”Chi o cosa ostacola la vera scienza: il caso Grover Krantz. In una società che ha “commercializzato” tutto, anche “La verità scientifica” è divenuta una faccenda di business e non più di ricerca disinteressata per la conoscenza
Cosa ostacola la vera scienza: il caso Grover Krantz
Quanto più lontano potrebbero giungere le nostre conoscenze scientifiche, se non vi fosse qualcosa che ostacola sistematicamente la ricerca, e specialmente la ricerca degli studiosi più intrepidi, quelli che hanno il coraggio di esplorare nuovi ambiti e di scandagliare zone inesplorate del conoscere. Questo fattore, strano a dirsi, ma forse non troppo, è costituito dalla stessa comunità scientifica, la quale si è costituita in una sorta di chiesa laica, anzi laicista, e si è data una struttura stabile che deve rispettare regole molto rigide e al di fuori della quale non c’è salvezza, vale a dire che le scoperte più importanti rischiano di passare del tutto inosservate se chi le fa non si attiene alle regole imposte dalla chiesa scientista(1). Nella quale vige un conformismo, o per meglio dire un bigottismo, in tutto e per tutto paragonabile a quello di certe sette religiose, o pseudo religiose, che vivono in un mondo a parte, tutto loro, quasi allucinatorio, nel quale non è più vero ciò che è vero, e che l’evidenza dei fatti mostra chiaramente, ma è vero ciò che i capi della setta asseriscono essere vero, ad esclusione di tutto il resto, che ha la colpa originaria di essere materia profana. Naturalmente, è giusto che gli scienziati rispettino dei metodi di ricerca rigorosi e si attengano a un serio codice professionale; ma la scienza che essi coltivano non deve diventare una sorta di fortilizio assediato, dal quale si difendono ferocemente, respingendo qualunque tipo di ricerca non rifletta perfettamente le regole e i protocolli, e soprattutto rifiutandosi di prendere in considerazione le ricerche attinenti a degli ambiti che essi, dall’alto del loro potere accademico e della loro presunzione cattedratica, bollano come indegni di una seria indagine scientifica.
Per un vero scienziato, non c’è nulla di disonorevole o di degradante nel confrontarsi anche con ambiti di ricerca non convenzionali: egli non teme il ridicolo che potrebbe venirgli dal fatto di occuparsi di cose ritenute dai colleghi “poco scientifiche”, perché la sua sola preoccupazione è l’indagine onesta e rigorosa, e ciò che possono pensarne i conformisti dello scientismo non lo tocca minimamente. Di fatto, però, ad avere un tale atteggiamento di libertà intellettuale sono ben pochi, e quei pochi devono pagare un duro scotto in termini di isolamento, di critiche ingenerose, di emarginazione e di ostacoli d’ogni genere alla loro carriera. Per quanto bravi siano nella loro specializzazione, gli scienziati che commettono il peccato imperdonabile di esplorare ambiti della realtà che incontrano la disapprovazione della comunità accademica, non troveranno riviste specializzate disposte a pubblicare le loro ricerche, né università disponibili a finanziare i loro progetti, né laboratori disposti ad ospitarli, o fondazioni interessate a finanziare i loro progetti. In breve, troveranno ben presto il deserto attorno a sé, perché la comunità scientifica, che si è autonominata detentrice e custode del solo sapere autorizzato, deve punirli per la loro insubordinazione. È il conformismo dei professori, la loro paura di esporsi alle critiche se assumono atteggiamenti indipendenti, il cancro che divora dall’interno la ricerca scientifica e ne limita enormemente le possibilità di sviluppo: se ne sta avendo un doloroso saggio in questi mesi di presunta pandemia da Covid-19, quando gli scienziati e molti medici specializzati non stanno certo facendo una bella figura nel contraddirsi a vicenda, nell’esprimere pareri grossolani e superficiali, nel tacere sugli errori diagnostici che sono stati fatti e nel persistere in una impostazione clinico-terapeutica che ha già dato cattivi risultati e che ne darà di peggiori, fino a quando non verrà rotto il tabù e non si dirà a voce forte e chiara che qualcuno ha cavalcato la paura della gente, che l’ha acuita ed esasperata, e che il modo in cui l’emergenza è stata affrontata si è rivelato complessivamente inadeguato, isterico, precipitoso, ha lasciato sguarniti gli altri fronti della sanità pubblica e ha condannato molti pazienti che potevano essere salvati, se le loro terapie non fossero state ostacolate, ritardate o interrotte a causa della paura parossistica del contagio, che ha congelato quasi tutti i reparti ospedalieri e gli ambulatori clinici, nell’attesa tanto irrazionale quanto deleteria di un miracoloso vaccino che dovrebbe risolvere tutti i problemi.
Vogliamo chiarire meglio il discorso avvalendoci di un esempio concreto, fra i tantissimi che avremmo potuto scegliere. Grover Sanders Kranz(2) (1931-2002) è stato un noto e stimato zoologo americano che, a un certo punto, si è appassionato alla criptozoologia. Ciò è accaduto quando, nel corso della sua carriera, si è imbattuto in qualcosa di molto insolito: le impronte di un Sasquatch lasciate sul terreno in una impervia regione dello Stato di Washington, all’estremo nord-ovest degli Stati Uniti. Il Sasquatch, come è noto, è, o forse bisogna dire “sarebbe”, un antropoide molto simile all’uomo, ma assai più alto e massiccio, coperto da una pelliccia villosa, che si aggira per i boschi di quelle zone quasi disabitate e più volte è stato visto, o intravisto, o ha lasciato tracce del suo passaggio, oltre ad occupare un posto ben preciso nei racconti e nelle leggende delle tribù indiane del Nord-ovest, fra le Montagne Rocciose e la costa del Pacifico. La parola infatti è di origine indiana e significa letteralmente “uomo selvaggio”. Esiste anche un breve filmato che ritrae un esemplare femmina, e che è stato variamente giudicato: per alcuni è autentico, per altri è un falso abbastanza maldestro. Sia come sia, e benché nel corso dell’ultimo secolo le segnalazioni, dirette o indirette, della presenza di questo misterioso abitante dei boschi di abeti siano state alquanto numerose, in una nazione scientificamente avanzata come gli Stati Uniti, ove legioni di giovani laureati in zoologia, antropologia, biologia, scalpitano per farsi notare e intraprendere una carriera di prima classe, fino agli anni ’60 del secolo scorso non si era fatto avanti neppure uno scienziato disposto a mettere la faccia in una ricerca mirante a sciogliere una volta per tutte l’enigma relativo alla sua esistenza o inesistenza.
Le cose stavano a questo punto allorché nel 1963, Grover, figlio di mormoni praticanti, un professore molto popolare fra gli studenti nonostante i suoi esami fossero notoriamente difficili, e che soleva pranzare con loro alla mensa universitaria e parlare di tutto, dalla fisica quantistica alla storia militare, incrociò la sua strada, per così dire, con quella del Bigfoot, e decise di dedicarvi una serie di ricerche tanto accurate quanto quelle che un serio scienziato accademico riserva a qualsiasi altro ambito di studio, nonostante si trattasse di una materia non solo controversa, ma tale da suscitare sorrisetti e ironie perché nessuno scienziato serio, appunto, si era mai degnato di prenderla in considerazione. Per dare un’idea della personalità e del tipo di approccio di questo intrepido studioso dell’ignoto, citiamo una pagina del libro di Michael A. Cremo e Richard L. Thompson (L.C.)Archeologia proibita. Storia segreta della razza umana (titolo originale: The Hidden Histry of the Human Race, Los Angeles, Bhaktivedanta Book Publishing, 1996; traduzione dall’inglese di Mariagrazia Oddera, Roma, Newton Compton Editori, 2011, 20120, pp. 257-259):
Grover S. Krantz, antropologo all’università dello Stato di Washington, all’inizio era scettico circa le notizie sul Sasquatch. Per determinare se la creatura esistesse davvero o meno, Krantz studiò nei particolari alcune orme trovate nel 1970 nel nord-est dello Stato di Washington. Ricostruendo l’impronta scheletrica del piede a partire dall’impronta, osservò che la caviglia si trovava in una posizione maggiormente spostata in avanti di quanto lo fosse in un piede umano. Tenendo presente la statura e il peso che erano stati attribuiti a un Sasquatch adulto, Krantz fece ricorso alle proprie conoscenze nel campo dell’antropologia fisica e calcolò con esattezza quanto in avanti potesse trovarsi la sua caviglia. Tornando alle impronte, trovò che la posizione della caviglia si adattava in maniera esatta ai suoi calcoli teorici. “In questo preciso momento ho deciso che era tutto vero”, dichiarò Krantz. Un falsario non avrebbe mai potuto sapere di quanto avrebbe dovuto trovarsi spostata la caviglia. Ho dovuto lavorare un paio di mesi con il calco sottomano, per cui potete immaginare fino a che punto avrebbe dovuto spingersi l’abilità di un presunto truffatore”.
Krantz e l’esperto in uomini selvaggi John Green hanno scritto ampi resoconti sulle testimonianze delle orme nordamericane. In genere le impronte hanno una lunghezza variante fra i trentacinque e i quarantacinque centimetri e una larghezza compresa fra i dieci e i quindici centimetri, per cui la superficie dell’orma risulta tre o quattro volte più grande di quella media di un uomo. Di qui il nome popolare di “Bigfoot’ (piedone). Secondo la stima di Krantz, per ottenere una tipica impronta di Sasquatch, è necessario un peso totale di almeno trecentoquindici chili. Perciò, un uomo del peso di novanta chili dovrebbe reggere un carico di non meno di duecento venticinque chili per ottenere una buona impronta. (…)
Il 10 giugno del 1982, Paul Freeman, agente della Guardia forestale degli Stati Uniti, mentre era impegnato a seguire le tracce di un branco di alci nel distretto di Walla Walla dello Stato di Washington, notò un bipede peloso alto circa due metri e quaranta in piedi a meno di una sessantina di metri di distanza da lui. Dopo trenta secondi, il grosso animale si era allontanato. Krantz esaminò dei calchi delle impronte della creatura e scoprì rughe del derma, pori sudoriferi e altre caratteristiche nei punti in cui si sarebbero dovuti trovare nel piede di un grosso primate. Particolareggiate caratteristiche della pelle impressa sui fianchi dell’impronta indicavano la presenza di una pianta del piede con cuscinetti flessibili.
Di fronte a un tal numero di testimonianze attendibili, perché quasi tutti gli antropologi e gli zoologi non si fanno sentire a proposito dello Sasquatch? Kratz osserva: “Hanno una gran paura per la loro reputazione e per il loro lavoro. In modo analogo, Napier [John R. Napier, un anatomista inglese giunto alle stesse conclusioni dopo aver studiato parecchi calchi di impronte] fa notare: “Uno dei problemi, forse il più grande, nelle indagini sugli avvistamenti del Sasquatch, è l’atteggiamento di sospetto assunto dai vicini e dai datori di lavoro nei confronti delle persone che sostengono di averne avvistato uno. Ammettere una tale esperienza vuol dire, in talune zone, mettere a rischio la reputazione personale, la posizione sociale e la credibilità professionale”. In particolare parla del “caso di un geologo di una società petrolifera, altamente qualificato, che raccontò la propria storia ma insistette affinché non venisse fatto il suo nome nel timore di vedersi licenziare”. A questo proposito, Roderick Sprague, un antropologo dell’Università dell’Idaho, disse di Krantz: “L’aver voluto investigare apertamente l’ignoto è costato a Krantz il rispetto di molti colleghi e il ritardo nelle promozioni accademiche”.
Ma che ha fatto di speciale, in definitiva, il professor Krantz? Si è trovato davanti un problema di rilevante interesse scientifico; lo ha affrontato, lo ha studiato, ha escluso
l’ipotesi di un falso ed è giunto, inevitabilmente, alla conclusione che, se non è un falso, deve essere autentico: cosa c’è di strano in tutto questo? In teoria, niente: tale dovrebbe essere il modus operandi di qualsiasi scienziato degno di questo nome. In pratica, andare controcorrente equivale ad attirarsi l’ostilità e l’ostracismo dell’intera comunità scientifica. E ciò è tanto più vero, quando si tratta di ritrovamenti, di teorie e di evidenze che mettono in dubbio la vulgata accademica sui temi sensibili dello scientismo oggi imperante come una cappa di piombo. Uno dei nodi sensibili è l’evoluzionismo: chi lo tocca; chi, cioè, esplora delle possibilità alternative alla narrazione ufficiale, secondo la quale l’uomo è una creatura molto recente che discende, attraverso una serie di passaggi, dall’Australopiteco, e prima ancora dal Driopiteco, una scimmia del Miocene, “muore”, ossia viene escluso, ignorato o ridicolizzato. Uno di tali passaggi decisivi sarebbe rappresentato dall’Uomo di Giava(3), rinvenuto in strati del medio Pleistocene, e dunque antico di circa 800.000 anni. Ottocentomila anni possono sembrare molti a un profano, ma in realtà sono un tempo brevissimo su scala geologica: troppo breve, in verità, per spiegare il passaggio dalla scimmia all’uomo. E di fatto, sono numerosissimi i ritrovamenti di reperti paleontologici che attestano la presenza di esseri identici all’uomo attuale in strati rocciosi immensamente più antichi del Pleistocene: antichi di milioni di anni. Quando ancora le idee di Darwin, pur essendo state accettate da gran parte della comunità scientifica, non godevano del supporto di una sicura documentazione fossile di una datazione precisa, tali ritrovamenti venivamo segnalati nelle debite forme dalla comunità accademica; poi, a partire dal ritrovamento dell’Uomo di Giava, semplicemente si è smesso di parlarne. Le ricerche di quel genere sono state scoraggiate; i ritrovamenti sono stati ignorati. Ignorare una scoperta è il mezzo più sicuro per mettere a tacere la voce di quello scienziato e per far sì che ipotesi alternative a quella accettata dalla comunità accademica non trovino alcuno spazio per diffondersi. Perciò, quando gli evoluzionisti “classici” chiedono, con tono di sfida: «Dove sono le prove del fatto che l’uomo è molto più antico di quello che ha stabilito la scienza moderna?», sarebbe facile rispondere: «Le prove giacciono dimenticate in qualche scatolone da imballaggio, in qualche museo di storia naturale di secondaria importanza, in qualche studio privato di ricercatori che sono stati semplicemente ignorati dalla comunità accademica, benché fossero in grado di esibire, ad esempio, impronte di piedi umani, con tanto di cuciture dei loro mocassini, in strati di rocce antichi qualche milione di anni, oppure segni di lavorazione umana su ossa di balena antiche pure esse di milioni di anni».
E così, boriosi professori costruiscono le loro carriere sfornando decine, centinaia e migliaia di studi sui resti dell’uomo primitivo e su quelli degli
“anelli” della catena evolutiva che conducono fino a lui, ma si rifiutano di prendere in considerazione, e perciò di studiare dal vivo, la possibilità che una creatura imparentata con l’uomo, ma chiaramente diversa da lui, si aggiri tuttora, viva e vegeta, nei boschi della nazione più ricca e scientificamente avanzata al mondo, praticamente sotto il loro naso. Ciò accade perché fare quel che ha fatto il professor Krantz, mettersi a studiare il Sasquatch, equivarrebbe a intaccare, sia pure indirettamente, il sacro dogma evoluzionista che ritiene di aver chiarito tutti i passaggi importanti della catena che ha portato dal Driopiteco all’Homo habilis: e nessuno ha voglia di rischiare una simile figuraccia, nessuno è disposto ad ammettere di aver scommesso su un’ipotesi sbagliata, ora che si è costruito una magnifica carriera e che viene ascoltato con grande stima e rispetto dai suoi colleghi scienziati ogni volta che si mette al microfono per tenere una pubblica conferenza. Dimenticar Darwin, come esortava a fare il professor Giuseppe Sermonti, è una faccenda terribilmente complicata: non tanto per ragioni strettamente scientifiche, ma per ragioni di carriera e di prestigio. La triste verità è che la scienza moderna procede su binari prestabiliti e il criterio per decidere quale treno far partire e quale tratta, invece, sopprimere, è di natura squisitamente extra-scientifico: in una società che ha commercializzato tutto, anche la verità scientifica è divenuta una faccenda di business e non più di ricerca disinteressata per ampliare la conoscenza.
Francesco Lamendola
Fonte Accademia Nuova Italia del 4 ottobre 2020
Note:
- (1) Il cristianesimo scientista (Christian Science, letteralmente “Scienza Cristiana”) è un nuovo movimento religioso cristiano metafisico fondato nel 1879 negli Stati Uniti d’America da Mary Baker Eddy (1821-1910). La sua missione dichiarata è quella di ripristinare il cristianesimo primitivo ed il suo elemento perduto di guarigione. La Chiesa Madre di questo movimento, La Prima chiesa del Cristo, Scientista, ha sede a Boston, nel Massachusetts, USA. Sebbene le denominazioni di Scienza Cristiana e Scientology siano somiglianti, le due entità non hanno niente a che fare tra di loro. Solo l’influenza del sistema di Phineas Quimby e del movimento Nuovo Pensiero sulla teologia e gli insegnamenti della Scienza Cristiana rimane oggetto di dibattito; tuttavia Mary Baker Eddy successivamente si allontanò dagli insegnamenti di Phineas Quimby, sostenendo che la guarigione arriva direttamente da Dio e non attraverso la mediazione della mente: la Scienza Cristiana pertanto non si considera parte del movimento Nuovo Pensiero. La dottrina della Chiesa Scientista si basa sull’affermazione presente nella Genesi in cui si dice che Dio fece tutto e tutto quello da Lui fatto viene ritenuto “buono”. Da qui il riconoscimento che l’unica realtà è Dio e la sua creazione è spirituale anziché materiale. Ne consegue che l’uomo, creato a perfetta immagine e somiglianza di Dio, è un essere spirituale e non materiale.
- (2) Grover Sanders Krantz (5 novembre 1931 – 14 febbraio 2002) è stato un antropologo e criptozoologo americano; fu uno dei pochi scienziati non solo a ricercare Bigfoot , ma anche a esprimere la sua convinzione nell’esistenza dell’animale. Durante la sua carriera professionale, Krantz ha scritto più di 60 articoli accademici e 10 libri sull’evoluzione umana, e ha condotto ricerche sul campo in Europa, Cina e Java.
- Al di fuori degli studi formali di Krantz in antropologia e primatologia evolutiva, la sua ricerca criptozoologica su Bigfoot ha attirato pesanti critiche e accuse di ” scienza marginale ” dai suoi colleghi, costandogli borse di ricerca e promozioni, e ritardando la sua permanenza all’università. Inoltre, i suoi articoli sull’argomento furono respinti da riviste accademiche peer-reviewed. Tuttavia, Krantz era tenace nel suo lavoro ed era spesso attratto da argomenti controversi, come i resti dell’Uomo di Kennewick, sostenendo la loro conservazione e studio. È stato descritto come “l’unico scienziato” e “professionista solitario” a considerare seriamente Bigfoot ai suoi tempi, in un campo largamente dominato da naturalisti dilettanti.
- La specialità di Krantz come antropologo includeva tutti gli aspetti dell’evoluzione umana, ma era meglio conosciuto al di fuori del mondo accademico come il primo ricercatore serio a dedicare le sue energie professionali allo studio scientifico di Bigfoot, a partire dal 1963. Perché la sua ricerca criptozoologica fu ignorata dagli scienziati tradizionali, nonostante le sue credenziali accademiche, nel tentativo di trovare un pubblico Krantz ha pubblicato numerosi libri rivolti a lettori occasionali ed è anche apparso frequentemente in documentari televisivi, tra cui Mysterious World di Arthur C. Clarke , In Search of … e Sasquatch: La leggenda incontra la scienza
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(3) Uomo di Giava è il nome dato ai fossili scoperti nel 1891 a Trinil, sulle rive del fiume Begawan Solo, nella provincia di Giava Orientale, nell’isola di Giava in Indonesia. I fossili rappresentano uno dei primi esempi di quello che oggi viene chiamato Homo erectus. I resti furono scoperti da Eugène Dubois, che li classificò con il nome scientifico di Pithecanthropus erectus (dal greco antico πίθηκος (“scimmia”) e ἄνθρωπος (“uomo”).
Libri Citati
- Archeologia proibita. Storia segreta della razza umana
- Michael A. Cremo,Richard L. Thompson
- Traduttore: Maria Grazia Oddera
- Editore: Newton Compton Editori
- Collana: I volti della storia
- Anno edizione: 2020
- In commercio dal: 16 luglio 2020
- Pagine: 352 p., Brossura
- EAN: 9788822742988. Acquista . € 11,40
Descrizione
«L’incredibile resoconto di come le evidenze archeologiche siano state fatte sparire per proteggere il paradigma dominante» – Phillip Johnson, Berkeley University
«Un valido contributo allo studio sull’origine e sulla storia dell’uomo.» – Siegfried Scherer, biologo, Università di Monaco
Le origini dell’uomo moderno sono davvero così recenti? La teoria dell’evoluzione è così scientificamente documentata e inattaccabile? Una recente interpretazione archeologica condotta da due ricercatori dimostrerebbe il contrario. Secondo Michael A. Cremo e Richard L. Thompson, a dispetto delle più consolidate teorie scientifiche, le origini dell’uomo moderno non risalirebbero a 100.000 anni fa, ma a ben tre milioni di anni fa. I siti archeologici che producono tali evidenze, non solo sotto forma di reperti paleontologici, ma anche di manufatti, vengono dettagliatamente descritti e interpretati in questo saggio affascinante e provocatorio. L’intento divulgativo di questo studio non smorza tuttavia i toni di accusa contro il mondo scientifico, che secondo gli autori avrebbe ignorato e occultato le prove più scomode, con l’obiettivo di mantenere saldo lo “status quo” della teoria evolutiva. Ciò che emerge è che con ogni probabilità non è esistita un’evoluzione del genere umano dall’Australopiteco all’Homo Sapiens, ma che al contrario uomini e ominidi hanno da sempre coesistito sulla Terra e che quindi la teoria evoluzionista della vita sul nostro pianeta, su cui si basano le odierne scienze naturali, non hanno alcun fondamento certo.