La fasciosfera è un’abbronzatura ideologica che appena applicata rende subito neri

Fascisti su Marte è un film del 2006 diretto da Corrado Guzzanti e Igor Skofic.

COME COMPORTARSI CON LA FASCIOSFERA


La fasciosfera è un’abbronzatura ideologica che appena applicata rende subito neri. Dopo aver pazientemente ricostruito i frammenti scrotali dei testicoli, frantumati da quel permanente grido di dolore sul fascismo tornante – neo, nazi e putiniano – resta il problema della profilassi: come sopravvivere all’annuncio quotidiano che la colpa di ogni male è del fascismo e di chi ne fa le veci, come ripararsi dall’attacco quotidiano sulla fasciosfera; come comportarsi, soprattutto chi è al governo? Vi prospettiamo brevemente un campionario di ipotesi estreme, o estremamente prudenti. E furbe.

La prima ipotesi è superare in allarme gli allarmisti di professione. Alzare i toni dell’allarme in modo esagerato, asserire che il fascismo è la rovina del mondo, la causa di tutti i mali passati presenti e futuri, anche climatici, e l’antifascismo è la sola salvezza dell’universo. Non attenersi ai comandi impartiti ed eseguire il numero del rimorso come scimmie ammaestrate, ma andare oltre, portarlo agli eccessi; invocare guerre, pestilenze e carcere per chiunque sia in vago odore di fasciosfera. Spiazzare i predicatori quotidiani di fascismo alle porte, accusandoli di essere troppo morbidi, segretamente conniventi con il Male, comunque inefficaci.

 

La seconda ipotesi è opposta, tapparsi le orecchie come Ulisse con le Sirene, far finta di niente, ignorare il grido permanente, lavorare sodo, lasciarsi assorbire interamente dai problemi del giorno. Tutto scivola, anche l’accusa di silenzio-assenso o di mancata condivisione dell’allarme costituzionale. Tirare diritto, con alacre indifferenza, gran pelo sullo stomaco, sordità da statisti all’opera. Visto che ogni ammissione di colpa non è mai sufficiente, tanto vale non concedere più nulla, non parlarne più, cucirsi la bocca, darsi al mutismo istituzionale. Del totem fatene un tabù.

Cercando una via di mezzo tra le due vie estreme, si può tentare una furba mediazione, la volpina terza via. Ovvero, affrontare i problemi di oggi, dedicarsi completamente a questi, ignorare le polemiche e le questioni derivate; ma ogni tanto intercalare il discorso con una frase fuori contesto del tipo: Morte ai fascisti, Viva l’antifascismo, il fascismo fa schifo. E poi riprendere tranquillamente il discorso.

Più difficile anche se esaltante sarebbe la quarta via epica con finale eroico, che poi sarebbe un modo per morire politicamente in piedi, sulla breccia, in piena coerenza ideale. Ovvero la linea che si attesta a difendere le ragioni e le passioni dei vinti, quanti credettero e pagarono di persona, sulla pelle propria e non sulla pelle altrui. E a ricordare accanto ai crimini e misfatti, le opere buone e le grandi realizzazioni, i grandi uomini, il gran consenso di popolo e internazionale. La storia non ammette salti ma continua, nel bene e nel male. Finirebbero subito alla brace i suddetti eroi e martiri, ma sarebbe un finale in bellezza, piuttosto che essere insultati ogni giorno, infine silurati e cacciati dal governo, senza l’onore delle armi, nonostante tutti i salamelecchi effettuati, i colpi incassati in silenzio, gli ossequi tributati, veri o finti che siano.

Giuseppina Ghersi era una bambina di appena 14 anni quando fu picchiata, stuprata e uccisa dai partigiani con l’accusa di essere al servizio del regime fascista. Studentessa delle magistrali di Savona scrisse un tema che fu inviato al Duce ottenendone i complimenti: questa la sua colpa.

Certo, in un paese civile, la via migliore sarebbe un’altra ancora: ragionare, saper distinguere, capire le responsabilità, stimolare alla ricerca storica e alla revisione, studiare e avviare strategie culturali adeguate, paragonare le epoche, i regimi totalitari, i crimini e i consensi; sforzarsi di dire la verità, o perlomeno quella che ci appare tale, nella piena facoltà mentale e in assoluta buona fede. E ricredersi quando è giusto, difendere le idee proprie e altrui quando è sacrosanto farlo, attenersi alla realtà dei fatti, alle certezze della storia e alle evidenze innegabili. Ma per far questo ci vuole un clima adatto, gente onesta, interlocutori ragionevoli e dall’altro versante persone capaci di argomentare e controbattere in modo documentato, avendo letto qualche libro. (1) E invece mancano tutte queste condizioni.

Noi ci abbiamo provato per decenni, ma ora siamo stanchi, non ci va più di farlo, l’età avanza, la situazione si aggrava di anno in anno, non vogliamo più ripeterci invano, la sordità all’analisi è globale, il disprezzo è pregiudiziale; ci sentiamo tristemente soli a farlo. La demenza marcia al passo della malafede, ambedue diffuse, senza efficaci resistenze; e ad aprire le danze sono sempre i Massimi Vertici che è vietato biasimare.

Per questa stanchezza sopraggiunta unita alla frantumazione dei suddetti, alla nausea di vivere nel regno falso dei media che questo articolo è più breve del solito; avremmo da dire tantissimo; ma non lo vogliamo più. Cantami o diva del pelide Achille… Parliamo d’altro, o facciamone la parodia.

La Verità – 14 giugno 2024
La Verità – 7 agosto 2024

 

 

 

 

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Descrizione

«Il sangue dei vinti ha rappresentato la prima presa d’atto collettiva che esistevano una serie di episodi che non erano stati mai portati al vaglio della coscienza nazionale. Pagine di storia oscurata o rimossa.» Sono parole di Ernesto Galli della Loggia, in un colloquio con Luca Telese per la prefazione a questo volume. A vent’anni dalla prima edizione, “Il sangue dei vinti” continua a parlare a tutti gli italiani di memoria negata, della resa dei conti che seguì ai giorni della Liberazione, delle pagine più oscure della Resistenza vittoriosa sui nazifascisti. Lo scriveva lo stesso Pansa nell’avvertenza alla prima edizione: voleva «spalancare una porta rimasta sbarrata per quasi sessant’anni». Un risultato raggiunto, che ha innescato un lungo percorso autoriale, il «ciclo dei vinti» che restituisce dignità alle vittime e agli sconfitti della guerra civile. Un percorso, d’altra parte, che avrà esiti divisivi per la società italiana e che segnerà profondamente lo stesso Pansa, attaccato su più fronti, e molto tenacemente dalla «sua» sinistra, per la scelta «revisionista» di raccontare, senza tabù ma con accortezza storiografica, misfatti, vendette, eccidi, rappresaglie compiute dai partigiani. Un’avventura editoriale che, come scrive Telese, ha fatto di Giampaolo Pansa un «Achab all’inseguimento della balena bianca della guerra civile». E solo la sua morte, nel 2020, «ha schiodato dall’albero maestro il doblone d’oro che Giampaolo aveva piantato, a martellate, esattamente vent’anni prima. Usando come chiodo il libro che oggi avete tra le mani».

 

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