”È molto difficile rendere omaggio ad un romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1934 e oggi riproposto dalla casa editrice Fazi. Questa storia, il primo capitolo di una trilogia, non è un semplice romanzo di intrattenimento, ma tra queste pagine basate sui personaggi e piccoli o grandi avvenimenti, c’è un mondo, un mondo che Margaret Storm Jameson, all’epoca, ha costruito una storia femminista all’avanguardia che oggi è assolutamente attuale.
È il 1918, Hervey Russel si traferisce a Londra, ha solo ventiquattro anni, un figlio piccolo e un marito non molto intenzionato a prendersi delle responsabilità. A Londra ci va da sola, lasciando Richard a chi può curarlo meglio e il marito nell’esercito. Hervey vuole realizzarsi, vorrebbe fare la scrittrice, ha la necessità di migliorare sé stessa e trovare il suo posto all’interno della società. A prima vista potrebbe apparire fredda, le madri pancine direbbero che è snaturata, insomma, ancora oggi in molti criticherebbero le sue scelte. Oggi. E questo libro è stato scritto nei primi anni trenta.
Ebbene, questa storia ci parla di vite, di sogni, di difficoltà, di incontri e di opportunità. L’autrice evidenzia il bisogno di affermazione della protagonista, ma poi ci sottolinea i suoi crucci, le difficoltà che incontra, la mancanza del figlio, il suo porsi spesso delle domande. Per quanto la protagonista sia proprio lei, in queste quattrocento pagine viene data a voce a molti personaggi, ognuno con i suoi problemi e crucci: uomini che ancora non hanno messo la divisa nell’armadio e non sanno nemmeno bene da che parte ricominciare, donne che hanno perso tutto e hanno dovuto prendere delle decisioni.
Ci sono persone che devono ricominciare una vita dopo una guerra, ma soprattutto c’è una donna che all’epoca ha dei desideri molto chiari e lotta per arrivarci. Vuole essere una scrittrice in un mondo di uomini che hanno scarsa considerazione del genere femminile, ma lei lotta, scrive articoli pubblicitari per un uomo che alcune volte è anche suo amico, ma le ha fatto comprendere all’inizio che quel lavoro non lo sa fare. E, imperterrita va avanti, tra dubbi e difficoltà, confrontandosi con alcuni vecchi amici, partecipando a delle feste dove incontrerà persone più o meno influenti.
Con uno stile a tratti tagliente, diretto, ma assolutamente moderno e scorrevole, l’autrice ha espresso il suo pensiero sotto forma di un romanzo e non so se si sarebbe aspettata che dopo quasi novant’anni si parlasse ancora di lei, ma il risultato non cambia: questo accade.
Hervey risulta sicuramente la protagonista di questo romanzo, ma tutti gli altri hanno un ruolo fondamentale e l’autrice utilizza questo primo volume per permetterci di conoscerli a fondo, focalizzandosi su stati d’animo, debolezze e punti di forza.
Non lo so se questo sia un romanzo per tutti, credo di no. Ad esempio non credo che sia appropriato a chi sente il bisogno di leggere per distrarre la mente, oppure a chi ha bisogno di risposte immediate e di arrivare in fretta al dunque.
La trama del romanzo.
Nel 1918, all’indomani dell’armistizio che pone fine alla grande guerra, la giovane Hervey Russell racchiude tutta la sua vita in un baule e dallo Yorkshire si trasferisce a Londra, lasciandosi alle spalle il marito e il figlio piccolo. Non ha denaro né esperienza, ma ha la forza di volontà della nonna imprenditrice e i sogni della gioventù; è forte e vulnerabile al tempo stesso, a muoverla sono la voglia di affermarsi e il desiderio di assicurare al figlio un futuro migliore. Mentre tenta di sfondare come scrittrice, di giorno lavora in un’agenzia pubblicitaria e la sera vaga per le strade della città, sola ma libera, lasciandosi deliziare da ogni particolare. Nemmeno la sofferenza al pensiero del figlio lontano riesce a oscurare l’euforia della novità e la consapevolezza di chi sta facendo la cosa giusta per sé. Hervey è una donna in un mondo di uomini: il capo David Renn, veterano solitario e disilluso; i due amici storici, ex soldati che hanno in mente di dare vita a un nuovo giornale; e poi scrittori presuntuosi, intellettuali salottieri e spregiudicati uomini d’affari. Anche il marito, ogni tanto, torna a fare capolino, mentre l’amante vuole portarla con sé in America. Un meraviglioso affresco dell’ambiente culturale del tempo, con tutto il brio e l’effervescenza del mondo editoriale e pubblicitario londinese, si amalgama a un lucido spaccato della vita quotidiana dell’epoca, segnata dallo spaesamento e dalla frustrazione dei reduci e dei giovani lavoratori. In primo piano, però, ci sono la storia di una giovane protagonista coraggiosa e l’evoluzione delle conquiste femminili che hanno cambiato per sempre la vita delle donne.
Per la prima volta nelle librerie italiane, Company Parade è il capitolo iniziale della trilogia Lo specchio nel buio, opera avvincente e raffinata considerata un manifesto dell’emancipazione femminile.
«Si può non amare questo romanzo meraviglioso? Lasciatevene incantare, lasciatevi assorbire dalla verosimiglianza dei dialoghi, dal rumore dei pensieri, da quello che i personaggi si dicono e soprattutto da quello che non si dicono. Quando sarà finito tornerete alle prime righe della prefazione, in cui l’autrice dice che Company Parade è il primo romanzo di un ciclo, chiamato Lo specchio nel buio. Sarete tanto affamati della sua scrittura, delle sue storie, che quella di leggere altro di suo non vi sembrerà più una semplice dichiarazione, ma una luminosa e immancabile promessa».
dall’introduzione di Nadia Terranova
Come inizia.
Prefazione
di Margaret Storm Jameson
Questo libro è il primo di cinque, o forse sei romanzi che costituiscono un tentativo, inevitabilmente incompleto, di raffigurare la contemporaneità. Il titolo collettivo di questo ciclo narrativo è Lo specchio nel buio, dove lo specchio rappresenta la mente dell’autrice o del lettore, o talvolta solo la mente della giovane donna di nome Hervey Russell, il cui rapporto con l’intera opera è immutato nel tempo, benché lo spazio a lei dedicato vari necessariamente nei diversi volumi. Per creare l’illusione della contemporaneità occorre naturalmente che una molteplicità di personaggi reciti la propria parte, e anche se il numero è stato ridotto alminimo indispensabile (al punto che talvolta un solo personaggio è costretto a fare il lavoro di un’intera moltitudine), l’autrice è stata piuttosto indaffarata; questo primo volume, in cui gran parte dei personaggi deve fare la sua apparizione, foss’anche solo per una volta, si presenta come una “parata”. L’autrice si è adoperata per rendere il più leggero possibile il compito del lettore e gli chiede perdono, in primo luogo per essersi fatta avanti per quella che pare una spiegazione doverosa e, in secondo luogo, per non essere riuscita a raccontare tutto ciò che sa degli uomini e delle donne di questa storia.
Capitolo 1
Dicembre 1918
Una giovane donna arriva a Londra nel mese immediatamente successivo all’armistizio. È inesperta, povera, ambiziosa e sfiduciata. Quella che segue è la sua storia.
La città era affollata, nelle pensioni più economiche non c’era una stanza libera e, a quanto pareva, nemmeno negli alberghi di lusso. Il presidente Wilson era arrivato quello stesso giorno, attirando da tutto il paese persone ansiose di vederlo: il fulgido astro delle loro speranze. La giovane trascorse la prima notte in un ostello per ragazze nei pressi di Victoria Station. La direttrice, una creatura pelle e ossa, sofisticata e senza cuore, si sorprese nel vederla arrivare con il grosso bagaglio di pelle nera che era appartenuto a sua madre: uno di quei bauli-armadio dal profilo superiore arrotondato e chiusi da fibbie. «Non ci sarà bisogno di portarlo in camera», disse la donna con voce graffiante. «Come le ho scritto nella lettera, può fermarsi solo due notti. Perciò lo lasci qui, nel corridoio». La ragazza, già in ansia, dovette acconsentire. Era esausta, ma sulle prime il pensiero del figlio piccolo le impedì di prendere sonno. Aveva lasciato il bambino, che aveva tre anni ed era davvero bellissimo, nello Yorkshire, a una signora specializzata nel prendersi cura dei piccoli. Più rifletteva sulle virtù della donna, più si sentiva sgomenta, e perciò incapace di stare lontana da lui. Cosa avrebbe pensato suo figlio quando, dopo essersi addormentato in una camera sconosciuta che alla luce del sole gli sarebbe apparsa ancora più sconosciuta, avrebbe visto la porta aprirsi e, cercando la madre, si sarebbe ritrovato davanti la signorina Holland?
L’indomani, domenica, cercò alloggio presso un gran numero di affittacamere, ma senza successo. Verso sera, stremata, si imbatté nel casotto azzurro di legno che ospitava la sede temporanea della YWCA in Trafalgar Square e timidamente entrò, aspettandosi che le opere di carità fossero ormai terminate. Invece si sbagliava: le offrirono una sedia e una tazza di tè caldo, e le diedero indicazioni per trovare una stanza. Il giorno dopo la giovane e il suo baule-armadio trovarono alloggio all’hotel Temperance di Bloomsbury; la camera era angusta, fredda e squallida, e il letto uno strumento di tortura. La giovane ne prese possesso la sera del lunedì, il primo giorno che aveva trascorso tentando di comporre slogan pubblicitari. Dopo quella giornata si era convinta di essere un totale fallimento, e ora la stanza risvegliava in lei la nostalgia di casa. Troppo infreddolita e a disagio per addormentarsi, si distese e pensò al figlioletto. A mano a mano che si inumidiva, la stoffa ruvida della federa le graffiava la pelle della guancia.
Era giovane, e tutte le mattine usciva con il sorriso sulle labbra. Anche se non riusciva a passare una serata serena in quella camera orrenda, esplorava Londra in lungo e in largo, godendosi i particolari più insignificanti. Ai suoi occhi la città era un caleidoscopio di colori accesi: il suono dei violini da un caffè, una voce che gridava «Vittoria!», le risate di una coppietta a passeggio, incontri fugaci di cui serbava solo il ricordo di un gesto o di un’occhiata. In un’epoca e in una città di facili scambi, nessuno le rivolgeva la parola. Era sempre sola: tutte le sue amiche erano morte, oppure si trovavano in Francia o in Mesopotamia. Nei primi mesi dopo la guerra, Londra era un cumulo rumoroso di macerie, non un luogo di gioia. Lei era troppo giovane per accorgersene e andava ovunque ci fossero musica e calore a buon mercato, vivendo attraverso i suoi occhi.
La camera d’albergo era così scomoda che non disfece neppure i bagagli e, tre settimane dopo, si trasferì in una stanza a St John’s Wood. Si trovava all’ultimo piano di un palazzo ed era un attico piuttosto ampio; la stanza continuò a sembrarle vuota anche quando ebbe sistemato tutte le sue cose. La terza sera salì le scale alle spalle di una donna di mezz’età. Quella si voltò e le sorrise, poi con tono gioviale le chiese: «Ha impegni? Perché non viene a cena da me?».
La giovane la seguì svogliatamente in una stanza al primo piano. Lo spazio era invaso da candidi tappeti ispidi e sedie piuttosto basse, espressione di un benessere edoardiano di dubbia moralità. Impacciata, si accomodò su una delle sedie e osservò la donna che, in piedi davanti ai fornelli, metteva birra e panini su un vassoio. Già sapeva che non avrebbe bevuto la birra, perciò chiese: «Potrei avere solo i panini?».
«Come preferisce», rispose la donna. Aveva una corporatura abbondante, ma era sorprendentemente rapida nei movimenti. La giovane non riusciva a staccare gli occhi dal suo viso, volgare e tuttavia gradevole, solcato da profonde rughe di felicità. C’era una superba impudenza nel modo in cui la donna sferrava la potenza della sua voce, abbattendola sugli oggetti intorno a sé. Una volta posato il vassoio, iniziò a interrogarla. «Come si chiama?».
«Hervey Russell». Non poteva fare a meno di provare avversione nel rivelare il proprio nome agli sconosciuti.
«Davvero?».
«Sì», rispose Hervey rapidamente, con timidezza. «Ho un marito, ma non uso spesso il mio nome da sposata».
«Che sarebbe?».
«Vane».
«Ah. Be’, signorina Russell o signora Vane, ha per caso letto il mio nome sulla porta?».
«No», ammise Hervey.
«Mai sentito parlare di Delia Hunt? Oh, povera piccola Delia! Sa, l’ho capito subito che era sposata. Da dove viene? Ha tutta l’aria di una provinciale».
Hervey non era offesa dalla curiosità della donna. Rispondere a domande come quelle non rivelava niente di essenziale. Ben presto la signora Delia Hunt scoprì che aveva ventiquattro anni, un figlio di nome Richard e che si guadagnava da vivere (o meglio faceva la fame, dal momento che ancora non aveva realizzato niente di buono) come autrice per la pubblicità.
«Bello», esclamò Delia Hunt. «Ammiro il suo coraggio. Io ho iniziato a guadagnarmi da vivere quando avevo sei anni, e se le raccontassi tutto quello che ho fatto non mi crederebbe. Ah, non mi parli degli orrori della guerra! Nel 1890 ero a Johannesburg e, se la prima linea era tanto mal equipaggiata, be’, tanto peggio per i soldati. Dico sul serio. Avevo un marito ma, fede mia, contro il fuoco di sbarramento si è rivelato completamente inutile. Quando me ne sono andata, l’ho mollato laggiù. Ho fatto l’assistente di volo, la tassista, l’aiuto cuoca per una compagnia itinerante di babbuini, e Dio solo sa che altro. Una volta appresi i fondamentali, non c’è molto altro da imparare».
Hervey si vergognava della propria inesperienza. Non si accorse di essere rimasta a bocca aperta finché la donna, con una grassa risata, non glielo fece notare. Più tardi, nella sua gelida stanza, si sentì euforica e pronta a fare di tutto. Era troppo tardi per uscire perciò si sedette e provò a leggere. Il cuore le batteva forte, come se fosse in una gabbia. Era la stessa euforia che provava da bambina quando il vento imperversava intorno alla casa. Avrebbe voluto correre gridando contro le tenebre agitate dalla burrasca. Ancora non sapeva che la gabbia erano i suoi pensieri e il suo stesso corpo. All’improvviso balzò in piedi e iniziò a picchiettare con le mani sul davanzale.
Capitolo 2
8 gennaio 1919
Hervey
Quando si svegliava al mattino, erano due i momenti in cui si sentiva infelice. Il primo era quando pensava al piccolo Richard che, nell’istante in cui la porta della sua cameretta si apriva, alzava la testa, ma di lei non chiedeva mai. L’avrebbe cercata senza dire niente, e dalla sua espressione nessuno avrebbe capito che sentiva la mancanza della madre. Il secondo era quando, aprendo la porta per recuperare il vassoio della colazione, non trovava lettere ad attenderla. Dopodiché non le restava altro che correre alla finestra per decidere quale dei due cappotti indossare quel giorno. Se trovava una lettera di Penn, suo marito, la leggeva e la rileggeva mentre faceva colazione, delusa dalla laconicità e dalla penuria di informazioni, per poi cancellarla completamente dai suoi pensieri non appena scendeva in strada. Penn era di stanza nel Kent come ufficiale di terra dell’Air Force: la guerra per lui era stata un piacevole tour di magazzini, parchi e aeroporti militari in Inghilterra. Quando Hervey pensava a lui, lo faceva con impazienza e tenerezza, come si pensa a qualcuno che non dovrebbe piacerci, ma a cui non possiamo smettere di voler bene.
In agenzia, Hervey divideva l’ufficio con un redattore d’esperienza, e lei era la sua assistente. In pratica gli era completamente inutile. Non aveva idea di come si scrivesse lo slogan per un nuovo sapone, e lui non sapeva come insegnarglielo. Si chiamava David Renn e nel 1917 aveva avuto la fortuna di riportare ferite quasi mortali senza tuttavia morire, per essere poi congedato dall’esercito; e così si era rimesso al lavoro prima che gli eroi di ritorno dalla guerra fossero assunti in cambio di due spiccioli. Era veloce e affidabile; a vederlo lo si sarebbe potuto definire un soldato modello. Da ragazzino doveva essere stato piuttosto attraente: era magro ma d’ossatura robusta. In effetti, a giudicare dalla struttura ossea del viso e dagli occhi vivaci e profondi, aveva ancora dei bei lineamenti.
Quel mattino, quando Hervey arrivò in ufficio, Renn le consegnò otto fogli battuti a macchina sul processo di saldatura ad arco elettrico e le disse di riassumere il testo in duecento parole. Voltandosi, le disse: «Non credo che tu ne sia capace, ma almeno provaci».
Invece Hervey si dimostrò più che all’altezza del compito. Quando gli consegnò il lavoro finito, Renn si stava stringendo la gamba dolorante. Diede una scorsa al testo, annuì e disse: «Ora prova a buttare giù sei parole sul nuovo sapone Charel, da abbinare alle immagini. Prendi i miei testi e leggili attentamente». Parlò con pacatezza, nello sforzo di apparire calmo. Una goccia di sudore gli scese dalla tempia fino allo zigomo.
«Che genere di parole?», domandò Hervey.
«Buon Dio, ma non sai proprio niente! Rifletti. Hai mai passeggiato per Oxford Street di pomeriggio e visto in che condizioni vanno in giro le donne? Unte come sorci. Non hanno un pensiero pulito da quando sono nate, leggono il “Daily Post” come se fosse il Vangelo e ricevono la loro prima e ultima lezione di vita dalle riviste femminili e dal cinema. Scrivi una frase di sei parole per far credere a ciascuna di quelle donne che il sapone cremoso alla mandorla Charel le salverà. Non deve essere un grido, ma un sussurro all’orecchio. Vuoi essere più bella delle altre? Vuoi apparire giovane? Come, come? Chi te l’ha detto? Vieni più vicina, ora te lo dico. Sapone cremoso alla mandorla».
«La gamba le fa tanto male?», chiese Hervey.
«Che stai cercando di fare? Vendermi un unguento?», ridacchiò Renn.
Hervey tornò alla scrivania e lesse otto diverse descrizioni del sapone. Le sei parole non si palesarono. Compose qualche breve frase di getto e la strappò per la disperazione. La sua mente era come paralizzata: più cercava di concentrarsi, più si sentiva stupida. Sto solo perdendo tempo e sono una buona a nulla, pensò. Era così arrabbiata e a disagio che neppure rispose quando Renn la interpellò.
Nel pomeriggio il direttore dell’agenzia, il signor Shaw-Thomas, mandò a chiamare lei e Renn. Voleva discutere con loro degli indici di vendita della Charel, ma prima chiese a Hervey come stesse andando. «A rilento», rispose lei secca. «Non sono capace di scrivere uno slogan». Non mostrava alcun rispetto per l’autorità e il signor Shaw-Thomas non si disturbava a rimetterla al suo posto.
La guardò come divertito. Hervey sedeva sullo scrimolo della sedia, come una scolaretta nervosa, l’espressione furibonda e imbronciata, probabilmente infastidita dall’essere oggetto di scherno. La sua cocciutaggine era toccante.
«Non sta affrontando il lavoro come dovrebbe», le disse con il suo solito sorriso mefistofelico. Quando il signor Shaw-Thomas voleva mettere una pulce nell’orecchio a qualcuno, posava la mano sulla scrivania e sorrideva, sfoderando piccoli denti appuntiti. E le sue parole si conficcavano in testa, come una strana falena infilzata su una bacheca. «So che lei sa scrivere, ma scrivere per la pubblicità è un’arte raffinata. O meglio, dovrebbe esserlo. A dire il vero alla pubblicità manca uno Shakespeare. Il posto è vacante, se le interessa, signorina Russell. E il settore è… se mi concede la franchezza… prolifico. Quanti romanzieri o poeti riescono a farsi leggere da ricchi, poveri, nobili, ignoranti, famosi, colti, felici, tristi, volgari, superbi, rassegnati? Tenga a mente che le persone possono scegliere quale libro leggere, mentre il suo compito è indurle con l’inganno a leggere la pubblicità. E riuscirà a farlo solo quando crederà in ciò che scrive. Deve essere convinta con tutta se stessa che l’olio da barba alla mandorla Charel è l’olio più puro al mondo prima di mettersi a scrivere una sola parola. Se casualmente lei venisse a sapere che contiene del comunissimo olio di cotone, deve mettere in atto quella che i filosofi definiscono “sospensione dell’incredulità”. Così facendo lei disporrà della sincerità necessaria a scrivere bene. La grande pubblicità è espressione di profonda sincerità emotiva. Il rischio che corre una giovane donna preparata come lei è di impiegare solo l’intelligenza o il cinismo. Lo eviti a ogni costo». La osservò un momento e aggiunse: «Sono incompatibili con la vera emozione». Le rivolse un cenno della testa. «E ora mi auguro di aver fugato ogni dubbio riguardo alle sue capacità, signorina Russell. Sono sicuro che presto mi darà ragione».
«Ce la metterò tutta», rispose Hervey.
«Quando uscirà il suo libro?», le domandò il signor Shaw-Thomas sorridendole.
Dopo un istante di silenzio, Hervey rispose: «Non prima di maggio».
«Non mi aveva detto che aveva scritto un romanzo».
Lei non replicò.
«Un grande scrittore non è per forza un grande pubblicitario», aggiunse poi il signor Shaw-Thomas con affabilità. «Ricordi che per fare carriera nella nostra professione non basta avere talento. Bisogna essere disposti a darsi anima e corpo. Scrittori! A H.G. Wells non darei nemmeno due sterline a settimana prima di averlo addestrato al mestiere. E probabilmente è troppo vecchio per imparare alcunché. Secondo lei, Renn, la signorina Russell sta imparando?».
«Imparerà», rispose Renn.
Hervey ascoltava attentamente. Desiderava sentirsi elogiata per i suoi slogan di saponi e di biscotti per la colazione. Allo stesso tempo, una terribile e monotona malinconia la rendeva sempre più disamorata. Era colpita e al contempo scettica e, non del tutto consapevolmente, disgustata.
Quando tornarono in ufficio, Renn le disse sommessamente: «Devi accettare tutto questo per andare avanti e, allo stesso tempo, respingerlo».Hervey lo guardò fisso. «Come posso fare entrambe le cose?».
«Non puoi. O racconti bugie a te stessa o decidi di non farlo. Forse sei davvero lo Shakespeare della pubblicità. Un giorno ti commuoverai per un nuovo purgante e scriverai il tuo Re Lear per convincere le persone a comprarlo. Ora ti leggo uno slogan di prim’ordine per una rivista specialistica. Senti qua. “A Natale, il nostro crocifisso luminoso è un regalo straordinario. In questo periodo dell’anno i nostri agenti sono sommersi dagli ordini”. Se puoi alludere al desiderio sessuale femminile per vendere una crema di bellezza, perché non fare appello a un’altra emozione per vendere un crocifisso? Busso alla tua porta per offrirti un crocifisso luminoso». Fece una smorfia. «La risposta è che un buon affare non è sempre un buon affare, a meno che tu non soddisfi la ditta per cui lavori. Se non riesci a vendere un crocifisso luminoso a una donna perbene, allora puoi venderle qualcos’altro con la stessa facilità, e prenderti i suoi soldi».
Hervey aveva dimenticato di ascoltare, tutta presa com’era dall’aspetto di Renn. Il suo interesse non era quello di una giovane donna, ma proveniva da un angolo recondito della sua mente che traeva lo stesso puro e quasi inconsapevole piacere dalle lisce distese e dalle pieghe di un volto maschile, dall’infrangersi di un’onda, dalla città di Londra quando il cielo terso conferiva un’aura delicata e indistinta ai suoi edifici, dal passo rapido di qualche donnone trasandato, da una collina, dalla curva di una strada illuminata di notte. Se l’avessero privata di tutti gli altri sensi lasciandole soltanto la vista, ne sarebbe stata felice. E perché no? Ascoltava sbadatamente quello che le si diceva e non le piaceva parlare, ma i suoi occhi non ne avevano mai abbastanza e Hervey viveva attraverso di essi.
Quando Renn tacque, lei non aveva niente da dire e si finse impegnata nel lavoro. Dovrei ascoltare di più e guardare di meno, pensò. Il resto del pomeriggio trascorse nella frustrazione degli infruttuosi tentativi di scrivere quelle sei parole. Quando se ne andò, era troppo tormentata e inquieta per rincasare subito.
Aveva uno scellino per comprarsi la cena e sapeva dove spenderlo. Camminò producendo movimenti scomposti, come se non sapesse o non le importasse di cosa facevano le sue gambe e le sue braccia. Avrebbe quasi voluto che qualcuno le rivolgesse la parola, ma nell’istante in cui scorgeva – o pensava di scorgere – l’accenno di un sorriso sul viso più vicino, si faceva cupa e silenziosa.
Nella fretta, e nel suo intimo raccoglimento, per poco non finì sotto le ruote di un taxi. L’autista le gridò qualcosa. Lei neppure si voltò. A testa bassa, per nascondere l’espressione imbarazzata, allungò il passo sul marciapiede schivando, come fossero alberi, le persone, sommerse come lei dalla luce dei lampioni. Sopra le luci, dilagava l’oscurità.
Dopo il gelo e la corsa, la Corner House si richiuse intorno a lei, familiare e accogliente. Lì nessuno la conosceva. Poteva aprire il suo libro e tenere gli occhi fissi sulla pagina, muovendosi soltanto quando la cameriera le servì caffè e focaccette. Non si mise a leggere. Rivisse mentalmente la giornata appena trascorsa con una furia nervosa. Non ci riesco, pensò, non riesco a scrivere quelle sei parole. Ho fallito, sono inutile, incapace; è per questo che ho abbandonato Richard. Per restare seduta tutto il giorno in quell’ufficio a pensare come vendere del sapone e per venire qui ogni sera senza aver combinato nulla, senza sapere nulla, felice e triste allo stesso tempo, un’idiota qualsiasi sarebbe senza dubbio più brava di me. Il desiderio di rivedere e abbracciare suo figlio ebbe la meglio su di lei. Fu sul punto di piangere e finse di bere il caffè portandosi la tazza alla bocca, ma aveva un nodo alla gola.
Sapeva che non sarebbe tornata indietro, anche senza doverci riflettere. Era troppo insoddisfatta, posseduta dal demone dell’energia e dell’ambizione. Di fronte alla vaga prospettiva di una rinuncia, subito pensò che non poteva tornare nello Yorkshire, vivere nel completo anonimato. Doveva pur avere qualcosa da dimostrare al mondo.
Meglio essere povera, pensò rivolgendo i suoi pensieri al padre di Richard. Erano due settimane che Penn non le scriveva. Hervey non era in ansia e non le importava molto, ma avrebbe voluto che il marito si decidesse a lasciare l’Air Force e che si trovasse un lavoro. La sua noncuranza la mandava su tutte le furie. Se lui avesse avuto un impiego, avrebbero potuto vivere in maniera decente e tenere Richard con loro. Non gli sto mica chiedendo la luna, pensò con rabbia crescente.
La sua mente si ripiegò su se stessa e le apparve un Penn più giovane, seduto davanti a una Hervey altrettanto giovane e spensierata. D’un tratto capì che, sebbene da allora Penn non l’avesse che delusa, trascurata e offesa per una miriade di ragioni differenti, lei si sentiva ancora legata a lui. Il nerbo che li teneva uniti era ancora vivo quando lei lo toccava. Se avesse alzato lo sguardo e avesse visto Penn attraversare la sala gremita verso di lei, avrebbe provato il consueto sollievo assieme a un rimescolio nelle vene. Non mi sbarazzerò mai di lui, pensò, a meno che non mi lasci perché si è stancato di me; solo in quel caso sarei libera.
Non voglio vivere così, pensò, tra sorprese e paure. Per la prima volta osservò le persone intorno. La luce aspra, il calore e la musica avviluppavano gli avventori, che tuttavia non mostravano né interesse né stupore. Entravano nella sala, restavano incollati per un po’ a uno dei tavoli e poi se ne andavano, in strade o stanze che sfuggivano alla sua immaginazione; più di un milione di persone che calpestavano la terra, che sradicavano erba e alberi, uccidendo le radici di altri esseri viventi per la propria sopravvivenza. Pensò: Ho lasciato il posto dove la mia gente abita da secoli per venire qui. Sono stata una pazza.
Quindi vide che la cameriera la stava fissando e capì di essersi trattenuta troppo a lungo. Seduto al tavolo vicino c’era un soldato nell’uniforme kaki con le bandoliere di cuoio. Sorseggiava caffè, gli occhi che spuntavano da dietro il bordo della tazza trasmettevano incertezza. Sembrava non sapere cosa fare, proprio come lei. In fondo ai suoi occhi c’erano strade che portavano alle trincee, i rumori e le immagini di quella vita che l’uomo non sapeva come conciliare con il futuro che lo attendeva. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, l’uniforme lisa gli conferiva un aspetto tra l’innocente e l’impacciato. Era giovane, proprio come Hervey. L’uomo si accorse che lei lo stava fissando e per un momento la squadrò con tranquillità. Hervey balzò in piedi e, superandolo, uscì.
Tornata nella sua stanza, estrasse il manoscritto del suo secondo romanzo, ma era troppo stanca e irrequieta per scrivere. Di proposito, si mise a pensare all’americano di cui purtroppo si era innamorata durante la guerra. Pensava fosse stata una disgrazia. Lo amava ancora, e ancora imitava il suo modo di pensare e di agire senza saperlo, e ancora era determinata a non cedergli. Non gli si sarebbe mai concessa, consapevole al di là di ogni senso che non era sicuro. E per “sicuro” intendeva quello che intendevano tutte le donne della sua famiglia da cinque secoli a quella parte. Quando si sentiva sgomenta e inquieta, come le stava succedendo ora, ripensava a lui e allora era come se fosse nella stanza, con quel suo incedere baldanzoso e il suo sorriso. Immaginarlo accanto le infondeva una felicità e un piacere inesprimibili. Non sarebbe mai accaduto nella realtà giacché quando erano insieme Hervey doveva tenere alta la guardia per difendersi da lui. Era un istinto al quale non aveva mai attribuito una spiegazione. Derivava dalla disciplina che aveva ricevuto da piccola e, oltre a quella, dalla fierezza ancestrale arida e ostinata che aveva ereditato e a cui non intendeva rinunciare.
Si spogliò e iniziò a spazzolarsi i capelli. Sfioravano il bracciolo della sedia, fulvi e molto sottili. Dovrei tagliarli, pensò. Non appena si coricò le tornò in mente che Richard si divertiva a toglierle le forcine mentre lei faceva finta di dormire. Lui cercava di non ridere mentre le scioglieva le trecce con le piccole dita, calde e maldestre. Quando alla fine le trecce ricadevano, lei apriva gli occhi e sussultava. Le risate illuminavano il viso e gli occhi vivaci di Richard. Si propagavano in tutto il suo corpicino paffuto.
Affondò il viso nel cuscino. Non voglio pensarci. Ora devo dormire, lui sta dormendo ha perso il conto dei giorni da quando sono partita non ricorderà nulla oh il mio piccino il mio amore.
Renn
David Renn uscì dall’ufficio alle sette, un’ora dopo la sua giovane assistente. Pensò a lei mentre si preparava ad andarsene e raccolse da terra il foglio su cui la ragazza aveva appuntato qualche breve frase sul sapone. Erano tutte inservibili. Sorrise, strappò il foglio e scendendo le scale smise di pensare a lei.
La strada era deserta a eccezione di un carretto parcheggiato davanti al fruttivendolo, il cavallo e il postiglione immobili nella stessa postura di passiva sopportazione. Attraversando la strada, Renn pensò di riconoscere nell’uomo uno dei suoi carristi in Francia, ma avvicinandosi si accorse che la postura doveva averlo ingannato. Tirò lungo, a passo veloce, chiedendosi se tornare subito a casa o cercare compagnia per la serata. Alla fine si diresse verso l’ufficio postale e telefonò all’amico Earlham. Gli rispose la moglie e, mezz’ora dopo, Renn si presentò alla porta del loro squallido appartamento in Euston Road.
Rachel Earlham era un’ebrea timida e minuta di diciannove anni, dagli occhi scuri e le maniere impeccabili da ragazza ben educata. Lei e il marito erano socialisti, poverissimi, appassionati. Louis Earlham voleva presentarsi come candidato laburista per la circoscrizione di Londra Nord. Intanto guadagnava qualche soldo come giornalista. Vivevano come uccellini di quello che trovavano. Sul tavolo c’erano dei panini e due bottiglie di birra, ma Renn si era portato da mangiare. Mangiò uno dei panini solo per fare piacere a Rachel.
Nell’appartamento c’erano appena due sedie, il tavolo e il letto, sistemato in modo che sembrasse un divano. Era poco più grande di un sofà e, non fossero stati così giovani e magri, uno dei due sarebbe certamente caduto al muoversi dell’altro. La seconda stanza dell’appartamento ospitava lo “studiolo” di Louis: a malapena conteneva la scrivania e la sedia, oltre alle due biciclette.
Earlham prese a parlare del giornale per cui lavorava, una testata radicale, indipendente e molto popolare per le sue inchieste sugli scandali pubblici. Il giornale cavalcava l’onda finché l’interesse non scemava o il bersaglio dell’inchiesta non comprava il silenzio. Earlham era furibondo perché era stato inviato a indagare sulle accuse di sfruttamento a carico di una fabbrica di biciclette e le condizioni erano molto, molto più gravi di quanto si aspettasse: aveva scritto l’articolo, ma all’ultimo minuto era stato espunto. La ditta aveva prenotato una serie di inserzioni a piena pagina.
«Lo so», disse Renn. «Sono io che devo predisporre il piano pubblicitario. Sono nostri clienti».
«Allora», esclamò l’amico, «perché non scrivi di una ragazzina pelle e ossa di quindici anni costretta a saltare come un gatto tra i macchinari, sudata e tutta coperta di polvere?».
Renn gli rivolse un sorriso garbato e algido. «Al contrario. Descriverò biciclette ideali costruite in una fabbrica ideale».
«Sei proprio un mascalzone», commentò Rachel arrossendo.
Renn le rivolse un’occhiata tra l’affettuoso e l’ironico. «Voi ingenui», disse, «credete che, quando il vostro partito salirà al potere, non ci saranno più ragazzine pelle e ossa sfruttate nelle fabbriche? Niente di più assurdo! Il sistema ne ha bisogno».
«E allora cambieremo il sistema».
«In modo pacifico?».
«Ovviamente».
Renn scoppiò a ridere. Stava sbucciando una mela. La pelava lentamente per non rompere la buccia e avvolgeva la lucida spirale intorno al collo di Habbakuk, il gatto di Rachel. Offeso dalle loro risate, Habbakuk scappò dalla finestra per salire sul tetto della casa accanto. Dietro di lui un Sahara di tetti scintillava al chiaro di luna. Balzò estendendo tutto il suo corpo e con un fremito scomparve nell’oscurità.
Rachel si voltò verso Renn per rimproverarlo, ma il sorriso dell’uomo la lasciò interdetta. Gli restituì un sorriso timido e felice, e si accinse a preparare il tè. La voce del marito, stentorea e accalorata, riempiva la stanza e faceva fremere il suo esile corpo per l’emozione. Pensò al piccolo neo sul suo braccio, al modo in cui sollevava la tazza per bere, guardandola, e a quando gli dormiva accanto nell’angusto letto cigolante. Il cuore le batteva forte per la felicità. Quando servì il tè, trovò Renn rilassato sulla sedia con aria compiaciuta.
«Ora ho capito cosa ti manca», esordì Rachel, «e perché ci guardi dall’alto in basso e ridi di noi. Dovresti trovarti una moglie».
«E chi accetterebbe di sposarmi?», replicò Renn. «Quando mi fa male la gamba divento intrattabile… e poi non credo nel matrimonio. Se mai trovassi una donna che non si crede in diritto di mettermi in croce per qualsiasi sciocchezza, potrei anche pensare di sistemarmi. Ma le donne sono possessive in maniera insopportabile». Parlò con un tale garbo che Rachel non si sentì offesa. Ciononostante era contenta che Louis avesse altre idee riguardo all’amore.
Renn tornò a casa percorrendo strade quasi deserte. Era molto stanco e nella sua mente si affollavano le visioni dell’amico e di Rachel che, presi l’uno dall’altra com’erano, vivevano in quella stanzetta angusta escludendo tutto e tutti. Io e Habbakuk siamo all’addiaccio, pensò divertito, ma io non arriverei lontano saltellando sui tetti con la gamba che mi ritrovo.
La padrona di casa aveva spento la lampada a gas sulle scale e Renn non aveva fiammiferi con sé. Salì tentoni fino al secondo piano, aprì la porta e tastò dappertutto in cerca della scatola che ricordava di aver lasciato sulla credenza. Finalmente la trovò. Sul tavolo c’erano un pacco e una lettera, entrambi di sua madre. Prima aprì la lettera.
«Mio caro figliolo, ti mando una torta e qualche mela dal secondo albero. Sono avvizzite ma dolci. Sono certa che non mangi abbastanza. A volte vorrei che smettessi di inseguire il successo e tornassi a casa. Non c’è qualcosa che potresti fare qui a Hitchin? Mi manchi moltissimo. È come se fossi di nuovo a scuola, ma a quei tempi almeno tornavi per le vacanze. A ogni modo, tu sai cos’è meglio per te, caro figliolo. Sei forse innamorato? La tua mamma affezionata, Kathy Renn».
Aprì il pacco e ripose la torta e le mele nella dispensa. Poi si spogliò rapidamente e lanciò un’occhiata alle cicatrici profonde sulla gamba. Per l’ennesima volta, le linee che si incrociavano e si univano all’interno della coscia, dal ginocchio all’inguine, gli fecero pensare a un raccordo ferroviario. Si distese, chiuse gli occhi e vide il cortile della casa di sua madre, il secondo melo nell’angolo. Sorridendo appena, si appisolò, infine sprofondò nel sonno.
Habbakuk si strusciò a un comignolo e avanzò arrogante lungo una stretta cimasa. Il piacere dell’altezza e della solitudine faceva splendere i suoi occhi nell’oscurità.
Delia
Delia attraversò Piccadilly Circus con l’insolenza dell’abitudine. Il freddo le pungeva la faccia, ma il suo corpo avvolto nella pelliccia era caldo e rilassato. Giunta al capo opposto, si soffermò per guardare l’orologio prima di dirigersi al Monico per cena. Le sette. La sala era quasi vuota. Si sedette protendendosi in avanti sulle grasse cosce pallide, la carne flaccida e ancora vigorosa contenuta e modellata dagli indumenti. Un tempo era stata così magra che la sua carne, praticamente un velo sulle ossa, non aveva bisogno di sostegni, ma la vecchia Delia era ormai sommersa da così tanti strati da essere tagliata fuori dal mondo, da manifestarsi solo di rado in un sorriso o un gesto che nessuno comunque riconosceva.
Ordinò ostriche e birra scura, e si rifocillò con inconfessato piacere. Si arrovellava per trovare la soluzione al suo problema entro lo scoccare della mezzanotte. Mentre il cameriere, una vecchia conoscenza, portava via i piatti e ne serviva altri, Delia estrasse la lettera dalla borsa e gli disse:
«Ricordi quando sono venuta qui con Tim?».
Colto alla sprovvista, l’uomo esitò. «Tuo marito? È passato tanto tempo. Lasciami pensare…».
«Era il 1889», disse lei recisamente. «Lo stesso anno in cui sono partita con lui per il Sudafrica. Diciannove anni. Ecco quanti anni avevo… diciannove».
«Avevo appena iniziato a lavorare qui». Un mondo apparve nella mente dell’uomo, sgretolato e svanito dietro il sipario che la guerra aveva fatto calare. Per un istante ebbe un capogiro, ma si riprese, sentendo i piatti sporchi tra le sue mani. «Strano. A quel tempo le luci della sala non erano così forti».
«L’ho piantato laggiù nel ’92 e me ne sono tornata a casa. Avevo le mie buone ragioni. E ora mi scrive. È arrivata stamattina, anche se la sua calligrafia è cambiata, e mi chiede di riprendermelo. Chissà dov’è stato. Tu che faresti?».
Il cameriere si strinse nelle spalle. «Qui non l’ho visto», disse. «Quando tornano dopo tanto tempo, li credi fantasmi… o sogni».
«Ho quarantanove anni. Se non mi trovo un uomo con la testa sulle spalle, come si suol dire, preferisco restare sola».
«Dici bene».
«Comunque», proseguì Delia alzando la voce, «le luci non erano così forti. Questa città è cambiata in peggio. Volgare, la definirei».
Il cameriere ricordò con piacere le storie che aveva sentito raccontare su quella donna. A quanto pareva, nemmeno nella Johannesburg di fine Ottocento si poteva andare lontano senza scandalizzare la comunità. Delia ha un concetto molto personale di ciò che è volgare, pensò. Si scoprì a provare una spiccata simpatia per lei.
Delia rilesse le poche righe della lettera. Fece saettare i suoi occhi allegri e spavaldi nella sala. Tutto è cambiato. E anch’io. Un brivido percorse il suo corpo. Eri giovane, facevi come ti pareva, ti divertivi, e da un giorno all’altro sentivi dove cominciava e finiva la tua carne, come si suol dire. Ripensò senza rimpianti alla sua vita: non era ancora finita. Il ricordo del marito suscitava in lei forti emozioni. Era violento e la picchiava quando riteneva che si fosse comportata male; ma che sarà stato mai, si disse rassegnata, sono stata trattata anche peggio. Ricordo che una notte scappai da lui all’accampamento – e le otto successive – ricordo i rumori, la calura, e la soddisfazione.
Un sorriso, al contempo sgangherato e divertito, si disegnò sul suo volto. Finì velocemente la costoletta, abbassò il vestito che continuava a salire e se ne andò. Per strada osservò con interesse una giovane donna molto avvenente che intratteneva un ufficiale canadese. Aveva una bella faccia allegra, capelli neri tagliati corti sulla fronte e le labbra tinte. Delia aveva maturato la netta convinzione che le nuove leve non avessero la tempra delle vecchie. Vide che la giovane stava recitando una parte e non si beava, con l’ardore quasi brutale che aveva lei alla sua età, dei meandri che aveva preso la sua vita. Senza riflettere, avvertì il sapore pungente del passato dissolversi nel presente, lasciandolo impoverito e incerto. Lo spettacolo sta per finire, pensò tristemente, poi con la consueta baldanza: ma durerà quanto basta.
Un filo di vento la sorprese mentre percorreva Regent Street a petto in fuori. Per ammazzare il tempo fino alla mezzanotte, entrò in un cinema. Dopo il gelo, l’aria surriscaldata le mise sonno. I rami di un albero, che ondeggiavano con la lentezza di un ruscello, riempivano lo schermo. Senza volerlo le tornò in mente il grande albero che ammirava da bambina. In primavera i suoi rami si abbassavano formando come dei gradoni verdi; non riusciva a guardarli senza che, nel suo corpicino denutrito, non nascesse un turbamento. L’albero svanì e al suo posto apparve una stanza, un salottino di fine Ottocento. Era deserto; poi la porta si aprì ed entrò una giovane donna. Delia fu colta da un’emozione potente, misteriosa. Tremando appena, mormorò tra sé: «Ora accenderà la lampada». Al levarsi della fiamma, Delia si figurò una sorgente azzurra effondere raggi dorati. Nella sua mente si susseguirono in rapida successione immagini del passato, e le parve che la giovinezza con i suoi indecenti ardori vitali si fosse sprigionata al pensiero di una stanza illuminata a gas; era sempre la stessa stanza, a Brixton come a Johannesburg.
La musica che accompagnava il film era incalzante e chiassosa, e d’un tratto le venne voglia di ballare. Il suo corpo, investito da un’ondata di calore, si contrasse per la smania. Si sentiva di avere una forza d’acciaio. Nessuno l’aveva mai sopraffatta e a lei non era mai importato di cosa si dicesse sul suo concetto di piacere. All’improvviso provò disprezzo per il marito (riusciva a immaginarlo solo da giovane) e allo stesso tempo, con un lieve brivido di piacere, pensò che gli avrebbe concesso di passare la notte con lei, se così avesse stabilito. Faccio come mi pare, pensò. D’un tratto le parve di aver avuto una vita straordinaria. Si sentì audace e vittoriosa, e iniziò a rievocare i giorni e le notti in cui aveva vissuto nella più sfacciata felicità. All’improvviso – aveva dimenticato dove si trovava – si accorse che il film era finito e che era tempo di andare.
Regent Street era rumorosa e affollata come di giorno; mancava solo il cielo, poiché la luce saliva dal basso.
Mentre tutto il resto di Londra dormiva beato, il quartiere continuava a vibrare di vita. Miglia di periferie buie e di strade deserte si diramavano da quell’unico nervo vitale. A sua volta il fiume restava pulsante di vita, ma le attività fluviali procedevano con troppo poco rumore perché Delia si sentisse a casa. Diceva sempre che avrebbe potuto trovare la strada dallo Strand a Shaftesbury Avenue anche bendata lasciandosi guidare dai suoni e dagli odori. Ma quella sera, per la prima volta, notò una differenza tra quella Londra e la Londra del 1913. Non solo perché c’erano più veicoli a motore in strada o per i manifesti appesi di recente con la scritta «FACCIAMO PAGARE LA GERMANIA» o per la presenza ormai ubiqua delle sale da ballo, quanto per gli abitanti stessi, che tanto per cominciare erano più numerosi, le donne soprattutto, e avevano più l’aria di spettatori che di individui pronti a far festa. Un vago disagio balenò nella sua mente. Svanì quasi subito, mentre avanzava con sicurezza tra la gente con il suo fardello di ricordi e di desideri verso la cabina telefonica nella stazione della metropolitana di Piccadilly Circus. Il buonumore le metteva voglia di compiacere qualcuno e si soffermò a lasciare mezzo scellino a un vecchio fiammiferaio che da tempo la gracilità aveva costretto a mendicare.
Delia raggiunse Piccadilly Circus nell’istante in cui Rachel Earlham, nel letto angusto, si voltava verso il marito traendo un sospiro di infinito sollievo e Hervey, quasi addormentata, staccava la guancia dalla parte del cuscino che le lacrime avevano reso troppo ruvida. Venti minuti a mezzanotte. Per un istante ancora, Delia rimase a guardare le persone che camminavano frettolosamente nella sua stessa direzione e superavano la cabina telefonica, arricchendo di un altro filo il tessuto variopinto di Londra, un tessuto robusto e tuttavia più fragile degli alberi che crescevano in mezzo alle case e che un giorno sarebbero stati abbattuti. La sua mente percorse quel tessuto avanti e indietro nel tempo, con la stessa elasticità con cui le sue dita si stringevano intorno alla cornetta. Non appena toccò il telefono, il presente la investì con tutta la sua potenza.
Capitolo 3
Aprile
Una conversazione insoddisfacente
Hervey Russell era a Londra da tre mesi e in quel lasso di tempo non aveva mai visto suo marito. Una sera stava per mettersi il cappotto e tornare a casa quando il portinaio, un ex sergente ombroso di nome Jaffers, salì per informarla che un certo tenente Vane chiedeva di lei. Jaffers le parlò sorridendo maliziosamente.
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L’autrice
Margaret Storm Jameson nata in una famiglia di costruttori navali, è stata una giornalista e scrittrice inglese. Nel 1919, a Londra, lavorò per un anno come copywriter per una grande agenzia pubblicitaria. Tra il 1923 e il 1925 fu la rappresentante in Inghilterra dell’editore americano Alfred A. Knopf. Suffragetta e femminista, nel 1939 è diventata la prima donna presidente dell’English PEN. Liberale e antinazista, nel 1952 firmò l’introduzione all’edizione inglese del Diario di Anna Frank. Nello stesso anno venne inoltre insignita del ruolo di delegata dell’UNESCO Congress of the Arts. Autrice molto prolifica, ci ha lasciato romanzi, racconti, saggi letterari e critici e un’autobiografia in due volumi.
- Company Parade
- Margaret Storm Jameson
- Traduttore: Velia Februari
- Editore: Fazi
- Formato: EPUB
- Testo in italiano
- Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
- Dimensioni: 836,6 KB
- Pagine della versione a stampa: 403 p.
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