”I russi, le élite del Cremlino, stentano a comprendere
CRISI “CUBANA”
I russi, le élite del Cremlino, stentano a comprendere. L’atteggiamento di Washington – e, per conserva, degli alleati/subordinati europei – appare loro ogni giorno più difficile da decifrare. Perché, in fondo, ragionano ancora con schemi vecchi. Che risalgono alla Guerra Fredda. A quella che Zbigniew Brezinskij, Segretario di Stato di Carter, aveva definito “La partita a scacchi”.
E come si sa, i russi sono maestri di scacchi.
Ma qui la situazione è diversa. Radicalmente diversa.
Partiamo da un esempio concreto. La dislocazione di armi nucleari in Bielorussia annunciata da Putin.
Nonostante il clamore, che non sembra doversi placare, in sé e per sé non rappresenta nulla di eccezionale. Una, normale, mossa scacchistica.
La Bielorussia è, da sempre, legata a Mosca. Più esattamente è il suo alleato più stretto. Una estensione geopolitica.
Piazzare dei missili nucleari nel suo territorio non rappresenta nulla di eccezionale. O di particolarmente pericoloso, visto che la portata di questi armamenti è tale che ben poco cambia, sotto il profilo strettamente militare, se le rampe di lancio si trovano in territorio sotto la sovranità di Minsk, o in quello, limitrofo, di Mosca.
La mossa di Putin, quindi, ha una valenza tutta politica.
Innanzitutto, rendere chiaro che la Bielorussia è parte integrante della sfera di influenza moscovita. Un ribadire necessario dopo alcuni tentativi, piuttosto caotici e raffazzonati, di scatenare anche a Minsk una “primavera colorata”, su modello di quella che, nel 2014, ha spostato verso la sfera di influenza NATO Kiev. E che è, poi, la radice dell’attuale conflitto.
Gli attori dietro le quinte, per altro, sono stati gli stessi. I polacchi, i baltici e, soprattutto, fantomatiche ONG come Open Society di Soros. Che hanno finanziato e fomentato ancora più fantomatiche “primavere” un po’ in tutto il mondo. Dalla Libia al Caucaso, all’Asia Centrale. Con i bei risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
A Minsk, però, lo schema non ha funzionato. L’FSB russo, memore delle esperienze passate, ha sventato il tentativo di golpe. E, a quanto sembra, anche un attentato alla vita di Lukashenko.
La ragione principale delle armi nucleari russe in Bielorussia è, però, un’altra. Paradossale all’apparenza. Un invito alla trattativa diplomatica. Perché in realtà Putin sta cercando di replicare lo schema della, famosa, crisi di Cuba.
Che, nonostante ciò che ci raccontano la filmografia hollywoodiana e una certa vulgata pseudo-storica, non fu innescata dai missili russi nella grande isola caraibica. Ma da quelli statunitensi in Turchia. Quindi esattamente al confine sovietico.
In parole povere, Kruscev piazzò i suoi missili a Cuba come risposta.
E Kennedy – che non corrisponde per nulla al santino liberal e pacifista in cui viene, ordinariamente, ritratto – fu costretto a trattare. Risultato: ritiro da entrambe le parti.
La sostanza, oggi, non cambia. Washington tiene armi nucleari in Germania ed Italia. Quindi molto lontano dai suoi confini, e molto vicino a quelli della Russia. E non si fa mistero che alcuni ambienti governativi statunitensi e britannici stiano pensando di piazzare armi nucleari anche in Ucraina. I missili ad uranio impoverito ne rappresentano un assaggio.
Quindi lo Zar sta dicendo a Washington: trattiamo. Perché il rischio di una guerra nucleare è concreto. Ed è un tipo di conflitto che sarebbe meglio evitare. Per tutti. Perché, certo, può iniziare in sordina, con bombe nucleari di teatro. Limitate. Ma nessuno è in grado di prevedere dove, poi, possa andare a finire. La, cosiddetta escalation è nella natura delle cose.
Un ragionamento duro, ma lucido. Che fa tesoro delle esperienze, e delle crisi del passato. Ma che non sembra venire recepito dalla controparte occidentale. Ed è qui che i russi non capiscono.

Non capiscono che a Washington non c’è un Kennedy. Che era sì un imperialista – come provano il Vietnam e Baia dei Porci – ma che mirava a estendere la sfera di influenza statunitense. Senza, tuttavia, arrivare ad una guerra nucleare. O, comunque, a un conflitto mondiale. Ricordava bene, avendolo vissuto in prima persona, il Secondo.
Durante il quale aveva perso suo fratello Joseph Patrick.
Oggi, nello Studio Ovale, siede Joe Biden. Nella sua, lunga, carriera politica è sempre stato acceso sostenitore di tutti i conflitti. Dall’Iraq alla Siria. E, soprattutto, è legato a triplo filo ad interessi finanziari e industriali che traggono enormi profitti dalla guerra. Come provano i problemi giudiziari di suo figlio.
Per altro Biden è una sorta di uomo di fiducia – o di paglia – di una élite finanziaria che lo ha imposto alla Presidenza in modo, diciamo così, rocambolesco. E non proprio con un limpido esercizio di democrazia.
I Soros, i Gates, gli Zuckerberg ed altri, come il grande gruppo Black Rock, mirano alla distruzione e allo smembramento della Federazione Russa. Che vedono come un ostacolo al loro disegno di globalizzazione. Ovvero di controllo finanziario, e non solo, dell’intero mondo.
Per altro codeste élite anglosassoni – britanniche e statunitensi – hanno una forte impronta malthusiana.(1) Ben chiara nelle loro “politiche” sanitarie e ambientaliste. Che prevedono, a medio termine, una drastica diminuzione della popolazione. Cosa inconcepibile per un russo… ma che, evidentemente, porta ad un atteggiamento significativamente diverso, diciamo… meno preoccupato, nei confronti della guerra nucleare.
Infine, le attuali élite occidentali hanno sposato una complessa ideologia, intrisa di promozione della Teoria di Genere, Lgbt, Cancel Culture che le pone a distanze siderali da quelle russe.
Paradossalmente, Kruscev e Kennedy erano divisi da due modelli sociali, economici e politici in netto contrasto tra loro. Ma molto più vicini sulla visione dell’uomo e della vita.
Quindi, i russi, Putin per semplificare, stentano a comprendere. E intanto il mondo si avvia verso una, potenziale, catastrofe nucleare. Al ritmo, allegro, di un motivetto dei Village People.

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