Quando la parola sogna la musica, e la bellezza diventa un altare funebre.
D’ANNUNZIO E WAGNER – SECONDO INCONTRO
Redazione Inchiostronero
Nel secondo appuntamento della rubrica Ritratti del tramonto, il confronto si sposta dal romanzo alla musica, dalla parola alla partitura, mettendo in dialogo Gabriele D’Annunzio e Richard Wagner. Due spiriti titanici, entrambi visionari, entrambi ossessionati dalla bellezza e dalla morte. Questo saggio esplora i legami profondi tra il poeta italiano e il compositore tedesco: l’estetica dell’opera totale, il mito, l’eros come annientamento, e il culto della forma come destino.
Musica, mito e volontà di stile nell’estetismo dannunziano
Ritratti del tramonto
«Io voglio la vita come un’opera: solenne, magnifica, inevitabile.» (Eco dannunziana)
Tra la fine dell’Ottocento e l’alba inquieta del Novecento, l’arte non è più solo bellezza o ornamento: diventa una nuova religione. Per alcuni spiriti titanici, come Gabriele D’Annunzio, essa è l’unico tempio rimasto in piedi mentre l’Europa crolla tra la perdita della fede, il culto dell’individuo e l’ebbrezza del nulla.
In questa tensione spirituale e formale, Richard Wagner rappresenta per D’Annunzio molto più di un compositore: è un maestro segreto, un profeta sonoro. Le loro opere non si parlano in superficie, ma nel profondo: condividono un’idea di vita come opera d’arte, di destino come stile, di bellezza come principio assoluto e terminale.
L’arte come destino
Per Gabriele D’Annunzio, l’arte non è una disciplina tra le altre: è una via, una scelta esistenziale, una necessità quasi sacrale. Vivere — per lui — significa comporre, e non c’è esperienza, gesto, parola, che non debba risuonare come una nota di una partitura più grande: la partitura della propria immagine nel mondo.
Questa concezione, radicale e totalizzante, trova il suo specchio più potente nella figura di Richard Wagner, il compositore che ha teorizzato e incarnato l’ideale di Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale. Wagner non cercava solo bellezza: voleva rifondare il mito, ricreare l’uomo attraverso la scena, sublimare il destino attraverso il suono. Ed è proprio questo che affascina D’Annunzio: la fusione assoluta tra arte e vita, l’impossibilità di distinguere l’opera dall’autore, la musica dal sangue.
Per D’Annunzio, vivere significava comporre: trasformare l’esistenza in una forma, farne scena, gesto, armonia. La vita, se non è opera, è occasione mancata.
«Bisogna fare della propria vita un’opera d’arte.»
Questa frase — una delle più dannunziane che si possano immaginare — racchiude tutto: lo stile come salvezza, la forma come unica fede possibile in un’epoca senza metafisica. L’arte non è più ornamento, ma struttura ontologica dell’esistenza. Chi non riesce a vivere come un’opera, è già spiritualmente morto.
In questo senso, D’Annunzio si fa discepolo ideale di Wagner: ne assimila la grandezza visionaria, ma la trasporta dalla musica alla parola, dal teatro al romanzo, dalla partitura alla pagina. Se Wagner mette in scena dei e eroi nel crepuscolo del mondo, D’Annunzio mette in scena sé stesso, e la civiltà occidentale che gli ruota intorno. Tutto è spettacolo, ma non per vanità — per sopravvivenza.
«Essere è nulla, apparire è già creare.»
L’arte, allora, diventa destino: ciò che resta quando tutte le altre vie — religione, morale, politica — si sono esaurite. È l’ultimo atto possibile di libertà. Ma anche il più rischioso: perché fare della vita un’opera significa vivere in scena, non uscire mai dal personaggio, morire ogni giorno per restare fedeli a un’immagine di sé.
E come Wagner ha pagato con l’esilio, l’odio, la solitudine il suo titanismo estetico, così D’Annunzio paga con la febbre, l’eccesso, la mancanza di pace.
Sono entrambi apostoli di un culto estetico estremo, in cui il linguaggio non serve a raccontare la vita — ma a sostituirla. Dove la morte non interrompe, ma completa l’opera.
Mito, sensualità e annientamento
Ogni grande visione estetica ha bisogno di un fondamento mitico, e tanto Wagner quanto D’Annunzio non scrivono opere: fondano cosmogonie. Entrambi guardano all’antico non con nostalgia, ma con furia creatrice: vogliono riattivare l’archetipo, risvegliare il sacro sepolto nella carne della modernità.
In Wagner, il mito è veicolo assoluto: nei cicli del Nibelungo, nei drammi di Parsifal, in Tristano e Isotta, il passato remoto diventa specchio dell’interiorità contemporanea. Il mito non racconta, plasma. E lo fa attraverso la musica: non parola, ma suono primordiale, che parla direttamente al corpo, all’anima, al desiderio.
D’Annunzio, sulla scia di Wagner, costruisce anch’egli i suoi miti: talora prendendo spunto dalla classicità (come in Fedra), talora dal folclore arcaico abruzzese (La figlia di Iorio), ma sempre con l’intento di creare una liturgia del desiderio e del sacrificio. Il corpo diventa simbolo, l’estasi diventa rito, l’amore diventa rovina.
«L’amore, in lui, era una febbre sacra che chiedeva sacrificio.»
In entrambi, il mito è inscindibile dalla sensualità. Ma si tratta di una sensualità tragica, carica di ambivalenza: non c’è pienezza, solo slancio e caduta.
Isotta muore per seguire l’onda infinita del desiderio, Ippolita muore perché il suo amore non basta più a reggere il vuoto che Giorgio ha dentro. La carne non libera: consuma.
«Ogni bellezza era eccessiva. Ogni tocco, un preludio alla fine.»
Il mito, così, non eleva: divora. Eros, invece di salvare, conduce al thánatos. La passione non consola: mostra il limite invalicabile dell’umano, la ferita che nessuna arte, nessun piacere, nessun corpo può chiudere.
In Wagner, questo è espresso nella musica: l’accordo finale di Tristano è sospensione e dissoluzione, suono che si frantuma nel nulla. In D’Annunzio, è il linguaggio a compiere questo effetto: la frase si allunga, si avvolge su sé stessa, si spegne come un respiro che non trova più fiato.
Questa è la loro verità condivisa: la bellezza più alta è quella che si consuma nell’atto stesso del suo splendore. Nulla dura, se non il ricordo del gesto estremo.
E dunque il mito, per entrambi, non è fuga dal presente, ma rivelazione del presente in tutta la sua fragilità. È lo specchio che riflette non ciò che siamo, ma ciò che stiamo per perdere.
La morte come forma estetica
Per D’Annunzio e Wagner, la morte non è una rottura, ma un compimento. È la cornice necessaria per dare senso al quadro della vita, l’ultima nota della sinfonia, il punto in cui forma e destino coincidono. Non c’è tragedia senza stile, non c’è fine senza misura.
L’estetica, in entrambi, è una teologia della soglia.
In Wagner, questa verità si fa suono: la dissoluzione finale del Tristano non è un urlo, ma un’onda che si spegne nel silenzio, come se il desiderio stesso si annullasse nella pienezza della morte. Nell’epilogo del Crepuscolo degli dèi, tutto brucia: i palazzi, gli dei, le passioni — eppure tutto acquista una maestà sacrificale. Il mondo muore, ma lo fa in armonia.
D’Annunzio assorbe questa lezione e la traduce in linguaggio. Nei suoi romanzi — e in particolare ne Il trionfo della morte — la bellezza è insostenibile, e proprio per questo cerca la sua dissoluzione. Giorgio Aurispa non si suicida per disperazione: lo fa per coerenza estetica. Il gesto finale è un’estensione dello stile, un atto scenico nella vita, l’unico modo per renderla compiuta.
«Morire non è fuggire: è compiersi.»
Il suicidio, in questa prospettiva, non è rinuncia: è affermazione ultima dell’esteta, la firma in calce a un’opera che non poteva continuare. Anche qui, la lezione wagneriana è evidente: la bellezza deve consumarsi in sé stessa, spegnersi nel punto più alto del suo splendore, non degradarsi nell’abitudine o nel compromesso.
«Vivere fino all’orlo, poi scomparire: come una fiamma che si alza e poi s’invola.»
Wagner e D’Annunzio celebrano così un’estetica della fine, una forma suprema in cui l’annientamento non distrugge, ma sublima. Morte e arte si fondono in un rito solenne, in cui il corpo, la parola, il suono e il gesto non indicano più la vita — ma la sua trasfigurazione.
E se il mondo moderno ha perso i suoi riti, loro li reinventano: non per salvare, ma per rendere tollerabile la perdita.
Conclusione
D’Annunzio e Wagner non si sono mai incontrati, eppure le loro opere dialogano come due voci di una stessa liturgia terminale. Entrambi, ciascuno nel proprio linguaggio, hanno concepito l’arte non come mestiere, ma come missione, come l’ultima possibilità di salvare l’uomo dalla disgregazione spirituale che segna l’Occidente moderno.
Per loro, vivere significa creare stile. Non c’è distinzione tra forma e sostanza, tra parola e sangue, tra scena e coscienza. La vita va vissuta come una tragedia consapevole, dove ogni gesto è un atto estetico, ogni scelta un frammento di destino.
E se l’epoca non offre più valori, allora è l’individuo che deve farsi tempio, darsi legge, imporsi bellezza.
«Essere non basta più. Bisogna apparire. Bisogna ardere, anche a costo di scomparire.»
In questa visione estrema, anche la morte diventa necessaria. Non come fine, ma come consacrazione dell’opera. Il gesto estremo — che sia l’estinzione musicale di Tristano o il suicidio estetico di Giorgio Aurispa — non chiude, ma sigilla. Come l’ultima pennellata su un affresco sacro, come il silenzio che segue l’accordo finale.
Oggi, in un tempo che ha perso tanto la religione quanto l’estetica, D’Annunzio e Wagner ci parlano ancora. Non per offrirci modelli, ma per ricordarci cosa si perde quando l’arte non è più una forma di vita.
Nel loro eccesso, nella loro teatralità, nella loro spinta verso l’assoluto, ci mostrano quanto sia necessario sognare forme alte, anche se fragili, anche se destinate a cadere.
Sono stati sacerdoti della bellezza in un’epoca che già tremava, e il loro canto, per quanto lontano, continua a risuonare come un’eco nel crepuscolo.

“D’Annunzio e Wagner: profili paralleli”
Questi due profili, così distanti per lingua, cultura e contesto storico, sembrano tuttavia riflettersi l’uno nell’altro come in uno specchio incrinato.
Giorgio Aurispa e Nikolaj Stavrogin non si incontrano davvero — ma si riconoscono. Condividono una stessa solitudine verticale, uno stesso silenzioso naufragio nella consapevolezza di vivere in un mondo che ha perso Dio senza trovare altro da adorare.
Entrambi sono intellettuali disillusi, raffinati fino all’eccesso, incapaci di agire, incapaci di credere. Portano sulle spalle il peso di una civiltà che ha smarrito ogni fondamento spirituale e si trascina tra estetismo e nichilismo. Non cercano redenzione, non attendono salvezza: restano immobili sulla soglia, testimoni del crollo, prigionieri del proprio sguardo interiore.
«Non credono più, non sperano più, ma continuano a desiderare.»
Questa è la loro condanna. Il desiderio senza oggetto, la tensione senza senso, la coscienza senza fede. Non sono eroi tragici, perché mancano della spinta creativa. Non sono martiri, perché manca loro una causa. Sono, piuttosto, i figli inquieti di un secolo stanco, in cui l’intelligenza si piega su sé stessa e si spezza.
Ed è forse per questo che ci parlano ancora oggi. Perché il loro vuoto ci somiglia, la loro inquietudine è la nostra, il loro fallimento contiene qualcosa della nostra epoca smarrita.
Aurispa e Stavrogin ci ricordano che il problema non è solo la fine degli ideali, ma la fine della volontà di crearne di nuovi.
Nel loro gelo e nella loro febbre, vediamo la sagoma opaca di un futuro che si ostina a non passare. E mentre l’Europa brucia nella sua crisi silenziosa, loro continuano ad abitare il nostro tramonto — immobili, in ascolto dell’abisso.
Per approfondire
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Gabriele D’Annunzio, Il trionfo della morte, Milano, Mondadori, 1990
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Gabriele D’Annunzio, La figlia di Iorio, Milano, BUR, 2004
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Richard Wagner, Scritti scelti, Milano, Il Saggiatore, 1995
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Friedrich Nietzsche, Il caso Wagner, Milano, Adelphi, 1971
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Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002
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Massimo Cacciari, Dallo Steinhof, Milano, Adelphi, 2005 (sul rapporto tra estetica, architettura e mito nella crisi della modernità)
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Peter Conrad, Il demone della musica. La vita di Richard Wagner, Torino, Einaudi, 2001