adeguata strumentazione intellettuale di analisi e di comprensione? Probabilmente, un mix di queste cose.

Rimane il fatto che, accettando il divieto di parole proibite e usando acriticamente parole-trappola come “gay”, “migranti”, “femminicidio”, “maschilismo” e via aberrando, poiché “chi non ha le parole non ha le cose”, ci siamo fatti strappare la possibilità di pensare la realtà e il mondo, di descriverlo e di rappresentarlo. Ci siamo dimenticati del severo monito di Nicolás Gómez Dávila(4)“Chi accetta il lessico del nemico si arrende senza saperlo” e ci siamo fatti a nostra volta diffusori del virus del Bispensiero(5) narrato nel 1984 di Orwell, untori con l’unguento malefico della Correttezza Politica. Sapremo rimediare?

Antonio de Felip

 

 

Note:

  • (1) Carl Schmitt (Plettenberg, 11 luglio 1888 – Plettenberg, 7 aprile 1985) è stato un giurista, filosofo politico e politologo tedesco. Come giurista Schmitt è uno dei più noti e studiati teorici tedeschi di diritto pubblico e internazionale. Le sue idee hanno attirato e continuano ad attirare l’attenzione di molti filosofi, studiosi di politica e del diritto, tra cui Walter Benjamin, Leo Strauss, Jacques Derrida, Gianfranco Miglio, Giorgio Agamben. Il suo pensiero, le cui radici affondano nella religione cattolica, ruotò attorno alle questioni del potere, della violenza e dell’attuazione del diritto. Tra i concetti chiave ci furono, nella loro lapidaria formulazione, lo “stato d’eccezione” (Ausnahmezustand), la “dittatura” (Diktatur), la “sovranità” (Souveranität) e il “grande spazio” (Großraum), e le definizioni da lui coniate, come “teologia politica” (Politische Theologie), “custode della costituzione” (Hüter der Verfassung), “compromesso di formula dilatorio” (dilatorischer Formelkompromiss), la “realtà della costituzione” (Verfassungswirklichkeit), il “decisionismo” o formule dualistiche come “legalità e legittimità” (Legalität und Legitimität), “legge e decreto” (Gesetz und Maßnahme) e “hostis – inimicus” (il rapporto “nemico-avversario” come criterio costitutivo della dimensione del politico).
  • (2) Joseph Rudyard Kipling (Bombay, 30 dicembre 1865 – Londra, 18 gennaio 1936) è stato uno scrittore e poeta britannico. Fra le sue opere più note: la raccolta di racconti Il libro della giungla (The Jungle Book, 1894), i romanzi Kim (1901), Capitani coraggiosi (1897), i componimenti in versi Gunga Din (1892), Se (If, 1895) e Il fardello dell’uomo bianco (The White Man’s Burden, 1899). Il fardello dell’uomo bianco (titolo originale inglese The White Man’s Burden) è una celebre poesia di Rudyard Kipling. In seguito la poesia, che Kipling vedeva più come un incitamento, per l’uomo europeo, a sacrificare anche la propria vita alla causa positiva della civilizzazione del mondo “barbaro” (sull’esempio di missionari come David Livingstone), venne letta invece come una sorta di manifesto del colonialismo e dell’imperialismo, e “il fardello dell’uomo bianco” divenne un modo molto diffuso per riferirsi alla necessità di civilizzare i paesi estranei alla tradizione europea, anche forzatamente. 

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco–
Disperdi il fiore della tua progenie–
Obbliga i tuoi figli all’esilio
Per assolvere le necessità dei tuoi prigionieri;
Per vegliare pesantemente bardati
Su gente inquieta e selvaggia–
Popoli da poco sottomessi, riottosi,
Metà demoni e metà bambini
. […]

  • (3) Il principio della rana bollita è un principio metaforico raccontato dal filosofo e anarchico statunitense Noam Chomsky, per descrivere una pessima capacità dell’essere umano (zombie) moderno: ovvero la capacità di adattarsi a situazioni spiacevoli e deleterie senza reagire, se non quando ormai è troppo tardi
  • (4) Nicolás Gómez Dávila (Bogotà, 18 maggio 1913 – Bogotà, 17 maggio 1994) è stato uno scrittore, filosofo e aforista colombiano. Scrittore e moralista, portatore di un pensiero reazionario, tradizionale, conservatore e controrivoluzionario sul piano socio-politico, anticapitalista e anticomunista ma non fascista (in un periodo, pur dicendosi apolitico e antipolitico, appoggerà perfino il Partito Liberale Colombiano di ispirazione socialdemocratica contro la dittatura militare di Pinilla), Gómez Dávila era uno dei massimi critici della modernità. La sua opera, costituita per la maggior parte da aforismi, fu riconosciuta a livello internazionale solo pochi anni prima della morte, in seguito alla pubblicazione in tedesco di alcune sue opere. Cattolico tradizionalista ma sui generis, ammiratore del paganesimo classico (che riteneva essere l’altro “Antico Testamento” della Chiesa, quello non ebraico) oltre che della Bibbia, fu soprannominato – per somiglianza con alcune tematiche della rivoluzione conservatrice tedesca e la tendenza all’aforisma – il “Nietzsche di Bogotà” (o “colombiano”) e il “Nietzsche cristiano”, appellativi da lui graditi nonostante l’ateismo e l’anticristianesimo del pensatore di Röcken.

  • (5) Bispensiero o bipensiero (in inglese doublethink), è un termine in neolingua coniato da George Orwell per il suo libro di fantascienza distopica 1984, utilizzato dal Partito del Grande Fratello (il Socialismo Inglese, o Socing) per indicare il meccanismo psicologico che consente di credere che tutto possa farsi e disfarsi: la volontà e la capacità di sostenere un’idea e il suo opposto, in modo da non trovarsi mai al di fuori dell’ortodossia, dimenticando nel medesimo istante, aspetto questo fondamentale, il cambio di opinione e perfino l’atto stesso del dimenticare. Chi adopera il bipensiero è quindi consciamente convinto della veridicità (o falsità) di qualcosa, pur essendo inconsciamente consapevole della sua falsità (o veridicità). Il bipensiero è ipoteticamente essenziale nelle società totalitarie che, per definizione, richiedono un’adesione costante di fronte a mutevoli linee politiche.

Fonte

 

Libri Citati

 

  • Teoria della dittatura. Preceduto da «Orwell e l’impero di Maastricht»
  • Michel Onfray
  • Traduttore: Michele Zaffarano
  • Editore: Ponte alle Grazie
  • Formato: EPUB con DRM
  • Testo in italiano
  • Cloud: Sì Scopri di più
  • Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
  • Dimensioni: 553,19 KB
  • Pagine della versione a stampa: 224 p.
  • EAN: 9788833314839.   [btn btnlink=”https://www.ibs.it/teoria-della-dittatura-preceduto-da-ebook-michel-onfray/e/9788833314839″ btnsize=”small” bgcolor=”#eded00″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista € 3,99[/btn]

 

Descrizione

Perché non viviamo più in una società libera. La nostra è una società libera? Le dittature che hanno caratterizzato così duramente il secolo scorso sono davvero e per sempre scomparse? Per rispondere a queste domande Onfray si basa sull’analisi di due straordinarie opere di George Orwell: 1984 e La fattoria degli animali, testi capitali per comprendere i maggiori totalitarismi del Novecento, lo stalinismo e il nazionalsocialismo. Ma l’intento di Onfray è di utilizzarli come struimenti per l’interpretazione dell’oggi: a partire da essi, l’autore descrive sette «fasi» o «comandamenti» necessari e sufficienti a far sì che il pericolo di una dittatura si realizzi concretamente: distruggere la libertà; impoverire la lingua; abolire la verità; sopprimere la storia; negare la natura; propagare l’odio; aspirare all’Impero. Ciascun comandamento viene poi analizzato in dettaglio nelle sue implicazioni, che l’autore definisce «principi», trentatré in tutto; a titolo di esempio, Praticare una lingua nuova, Usare un linguaggio a doppia valenza, Distruggere parole, Piegare la lingua all’oralità, Parlare una lingua unica, Eliminare i classici sono i principi del «comandamento» Impoverire la lingua. Attraverso un’argomentazione lucida, mai pessimista ma brillante, rapida e inarrestabile, Onfray dipinge il ritratto di un’epoca, la nostra, che sembra aver smarrito ogni saldo riferimento e procede senza apparenti ostacoli verso la dittatura prossima ventura.

 

  • 1984
  • George Orwell
  • Traduttore: Stefano Manferlotti
  • Editore: Mondadori
  • Collana: Oscar moderni
  • Anno edizione: 2016
  • Formato: Tascabile
  • In commercio dal: 21 giugno 2016
  • Pagine: XII-321 p., Brossura
  • EAN: 9788804668237.  [btn btnlink=”https://www.ibs.it/1984-libro-george-orwell/e/9788804668237?inventoryId=54726849″ btnsize=”small” bgcolor=”#eded00″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista € 13,30[/btn]

 

Descrizione

«La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza.»

1984 Il mondo è diviso in tre superstati in guerra fra loro: Oceania, Eurasia ed Estasia. L’Oceania, la cui capitale è Londra, è governata dal Grande Fratello, che tutto vede e tutto sa. I suoi occhi sono le telecamere che spiano di continuo nelle case, il suo braccio la psicopolizia che interviene al minimo sospetto. Tutto è permesso, non c’è legge scritta. Niente, apparentemente, è proibito. Tranne pensare. Tranne amare. Tranne divertirsi. Insomma: tranne vivere, se non secondo i dettami del Grande Fratello. Dal loro rifugio, in uno scenario desolante, solo Winston Smith e Julia lottano disperatamente per conservare un granello di umanità…

(cfr1-ndr)

La tratta degli schiavi bianchi che la storia ha dimenticato

Donne bianche vendute al mercato

 

Cos’ha questa immagine che non quadra? Si vede una donna, in condizioni di schiavitù, messa in mostra per poi essere venduta. Ok, dal punto di vista storico tutto quadra ma… c’è solo un piccolo particolare che non va: la donna in questione è di carnagione troppo chiara per poterla considerare una vittima della Tratta Atlantica, la più famosa e fiorente (che molti immaginano essere l’unica) tratta degli schiavi, la quale permise ai mercanti europei ed africani di arricchirsi e di esportare schiavi neri ovunque. Infatti, quel che spesso viene dimenticato nei libri di storia sono sempre le eccezioni, che contribuiscono a formare un esempio alternativo di storiografia, aprendo la mente di chi la studia e donando i riconoscimenti dovuti a chi tenta di ricostruirla nel modo più oggettivo e diversificato possibile.

Nell’attacco a Tessalonica del 903, i capi Arabi si spartirono o vendettero come schiavi 22.000 Cristiani. Quando il Sultano Al Arsalan devastò la Georgia e l’Armenia nel 1064, ci fu un massacro difficilmente quantificabile e tutti i sopravvissuti furono ridotti in schiavitù. Il Califfo Almoade Yaqub al-Mansur [il mecenate di Averroè] colpì Lisbona nel 1189, schiavizzando 3.000 donne e bambini. Il suo governatore a Cordoba attaccò Silves nel 1191, facendo 3000 schiavi Cristiani.

70.000 abitanti furono ridotti in schiavitù durante la campagna di Mehmed II in Morea (l’attuale Grecia) nel 1460. Il francescano Italiano Bartolomeo di Giano (Giano dell’Umbria) parla di 60.000- 70.000 schiavi catturati nel corso di due spedizioni degli akinðis in Transylvania (1438) e di circa 300.000-600.000 schiavi ungheresi. Se questi dati sembrano esagerati, altri sembrano più accurati: 7000 abitanti ridotti in schiavitù dopo l’assedio di Tessalonika (1430), secondo John Anagnostes, e 10.000 abitanti portati via durante l’assedio di Mytilene (1462), secondo il Metropolitano di Lesbos, Leonardo di Chios.

Fonti:

  • R.Davis, Christian Slaves, Muslim Masters: White Slavery in the Mediterranean, The Barbary Coast, and Italy, 1500-1800 (Early Modern History: Society and Culture), 2004.
  • Parker, Relazioni Globali nell’Età Moderna 1400-1800, Il Mulino, Bologna, 2012
  • J.Heers, I barbareschi. Corsari del Mediterraneo, 2003.
Donna europea ispezionata da un cliente

 

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