Geopolitica di carta, retroscena di ferro
DA KIEV ALLO YEMEN, LO SCOMODO HABITAT DELLA TIGRE DI CARTA
Il Simplicissimus
Nel grande gioco della geopolitica globale, ciò che viene raccontato ogni giorno è spesso solo un’esca per l’opinione pubblica. L’accordo tra Stati Uniti e Ucraina sulle cosiddette “terre rare” – materie prime in realtà inesistenti o economicamente irrecuperabili – è solo l’ultimo esempio di una narrazione costruita su fondamenta inconsistenti. Il pezzo mette in luce il paradosso mediatico e politico che anima l’Occidente: lo stesso patto che fino a poco fa sarebbe stato considerato una resa a Trump, oggi viene celebrato come una mossa astuta di Zelensky. Una schizofrenia comunicativa che svela l’inconsistenza dell’attuale governance europea, dove si vacilla persino ai vertici – come nel caso della Commissione von der Leyen, sempre più in crisi. Con tono caustico e sguardo disilluso, l’autore smonta i miti di una NATO ormai sconfitta sul campo e priva di strategia, critica l’ipocrisia delle cancellerie europee, e denuncia il tracollo di un progetto di Unione fondato su illusioni belliche e propaganda à la carte. Dal conflitto ucraino alle tensioni dimenticate dello Yemen, emerge il ritratto di un ordine internazionale in decomposizione, dove le “tigri di carta” ruggiscono nei comunicati stampa ma tremano davanti alla realtà. (f.d.b.)
Tutti si stanno arrovellando sull’accordo fra Usa e Ucraina per le terre rare che in realtà non esistono o in qualche caso sono talmente difficili da ricavare da non avere mercato. Si arrovellano perché fino a due giorni fa si demonizzava Trump che costringeva Zelensky a svendere il Paese e adesso invece si dice che il duce di Kiev abbia fatto una mossa furbissima. Del resto, chi si ricorda della cazzata del giorno prima se ce n’è una croccante di giornata? E si sa che ormai da anni il forno delle bugie e delle narrazioni à la carte è aperto ogni mattina. Tutto questo, compreso il fatto che l’accordo di partenariato è stato firmato da un funzionario ucraino di basso rango, dunque di incerto valore, dimostra che Trump ha una fretta dannata di concludere in qualche modo il conflitto armato prima che la Russia si prenda l’intera Ucraina e se ne frega dei “volonterosi” europei che ora hanno persino rinunciato ai vaneggiamenti su truppe da mandare in appoggio alle truppe ucraine. Il bluff è stato scoperto e questo fortunatamente sta mettendo in crisi la governance della Ue. Nei corridoi di Bruxelles si parla di possibili dimissioni della von der Leyen, la signora della guerra, che potrebbero essere un forte scossone per l’intero impianto della Ue, visto che Ursula è stata rieletta appena un anno fa a capo della Commissione, proprio con il mandato di tenere vivo il conflitto ucraino. Il fallimento è di tutta l’Unione e dei suoi meccanismi, su questo non c’è alcun dubbio. La realtà, del resto, è semplice: la Nato ha perso ed è meglio chiudere la partita, prima che la sconfitta appaia di dimensioni tali da essere vista persino dai troppi ciechi volontari che popolano l’Occidente.

Tuttavia, non è solo di questo che voglio parlare, ma di altre sconfitte assai più inaspettate che gli Usa si trovano ad affrontare e che forse non sono estranee all’atteggiamento di Washington nei confronti dell’Ucraina. Parlo dello Yemen che da un anno e mezzo resiste con vigore agli assalti americani. L’operazione Prosperity Guardian per impedire che gli Houthi colpissero le navi che riforniscono Israele, fu avviata da Biden nel dicembre del 2023, ma non ha avuto alcun successo per due motivi: uno che è molto difficile centrare batterie di missili mobili in un territorio accidentato come quello yemenita, il secondo perché in un conflitto dove sono presenti i droni, le squadre navali americane consumano ben presto la scorta di missili e devono allontanarsi per non rimanere indifese. In questo caso Trump e i suoi consiglieri hanno pensato che intensificando gli attacchi con bombardamenti continui e a tappeto si potesse finalmente risolvere la situazione. Ma non è stato così: l’unico risultato è stata l’uccisione di civili inermi, comme d’abitude, ma dal punto di vista militare i risultati sono stati scarsi. Gli Houthi sono riusciti ad abbattere molti droni americani – almeno 9 a quanto pare – di quelli che costano 35 milioni di dollari ciascuno e dopo sette settimane di bombardamenti continuano come nulla fosse a lanciare missili e a bloccare il traffico marittimo da e per Israele. In questo contesto è avvenuta la distruzione di un F18 che è caduto in mare assieme al trattore cui era attaccato, dopo che la portaerei sulla quale era imbarcato ha dovuto effettuare una manovra di emergenza in vista di un attacco.
Certo questo episodio non testimonia della buona preparazione degli equipaggi, abituati a minacciare e non a subire minacce, ma ciò che appare davvero strano e fuori dalla realtà è che meno riescono a domare gli Houthi, più fanno crescere le pressioni contro l’Iran la cui potenza militare è enormemente più grande di quella dello Yemen. Trump ha rinviato l’incontro, previsto per domani, con i delegati iraniani, probabilmente anche per il forte disaccordo che esiste tra il suo entourage, ma ha anche emanato una sorta di diktat in cui diffida chiunque a comprare prodotti petroliferi iraniani, pena sanzioni. In realtà poiché il più grande acquirente dei prodotti di Teheran è la Cina siamo di fronte all’ennesimo tentativo di intimidire Pechino. Però l’unica cosa concreta che sono in grado di fare è di suscitare tensione fra India e Pakistan per mettere in crisi una delle vie della seta. Insomma, se gli Usa non sono propriamente una tigre di carta, sono però una specie di ologramma che si aggira per il pianeta ruggendo, il che aumenta l’ostilità verso di loro senza tuttavia che possano fare se non azioni dimostrative e una sorta di guerriglia, peraltro assai dispendiosa. Non sono più in grado di modulare la loro stessa forza. Col rischio di essere alla fine costretti a svelare il proprio bluff, come è accaduto per l’Europa. Il fatto è che non ci sono più assi da nascondere nelle maniche.
