”Lo stato psichico di ciascuno non è muto, ma si manifesta attraverso immagini
COSA DICE IL SOGNO? PSICOLOGIA ANALITICA:
FRA L’ANTICO E IL MODERNO
«Il sogno è la piccola porta occulta che conduce alla parte nascosta e intima dell’anima, aperta sull’originaria notte cosmica che era già anima molto prima che esistesse la coscienza dell’io.» (Carl Gustav Jung)
Lo stato psichico di ciascuno non è muto, ma si manifesta attraverso immagini. Si manifesta anche attraverso il corpo, fisicamente considerato, mediante gesti, posture, rigidità. Non di rado, i “sintomi” di uno squilibrio psichico (inteso come repressione di una parte di sé) assumono una chiave metaforica – ho mal di pancia perché non riesco a digerire qualcosa, ma quel qualcosa non è un alimento, ecc. –, cioè precisamente il linguaggio delle immagini che, soprattutto in sogno, l’inconscio ci invia. Se si trattasse solo di immagini indifferenti alla nostra vita cosciente non sussisterebbe alcun problema, perché potremmo rimanere spettatori inermi di tutta una serie di fantasie oniriche che ci toccano parzialmente. Il guaio è che ci raccontano di noi, di quello che ci nascondiamo, che desideriamo, che omettiamo, che realizziamo. In un mondo fortemente tecnico, in cui queste emozioni-immagini sono relegate a un ruolo di mero funzionamento biochimico – servono, si dice, come le fasi del sonno e in corrispondenza a esse, al recupero dell’apparato fisiologico. Il loro contenuto non ha alcuna importanza; anzi, se sogni immagini perturbanti è solo perché hai mangiato pesante. Un rifiuto di tutte le “fantasie” che, a guardarlo da una certa angolazione, somiglia più a un altro terribile sintomo che al “laicismo” di cui ci facciamo orgogliosamente portatori.
Fortunatamente la psicologia, forse in principio in modo un po’ farraginoso, ha avuto l’epifania: le immagini, i sogni, ci raccontano davvero cose importanti. Ma che cosa? Freud direbbe che le immagini mascherano ciò che vorrebbero dire per non ferire la coscienza, che non sarebbe in grado di prendersene carico; Jung, al contrario, spiega che la natura è schietta e se vuole svelare qualche cosa non ha certo quelle remore che ricordano molto il Super-io. E allora perché il sogno parla così? Perché questo è il suo linguaggio. Un linguaggio analogo a quello del mito. Jung scopre poi che tra mito e sogno c’è una parentela ulteriore: in sogno sono presenti immagini che non sono solo parte del rimosso, cioè esperienze più o meno traumatiche accantonate dolorosamente dalla coscienza. Ci sono, in scena, gli stessi motivi dei miti. Immagini antiche, presenti in ogni popolo, che non sono mai passate dalla coscienza. Non le sappiamo, ma le sogniamo. Allora saper capire i sogni e, più in generale, le immagini che ci si danno (in forma onirica, mitica e rituale) ha un valore inestimabile per la nostra individualità. Non ci dicono solo cosa abbiamo subìto, dimenticato e dobbiamo, forse, riacciuffare per metterci un po’ a posto, ma anche chi siamo. Questo secondo passaggio, che solo astraendo separiamo di netto dal primo, diventa quella che Jung chiama individuazione – la piena realizzazione di sé.
Accorgersi di tutto questo produce un effetto straniante: conquistata almeno la consapevolezza di una vita interiore autonoma e al contempo fortemente tua, ogni giorno di più ci si persuade di avere davanti a sé, soprattutto la notte, quando ha piena facoltà di esprimersi, una persona che ci comunica un’infinità di cose che non riusciamo a capire. Come se fossimo di fronte a chi parla una lingua straniera e di essa conoscessimo solo qualche parola.
«Il credo scientifico del nostro tempo ha prodotto una fobia superstiziosa per la fantasia. Reale, tuttavia, è ciò che agisce. Le fantasie dell’inconscio agiscono: non c’è dubbio su ciò. Anche il più acuto filosofo può essere la miserabile vittima di una stoltissima agorafobia. […] La nostra famosa realtà scientifica non ci difende per nulla dalla cosiddetta irrealtà dell’inconscio. Qualcosa agisce sotto il velo delle immagini fantastiche, sia elogiativo o sia spregiativo il nome che gli appiccichiamo. È una realtà, e perciò anche le sue manifestazioni vitali vanno prese sul serio.» (C.G. Jung, L’Io e l’inconscio)
Dunque, l’uomo ha in sé, per usare i termini di Jung, un linguaggio razionale-cosciente e uno molto antico, che parla in termini simbolici. Oggi abbiamo operato una scissione, che rende, nei nostri modesti codici, insignificante il secondo. Eppure, anche quello si esprime, senza tregua. L’uomo moderno è scisso, non solo da un punto di vista della parcellizzazione del sapere (che rientra nel primo linguaggio); è scisso anche rispetto alla sua componente inconscia. Ora, l’uomo antico sperimentava e viveva la sua parte inconscia, anche se non l’interpretava. Il mito e il rito ne erano la piena espressione e, al contempo, la “soddisfazione” psichica. Per noi è diverso, non sappiamo esprimere nulla: così l’analista scopre il simbolo e tenta di interpretarlo: nasce la psicologia moderna. Jung direbbe che bisogna portare a coscienza l’inconscio per non esserne vissuti. Esserne vissuti significa essere totalmente inconsapevoli di cosa ci si agita in petto, non esprimerlo, e dunque fare sì che quell’energia compressa e respinta in fondo all’inconscio esploda in manifestazioni disastrose ed espressioni malsane, di compensazione, di identificazione, di proiezione, di retroflessione, ecc. quando non con effetti ancor più tragici e talvolta irreversibili.
Abbiamo detto che gli antichi non sapevano, a loro volta, parlare quella lingua, cioè tradurla nel linguaggio cosciente. La sentivano e vivevano. Jung racconta, per esempio, che il rapporto con quella parte di sé che chiama Anima o Animus si “risolveva” presso gli antichi attraverso dei rituali d’iniziazione. Cioè l’antico sentiva di doversi prendere carico di quell’aspetto psichico per il benessere della comunità, e lo metteva in scena con i riti a cui i giovani partecipavano. Le stesse movenze si sono riprodotte sino al cristianesimo, prima che abdicasse interamente alla sua parte simbolica per fare della religione una mera questione filosofica. Perciò, si diceva, gli antichi portavano a coscienza le immagini così com’erano; noi dobbiamo portarle a coscienza e spiegarle. Perché?
Ipotesi 1: gli antichi esprimevano le parti di sé con cui oggi non siamo più in contatto, attraverso racconti e rituali. Ossia, da un lato per la coscienza (seppur non “tradotto”, come dicevamo) – il racconto, il mito; dall’altro lato per il corpo, l’emozione – il rito, la pratica. Oggi non possediamo né uno né l’altro. Le immagini funzionavano per loro anche se non venivano interpretate secondo i canoni del linguaggio cosciente, di cui noi moderni abbiamo fatto una tale scorpacciata da dimenticare l’altro. Dunque, il rituale, che è un insieme di gesti ripetitivi e metodici (certamente i partecipanti non sapevano a quale “metodo” rispondesse), permette, con le movenze del corpo, di lasciare esprimere le emozioni che in altra occasione non possono o non devono esprimersi. Il rituale vive poi il linguaggio metaforico. Il gesto “mima” un significato, anche se quel significato non è consapevolmente presente.
D’altro canto, il mito sembra essere un racconto sistematico della vita psichica dell’umanità, in cui mette in guardia dai pericoli, spiega le qualità, indica le debolezze dell’uomo, parla del rapporto fra coscienza e inconscio… La mitologia tiene conto di quello che l’uomo è nella sua interezza, e lo insegna. Anche qui, è assai probabile che molti degli antichi credenti, o tutti, non comprendessero appieno, razionalmente, quali fossero gli “insegnamenti psichici” elargiti da questo sapere divino – divino come quella “persona” che ogni notte, instancabile, si mette a colloquio con noi. Lo sentivano al modo in cui il bambino sente ancora le fiabe, e quell’energia – o quelle energie –, in un modo non proprio cosciente, si indirizza e vince alcuni ostacoli. E non si intende qui l’ascolto delle fiabe per cui si ascolta solo il messaggio che l’autore ci vuole mandare (“non bisogna discriminare” e simili), ma coinvolge un sentire diverso, che vede all’opera una serie di figure inconsapevolmente presenti in noi. Non sarebbe strano trovare all’interno di molte fiabe le stesse immagini che sono presenti nei miti e negli antichi rituali (anzi, c’è chi lo ha studiato).
In linea di massima, penso sia questo il modo di vivere efficacemente le immagini senza tradurle.
Ipotesi 2: Non abbiamo più riti e miti che rispettino la psiche intera, una mitologia; ma non è vero che non abbiamo più miti, né riti. Il mito odierno è il mito della coscienza abbandonata a se stessa, della sua ipertrofia e impotenza: il nichilismo. Più oltre, se è vero che le differenze sono di grado – e così deve essere, perché se avessimo davvero abbandonato la nostra parte antica non ci sarebbe sofferenza per la sua mancata espressione, né ci sarebbero i sogni –, significa che, per non morire, qualche tipo di espressione psichica non controllata dal mito nichilista-scientista (che non lo permette) ci deve pur essere. Qualche rituale lo abbiamo, anche se, a differenza degli antichi, non sappiamo esista. E in questo, paradossalmente, siamo meno consapevoli di loro. Uno di questi rituali è sicuramente lo sport. Mette in scena una dimensione comunitaria che abbiamo perduto. Sicuramente vi sarebbe molto da studiare, considerata anche l’evoluzione e la diffusione della pratica sportiva nella sua versione “di squadra”, assente nell’antichità. Chi denigra lo sport e ne decreta l’inutilità o la subalternità, oltre a mentirsi, non fa che allontanare ulteriormente dalla consapevolezza di ciò che siamo e facciamo.
Come facciamo a uscire da questa condizione? Proprio come non cureremmo un ragazzo sciorinando ore e ore di teoria, ma mettendolo all’opera e lasciando che inconsapevolmente lavori quella parte di sé che solo in un secondo momento può essere discussa (o insieme, ma non solo parlando), perché dobbiamo partire, a “curare” l’umanità, chiedendo subito un nuovo mito? Come può crearsi un sistema mitico senza che sia prima vissuto ciò di cui parla? È impossibile, perché chi non è “in contatto” non può dire quel sentire, sia esso un dire razionale o metaforico-simbolico, o tutte e due le cose. Proprio come quando “sappiamo” il nostro problema, ma non riusciamo a cambiare. Se, per contro, provassimo, sotto l’aspetto collettivo, a scoprire i nostri rituali surrogati – surrogati perché non presi sul serio dal mito odierno, ma operanti nonostante la sua narrazione – per innalzarli alla dignità che meritano, non potrebbe così cambiare, almeno un pochetto, l’atteggiamento nei confronti della “fantasia”, e non potrebbe, via via, aprirsi uno spazio per dell’altro?
Da questo punto di vista, ricollegandoci a quanto detto all’inizio, non dobbiamo per forza portare a coscienza e spiegare le immagini perché funzionino. Non è cambiato l’uomo nella sua “natura”. A essere cambiato è il mito, che ci obbliga a tradurre le immagini per confutare le sue premesse. Ora non le portiamo proprio più a coscienza, per cui quando Jung si cimenta con esse non può raccomandare, come farebbe un medico nutrizionista, di mangiare più frutta e verdura. Non può raccomandare una scorpacciata di rituali, perché non li riconosciamo più, collettivamente, come reali e operativi. Sicché è costretto a leggere e tradurre, e lavorare duramente da quel lato, per poter finalmente ricondurre la persona all’altro, con cui non ha occasione sociale di entrare in contatto. Forse potremmo capire e cominciare a frequentare con una diversa consapevolezza i riti surrogati di oggi.
Conclusione. Sembra che ci siano e servano simboli e ragione. Con la ragione, in un gesto estremamente violento, abbiamo provato a cancellare i primi. Forse la scoperta della sua potenza ci ha fatto pensare di non averne più bisogno, così li abbiamo trattati al pari di superstizioni. Ora con la ragione, che osserva impotente e sconfitta, soffriamo ogni male psichico. La ragione, poco per volta, si accorge di aver bisogno dei rituali e dei miti, ma non sa come riprenderli.
Siamo arrivati a questo punto per gradi. Fino (circa) al medioevo la ragione sapeva il suo limite nella presenza di Dio, dei santi, e nell’immenso simbolismo in continuità con le religioni pagane. In quel contesto, come nell’antica Grecia, ragione, mito e rituale convivevano. Ma convivevano male, se è vero che l’errore è in nuce quando ancora non è completamente manifesto. Vuol dire che la ragione stava già lavorando per sé, contro gli altri due aspetti. Così il mito moderno è il mito per cui non esistono più miti, ma solo l’onnipotenza umana. Eppure, né il simbolo onirico, o generalmente inconscio-inconsapevole, né la ritualità sono venuti meno. Il loro disconoscimento da parte della coscienza odierna ha creato soltanto, direbbe Jung, una enorme inflazione – col risultato che l’espressione mancata di quell’aspetto umano rende incompleto l’uomo e, soprattutto, permette a quegli aspetti inconsci di irrompere malamente nella vita quotidiana, trattenuta con fatica lontana da quelle forze:
«Il fatto che l’Io sia assimilato al Sé va considerato una catastrofe psichica […] perché l’Io cosciente che è differenziato, cioè separato dall’inconscio, se cade sotto il controllo di qualche fattore inconscio, il suo adattamento alla realtà ne risulta turbato e la via spalancata a tutti gli incidenti possibili. D’altro lato l’accentuazione della personalità dell’Io e del mondo della coscienza possono facilmente assumere proporzioni tali da psicologizzare le figure dell’inconscio con la conseguenza che il Sé sia assimilato all’Io. Benché questo sia proprio il processo opposto a quello sopra descritto, il risultato è lo stesso: l’inflazione.» (C.G. Jung, cit. in U. Galimberti, Cristianesimo)
L’ipertrofia della coscienza, ossia la credenza che la coscienza coincida con tutto l’essere umano, è una riduzione della coscienza, un’incapacità di sintesi – qui risiede il paradosso. Bisogna che irrompa un sentire e un sapere diverso, contro cui le più precise linee tirate a goniometro si facciano tremule.
27 agosto 2021