”Con Confidenza ci vuole portare oltre il triangolo amoroso, oltre il tempo dolente di un amore finito. Starnone illumina, non perché dica cose nuove ma perché riesce a raccontarle a prescindere dalla loro complessità in una storia tremendamente vicina alla realtà.
Confidenza è il racconto di come cambia la tua vita se affidi a qualcuno un tuo segreto.
È la descrizione della costruzione di un’identità, quella di Pietro Vella, basata su ciò che gli altri pensano o vedono e allo stesso tempo su ciò che si aspettano da te. E Pietro non vuole deludere nessuno.
La storia si divide in tre racconti.
Il primo spetta al protagonista: Pietro Vella è un insegnante di un liceo di periferia, figlio di un padre elettricista che in lui ha riposto le rivincite che non è stato in grado di prendersi da solo.
Avevo sempre avuto una spinta alla perfezione e questo probabilmente era il motivo per cui non mi ero mai piaciuto. Volevo essere ineccepibile, ma poiché c’era in ogni occasione qualcuno che individuava buone ragioni per eccepire, ero cresciuto insoddisfatto di me e nel timore di una qualche nota di biasimo.
Il secondo racconto è affidato alla figlia Emma mentre il terzo spetta a Teresa Quadrato, l’alunna di cui Pietro si è invaghito e della quale non si è mai forse liberato.
Teresa, che era alta e, sebbene magra, grande in tutto, le spalle, i fianchi, i seni; che disprezzava le convenzioni e si esprimeva sempre con franchezza; che mal tollerava non solo i torti che facevano a lei ma soprattutto quelli che facevano agli altri; che considerava il sesso una sfrenata manifestazione di buonumore, altre erano le cose importanti.
Tra i due corre un amore impetuoso, fatto di litigi e insulti, ma quando tutto sembra precipitare ecco che Teresa propone lo scambio di un segreto, la confessione di una storia imbarazzante di cui non hanno mai fatto parola ad anima viva.
Con un segreto così grande si sarebbero sentiti legati indissolubilmente e invece pochi giorni dopo si lasciano.
Che guaio, mi disse una volta un mio amico, innamorarsi di una donna che sotto tutti gli aspetti è più viva di noi. Il mio amico aveva ragione: sebbene io non fossi smorto, in Teresa c’era forza vitale in eccesso e quando traboccava nessun argine la poteva trattenere. Questo ero bello e mi dava nostalgia, ogni tanto desideravo rivederla. Ma proprio quando mi stavo convincendo che a farle una telefonata non c’era niente di male, mi imbattei in Nadia.
Pietro ricomincia da Nadia e con lei, così diversa da Teresa, costruisce la sua nuova vita perfetta. All’apparenza non sembrano esserci ombre del passato su quest’amore almeno fino a quando Teresa non fa irruzione.
Fu un errore obbedirle. In pochi secondi tornò la vecchia confidenza dei corpi, riconobbi l’odore dei capelli che sbucavano a ciuffi dal cappuccio, riascoltai la sua voce che diceva, trascinata subito via dal vento: non mi tenere per i fianchi, scemo, se no cadiamo. Mi era sempre piaciuto che mi portasse in vespa.
Le parole scivolano leggere e a Starnone non ne servono molte per descrivere quel sottile filo invisibile, la loro confidenza.
“Attento a te”, le parole di Teresa, e da quel giorno Pietro vive in un perenne stato di allerta.
Averle confessato il suo più imbarazzante segreto lo fa tremare ogni volta che lei ricompare nella sua vita, perché le sue relazioni e la reputazione che costruisce giorno dopo giorno sono in balia delle sue intenzioni.
E se Teresa, con una delle sue solite impennate, solo per il gusto di inchiodarmi alle mie responsabilità, rintraccia Nadia e le racconta il mio segreto?
A questo punto è banale chiedersi se Pietro ama ancora Teresa oppure no, se quello che ha costruito con Nadia sia vero o più forte. Con Confidenza Starnone ci vuole portare oltre il triangolo amoroso, oltre il tempo dolente di un amore finito.
Confidenza è un libro sulle intenzioni, cattive o buone che siano, sull’onestà che le muove e su come le parole confidate a chi amiamo siano un’arma decisamente più potente di quelle che potrebbero usare per mettere fine ad un amore.
Pietro vive in equilibrio precario, in bilico tra ciò che desidera essere – perfetto – e il senso di rassegnazione che prova nello scoprire i suoi limiti, che gli altri non mancano di tracciare.
Far chiarezza all’interno della vita di coppia, mah, forse è un dovere, ma anche un lusso che è rischioso permettersi.
Starnone illumina, non perché dica cose nuove ma perché riesce a raccontarle a prescindere dalla loro complessità in una storia tremendamente vicina alla realtà.
Questo libro avrebbe potuto chiamarsi anche Confessione? Forse sì, forse no.
Non credo che a tormentarci ci sia solo ciò che confidiamo ma, dopo aver letto Confidenza, anche la precarietà del legame della persona a cui abbiamo affidato quelle parole. Che fine faranno e ci faranno fare i segreti confessati in una vita?
La trama del romanzo.
Pietro vive con Teresa un amore tempestoso. Dopo l’ennesimo litigio, a lei viene un’idea: raccontami qualcosa che non hai mai detto a nessuno – gli propone -, raccontami la cosa di cui ti vergogni di più, e io farò altrettanto. Così rimarremo uniti per sempre. Si lasceranno, naturalmente, poco dopo. Ma una relazione finita è spesso la miccia per quella successiva, soprattutto per chi ha bisogno di conferme. Così, quando Pietro incontra Nadia, s’innamora all’istante della sua ritrosia, della sua morbidezza dopo tanti spigoli. Pochi giorni prima delle nozze, però, Teresa magicamente ricompare. E con lei l’ombra di quello che si sono confessati a vicenda, quasi un avvertimento: «Attento a te». Da quel momento in poi la confidenza che si sono scambiati lo seguirà minacciosa: la buona volontà poggia sulla cattiva coscienza, e Pietro non potrà mai più dimenticarlo. Anche perché Teresa si riaffaccia sempre, puntualmente, davanti a ogni bivio esistenziale. O è lui che continua a cercarla? Dopo “Lacci e Scherzetto”, Domenico Starnone prosegue il suo lavoro di scavo sull’ambivalenza delle persone e delle relazioni. Con uno sguardo insieme complice e distaccato, ci racconta di un uomo inadeguato a sé stesso e alle proprie ambizioni. Ma in realtà ci racconta di noi, di quanto sismico sia il terreno su cui si regge la costruzione della nostra identità
Come inizia.
Primo racconto
1.
L’amore, che dire, se ne parla tanto, ma non credo di aver usato spesso la parola, ho l’impressione, anzi, di non essermene servito mai, anche se ho amato, certo che ho amato, ho amato fino a perdere la testa e i sentimenti. L’amore come l’ho conosciuto io, infatti, è una lava di vita grezza che brucia vita fine, un’eruzione che cancella la comprensione e la pietà, la ragione e le ragioni, la geografia e la storia, la salute e la malattia, la ricchezza e la povertà, l’eccezione e la regola. Resta solo una smania che torce e distorce, un’ossessione senza rimedio: lei dov’è, dove non è, cosa pensa, cosa fa, cosa ha detto, qual era il significato vero di quella frase, cosa mi sta tacendo, e se è stata bene come sono stato bene io, e se seguita a stare bene ora che sono lontano, o se invece la mia assenza la debilita come la sua fa con me, annichilendomi, togliendomi tutta l’energia che invece genera la sua presenza, cosa sono senza di lei, un orologio fermo all’angolo di una strada trafficata, ah la sua voce invece, ah starle accanto, accorciare le distanze, azzerarle, cancellare chilometri, metri, centimetri, millimetri, e fondermi, confondermi, smettere di essere io, anzi già mi sembra di non esserlo mai stato se non in lei, nel piacere di lei, e questo mi rende orgoglioso, mi fa allegro, e mi deprime, mi intristisce, e di nuovo mi riaccende, mi elettrizza, quanto le voglio bene, sì, ciò che voglio è soltanto il suo bene, sempre, qualunque cosa accada, anche se si sottrae, anche se ama altri, anche se mi umilia, anche se mi svuota di tutto, persino della capacità di volerle bene. Che cose assurde possono accadere nella testa, volere il bene senza riuscire più a voler bene, volere il male pur seguitando a voler bene. A me è successo, perciò ho scansato la parola il più possibile, non so che farci con l’amor serafico, l’amore confortevole, l’amore che scampanella, l’amore che purifica, l’amor patetico: è per estraneità che l’ho usata così poco nel corso della mia lunga vita. Ne ho usate invece molte altre – smania, furia, languore, smarrimento, necessità, urgenza, desiderio –, troppe temo, pesco in cinquemila anni di scrittura e potrei tirare avanti chissà per quanto. Ma adesso mi preme passare a Teresa, è lei che s’è sempre rifiutata di stare dentro quella combinazione di cinque lettere e tuttavia ne ha pretese, e ne pretende ancora, mille e mille altre.
Di Teresa ero invaghito già quando sedeva in un banco accanto alla finestra ed era una delle mie allieve più vivaci. Ma me ne resi conto solo quando, diplomata ormai da un anno, mi telefonò, venne ad aspettarmi sotto scuola, mi raccontò la sua turbolenta vita universitaria passeggiando in una bella giornata d’autunno e all’improvviso mi baciò. Fu quel bacio a dare formalmente inizio al nostro rapporto, che durò in complesso circa tre anni tra esigenze mai davvero soddisfatte di reciproco assoluto possesso e tensioni che finivano in insulti, pianti e morsi. Mi ricordo una sera in casa di conoscenti, eravamo sette o otto persone. Sedevo accanto a una ragazza originaria di Arles che era a Roma da qualche mese e aveva un modo così seducente di scombinare l’italiano, che avrei voluto ascoltare soltanto la sua voce. Invece chiacchieravano tutti e soprattutto Teresa, che diceva al suo solito modo generoso cose molto intelligenti con estrema precisione. Io, devo ammettere, da qualche mese avevo cominciato a provare fastidio per quel suo voler essere sempre al centro alzando il livello anche della chiacchiera più frivola, perciò tendevo spesso a interromperla con qualche ironia, ma lei mi fulminava con lo sguardo e diceva: scusa, sto parlando io. In quella occasione forse lo feci una volta più del sopportabile, mi piaceva la ragazza di Arles e volevo piacerle. Teresa allora mi si rivolse furibonda, afferrò il coltello del pane e gridò: provati a tagliarmi di nuovo le parole in bocca e ti taglio la lingua e qualcos’altro. Ci affrontammo in pubblico come se fossimo soli, e oggi penso che lo fossimo davvero, tanto eravamo assorbiti l’uno dall’altra nel bene e nel male. C’erano sì i nostri conoscenti, c’era la ragazza di Arles, ma si trattava di figure inessenziali, contava il nostro continuo volerci e respingerci. Era come se ci piacessimo senza misura solo per poter appurare che ci detestavamo. O viceversa.
Non mancavano naturalmente i periodi felici e ragionavamo di tutto, scherzavamo, io le facevo il solletico fino a che, per farmi smettere, lei non mi dava lunghissimi baci. Ma non durava, eravamo noi stessi i perturbatori della nostra convivenza. Sembravamo convinti che la violenza con cui mettevamo continuamente disordine tra noi ci avrebbe trasformati alla fine nella coppia giusta, ma quella meta, invece che avvicinarsi, si allontanava. La volta che scoprii, proprio grazie a un pettegolezzo della ragazza di Arles, che Teresa s’era mostrata in atteggiamenti fin troppo intimi con un noto macilento accademico scartellato, i denti guasti, gli occhi malati, le dita a zampa di ragno con cui strimpellava il piano per studentesse adoranti, mi prese una tale ripugnanza di lei che tornai a casa e senza spiegazioni l’afferrai per i capelli, la trascinai in bagno, volevo lavarla io stesso in ogni millimetro del corpo con il sapone di Marsiglia. Non gridavo, le parlavo con la solita ironia, dicevo: io sono di ampie vedute, fa’ quello che ti pare, ma non con uno così disgustoso. E lei si divincolava, scalciava, mi tirava schiaffi, mi graffiava, gridava ecco cosa sei veramente, vergogna, vergogna.
Litigammo, quella volta, in un modo che pareva finita, non si poteva tornare indietro dopo le cose che ci eravamo rinfacciati. Tuttavia anche in quell’occasione riuscimmo a riconciliarci. Ce ne stemmo abbracciati fino all’alba, ridendo della ragazza di Arles, del pianista e docente di citologia. Ma adesso eravamo spaventati per come avevamo rischiato di perderci. E fu quello spavento, credo, a spingerci subito dopo a cercare un modo che fissasse per sempre la nostra reciproca dipendenza.
Teresa avanzò con cautela una proposta, disse: facciamo che io ti racconto un mio segreto così orribile che nemmeno tra me e me ho mai provato a raccontarmelo, e tu però me ne devi confidare uno equivalente, qualcosa che se si sapesse ti distruggerebbe per sempre. Mi sorrise come se mi stesse invitando a un gioco, ma mi sembrò sotto sotto in gran tensione. L’ansia prese subito anche me, mi stupì, mi preoccupò che lei, a ventitré anni, potesse avere davvero un segreto così indicibile. Io, che ne avevo trentatré, ce l’avevo, e si trattava di una storia tanto imbarazzante che soltanto a pensarci arrossivo, mi fissavo la punta delle scarpe, aspettavo che il turbamento passasse. Ci girammo un po’ intorno, questionando su chi si confidava per primo.
– Prima tu, – disse lei, e il tono era quello ironicamente imperioso che usava quando traboccava d’affetto.
– No, prima tu, devo valutare se il tuo segreto è orribile quanto il mio.
– E perché io mi devo fidare e tu no?
– Perché conosco il mio segreto e mi pare impossibile che tu ne abbia uno cosí inconfessabile.
Alla fine, tira e molla, cedette, indispettita soprattutto – ritengo – dal fatto che non la considerassi capace di azioni innominabili. La lasciai parlare senza mai interrompere e alla fine non riuscii a trovare una parola adeguata di commento.
– Be’?
– È brutto.
– Te l’avevo detto, ora tocca a te. E se mi racconti una sciocchezza, me ne vado e non mi vedi più.
Mi confidai, prima in modo frammentario, poi in modo sempre più articolato, non volevo smettere di parlare, fu lei che disse basta. Tirai un lungo sospiro, dissi:
– Ora sai di me ciò che non ha mai saputo nessuno.
– Anche tu di me.
– Non possiamo lasciarci più, siamo davvero l’uno nelle mani dell’altra.
– Sì.
– Non sei contenta?
– Sì.
– È stata un’idea tua.
– Certo.
– Ti voglio bene.
– Anch’io.– Ma io tanto.
– Io tantissimo.
Pochi giorni dopo, senza litigare, anzi con un formulario cortese che non avevamo mai usato tra noi, ci dicemmo che la nostra relazione era ormai esaurita e di comune accordo ci lasciammo.
2.
In principio mi sentii sollevato. Teresa, a conti fatti, era una ragazza insubordinata e rissosa, ogni mia frase generava un’obiezione, ogni mia debolezza una battuta sarcastica. Senza contare che si accapigliava non solo con me ma con tutti, bottegai, impiegati delle poste, vigili urbani, poliziotti, vicini di casa, amici a cui tenevo. A ogni occasione di scontro intensificava una risatella che sembrava di allegria e invece era di rabbia, un suono di gola che scandiva frasi zeppe di insulti come una cesura. Almeno un paio di volte ero venuto alle mani con gentaglia che si era dimenticata di avere a che fare con una ragazza. Ma poi passarono i giorni, passarono le settimane, si accumularono mesi di vagabondaggio inconcludente, e il sollievo si attenuò, cominciai a sentire la sua mancanza. O meglio avvertii che lo spazio disegnato da lei nella monocamera in cui avevamo abitato, o quello accanto a me per strada, al cinema, dovunque, era vuoto, era grigio. Che guaio, mi disse una volta un mio amico, innamorarsi di una donna che sotto tutti gli aspetti è più viva di noi. Il mio amico aveva ragione: sebbene io non fossi smorto, in Teresa c’era forza vitale in eccesso e quando traboccava nessun argine la poteva trattenere. Questo era bello e mi dava nostalgia, ogni tanto desideravo rivederla. Ma proprio quando mi stavo convincendo che a farle una telefonata non c’era niente di male, mi imbattei in Nadia.
Con Nadia non voglio tirarla troppo per le lunghe: era schiva, molto contenuta persino quando diceva buongiorno, gentilissima, il contrario di Teresa. La conobbi a scuola, era laureata in matematica, coltivava ambizioni accademiche ed era al suo primo incarico. In principio non le feci caso, era lontanissima dal tipo di donna che mi attraeva, non sembrava affatto inserita nei tempi di audacie politiche, letterarie, erotiche in cui mi ero sentito immerso prima, durante e dopo la relazione con Teresa. Tuttavia qualcosa in lei – difficile dire cosa, il rossore forse che non sapeva ricacciare indietro – settimana dietro settimana mi piacque sempre più e presi a girarle intorno. Pensai probabilmente che avrei potuto corazzarla contro quella tendenza ad arrossire insegnandole a varcare il limite in ogni ambito della sua vita, a parole e forse persino nei fatti. A Teresa non avevo mai insegnato niente, pur avendo lei dieci anni meno di me, pur essendo stata mia alunna in quello stesso liceo dove ancora insegnavo. E questo mi aveva a volte amareggiato, pareva nata imparata, mentre Nadia era chiusa in un cerchio di piccolissimo diametro oltre il quale non si era mai azzardata.
Cominciai prima con frasi di cortesia, poi assunsi un tono scherzoso, infine durante la ricreazione la invitai a prendere un caffè. A caffè seguì caffè, diventò un’abitudine, mi accorsi che lei ci teneva più di me. Così un giorno aspettai per un paio d’ore che finisse col suo lavoro e le proposi di pranzare insieme in una trattoria a pochi metri dalla scuola. Non accettò, aveva un impegno, scoprii in quell’occasione che era fidanzata e che si sarebbe sposata l’autunno seguente. Le raccontai, dal canto mio, di quanto avevo amato una donna con cui mi sarebbe piaciuto passare tutta la vita, ma le cose si erano messe male, era finita, e tuttavia ancora soffrivo. Poiché si interessò molto alla mia sofferenza, lasciai passare una settimana, tornai a invitarla e questa volta accettò. Ricordo che durante il pranzo rise per qualsiasi cosa dicessi, era nervosamente allegra. Mentre aspettavamo il secondo, poggiai la mano sul tavolo a pochi millimetri dalla sua.
– Posso baciarti il palmo? – le chiesi sfiorandole col mignolo il mignolo lì sulla tovaglia bianca, accanto al bicchiere colmo di vino
.– Che dici, perché, – esclamò sottraendo la mano cosí bruscamente che il bicchiere si sarebbe rovesciato se non l’avessi afferrato con una prontezza di riflessi che non mi sospettavo. Risposi:
– Perché m’è venuto questo desiderio.
– Te lo dovevi tenere per te, è una sciocchezza, non si dicono tutti i desideri.
– Ci sono sciocchezze che sono bellissime sia a dirle che a farle.
– Le sciocchezze sono e restano sempre sciocchezze.
Una frase definitiva, ma pronunciata con dolcezza: sapeva essere gentile anche nei rimproveri. Dopo voleva andarsene a casa in autobus, ma io mi offrii di accompagnarla con la mia R4 assai malconcia. Accettò, e appena fummo seduti l’uno accanto all’altra tornai a cercarle la mano con decisione. Lei questa volta non si sottrasse, forse soprattutto per lo stupore, e io le feci ruotare delicatamente il polso, mi portai il palmo alle labbra, ma invece di baciarglielo glielo leccai. La guardai, poi, mi aspettavo che protestasse disgustata e invece le trovai sul viso un sorriso appena accennato.
– L’ho fatto per gioco, – mi giustificai, all’improvviso a disagio.
– Certo.
– Ti è piaciuto?
– Sì.
– Però ti pare una sciocchezza.
– Sì.
– E allora?
– Fammelo ancora.
Le leccai il palmo di nuovo, poi provai a baciarla, ma mi respinse. Disse a voce bassa che non poteva, si sentiva in colpa col fidanzato, erano sei anni che stavano felicemente insieme. Quindi passò a parlarmi diffusamente di lui, era stato da ragazzo una promessa della pallacanestro, poi aveva preferito lo studio allo sport e adesso era un giovane chimico che già lavorava in un’industria importante con uno stipendio molto buono. Quell’ultima informazione non la gradii, mi sembrò sottolineare per contrasto che io ero solo un insegnante di lettere di scuola superiore e non avevo il diritto di riempirle la testa di chiacchiere che rischiavano di trascinarla per una via di smarrimento. Insistetti a baciarla e poiché mi girò ancora la faccia esclamai:
– È solo un bacio, che ti costa?
– Un bacio è un bacio.
– Ti passo solo la punta della lingua sugli incisivi.
– No.
– Allora facciamo che ti sfioro appena appena le labbra.
– Lasciami stare.
– Che c’è di male in uno scambio affettuoso?
– C’è di male che non voglio ferire Carlo.
Carlo era il chimico brillante che amava da anni. Disse che gli era sempre stata fedele e non aveva intenzione di buttare via per me un rapporto solido. Protestai:
– Basta un bacio a ferirlo? Crede di essere il proprietario della tua bocca e della tua lingua?
– Non è questione di proprietà ma di umiliazione. Se tu avessi una fidanzata, quella non si sentirebbe umiliata?
– Se ce l’avessi e si sentisse umiliata, la lascerei subito. Dov’è l’umiliazione?
Ci pensò su, sussurrò:
– Un bacio è il riassunto del coito.
– Cioè se ci baciamo, scopiamo?
– Simbolicamente sì.
– Mi pare eccessivo. E comunque un coito simbolico non fa male a nessuno. Se Carlo è così vulnerabile, basta non dirglielo.
– Mi stai suggerendo di mentirgli?
– La menzogna è la salvezza dell’umanità.
– Non mento mai.
– Allora gli devi dire che ti ho leccato il palmo.
– Perché?
– Perché in principio no, ma dopo ci ho messo un’intenzione simbolica.
Avvampò, mi fissò disorientata e io ne approfittai per baciarla leggermente sulla bocca. Poiché non si sottrasse, le presi il labbro inferiore tra le labbra, glielo tenni qualche secondo e poi lo lasciai per scivolare in lei con la punta della lingua. Stavo per ritrarmi e verificare l’effetto di quel brevissimo sondaggio, quando fu Nadia ad affondare decisamente nella mia bocca la lingua, che era viva e levigata e calda. Adesso già mi passava le braccia intorno al collo, le labbra aderivano premendo con forza, le lingue frugavano in ogni angolo del cavo orale cercandosi. Quando si staccò da me – lo fece gettando indietro la testa come per schivare un pugno –, le vidi un altro viso, i lineamenti si erano ammorbiditi, lo sguardo era di sfida e, insieme, come se si fosse svegliata in quel momento e cercasse di uscire da un torpore che l’aveva vinta. Cercai di tirarla di nuovo contro di me ma resistette. Dissi: ancora, per favore, e non volle. Misi in moto e l’accompagnai a casa.
3.
Quel bacio mi causò, già dieci minuti dopo, un tale bisogno di lei, che io stesso ne fui meravigliato. Il nostro rapporto mi era sembrato niente più che un gioco, e invece diventai pressante, non c’era giorno che non la invitassi a pranzo, al cinema, a cena. Poiché lei si sottraeva sempre con garbo, una mattina la bloccai in un corridoio deserto, alla fine delle lezioni, e le dissi:
– Ti voglio bene.
– Anch’io.
– Allora perché scappi?
– Perché mi fai male.
Il male – mi spiegò – derivava dal fatto che amava il suo Carlo, e il bene che mi voleva logorava l’amore per lui. Dopo quella spiegazione lunga e piena di balbettii sofferti, a cui io replicai che non le volevo solo bene ma sentivo ormai di amarla, accettò di venire a cena con me in un posto di qualità che conoscevo.
Era inverno, faceva freddo, pioveva, ma a due passi dal ristorante svoltai in una stradina buia e spensi il motore. Lei disse fiaccamente di rimettere in moto, risposi va bene, ma cercai di abbracciarla. Mi respinse, poi rise, poi sussurrò che voleva stare solo un minuto, tranquilla, con la testa sulla mia spalla. Ci sistemammo in modo che pur restando lei sul suo sedile e io sul mio quel desiderio di quiete si potesse realizzare. Ma si era appena disposta che accostai le labbra alle sue e ci baciammo a lungo. Sentii con sorpresa che l’amavo davvero e non volevo smettere più di baciarla.
Fino a non troppo tempo prima mi era sembrato di amare Teresa, che era alta e, sebbene magra, grande in tutto, le spalle, i fianchi, i seni; che disprezzava le convenzioni e si esprimeva sempre con franchezza; che mal tollerava non solo i torti che facevano a lei ma soprattutto quelli che facevano agli altri; che considerava il sesso una sfrenata manifestazione di buonumore, altre erano le cose importanti. Adesso invece mi pareva di amare Nadia, che invece aveva un corpo minuto, era contenuta, attenta a non dire cose sgradevoli; e quanto al sesso – ormai era chiaro – persino lasciare che le prendessi la mano, che intrecciassi le mie dita alle sue, le pareva che desse l’avvio a una catena di significati complessi in grado di riorganizzarti l’esistenza. Inutile dire a me stesso: calma, rifletti, non puoi passare da un modello femminile al suo rovescio. Che Nadia fosse lontanissima da Teresa inspiegabilmente mi commuoveva, la sentivo bambina, una piccola Nadia spaventata in permanenza da possibili punizioni. Così godetti dei baci come non mi era mai successo e per impedire che si ritraesse interrompendo il contatto tra le bocche evitai ogni tentativo di cercarla con le mani oltre la protezione del piumino spesso. Fu lei a un certo punto a soffiarmi tra le labbra: andiamo a mangiare, e io dissi rauco per l’emozione: andiamo.
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L’autore
Domenico Starnone ha insegnato a lungo nella scuola media superiore e si è occupato di didattica dell’italiano e della storia (Fonti orali e didattica, 1983). L’esperienza dell’insegnamento lo ha portato a scrivere Ex cattedra e altre storie di scuola, pubblicato originariamente alla fine degli anni Ottanta, e Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso.
Per “I Classici Feltrinelli” ha introdotto, tra gli altri, Cuore di De Amicis (1993), Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo (1994) e Lord Jim di Conrad (2002). È stato redattore delle pagine culturali del “Manifesto”. Dai suoi libri sono stati tratti i film La Scuola di Daniele Luchetti, Auguri, Professore di Riccardo Milani e Denti di Gabriele Salvatores. Nel 2001 ha vinto il Premio Strega con il romanzo Via Gemito (Premio Speciale Il Molinello 2001; Premio Napoli 2001; Premio Zerilli-Marimò 2001; Premio Nazionale Corrado Alvaro 2001; Premio Selezione Campiello 2001). Tra gli altri suoi successi ricordiamo Lacci (Einaudi 2014, The Bridge Book Award), Scherzetto (Einaudi 2016, Premio Isola d’Elba) e Confidenza (Einaudi 2019).
- Confidenza
- Domenico Starnone
- Editore: Einaudi
- Formato: EPUB con DRM
- Testo in italiano
- Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
- Dimensioni: 258,77 KB
- Pagine della versione a stampa: 152 p.
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