Il poeta tra rivoluzione e tradizione: Gabriele D’Annunzio, un rivoluzionario che seppe conservare a modo suo i valori del passato
D’ANNUNZIO RIVOLUZIONARIO E CONSERVATORE A MODO SUO
di Marcello Veneziani
Gabriele d’Annunzio fu l’ultimo dei conservatori dell’800 e il primo dei rivoluzionari del ‘900. Quando scrissi La rivoluzione conservatrice (1)in Italia cercai il filo rosso in cui delineare quella che veniva definita, da Norberto Bobbio ed altri l’ideologia italiana. La definizione, che solitamente si riferisce all’humus mitteleuropeo tra le due guerre, era stata coniata nel 1927 da Hugo von Hoffmansthal in una conferenza tenuta a Monaco di Baviera su “La letteratura come spazio spirituale della nazione”. Hoffmansthal era un fervente dannunziano e aveva assistito al celebre Discorso della siepe, del 1897 tenuto dal poeta a Pescara; ne aveva riportato per filo e per segno i passi salienti (che si possono ritrovare nei Saggi italiani dello scrittore austriaco).
In quel discorso c’erano le basi per quella che sarebbe poi diventata la rivoluzione conservatrice in Italia. D’Annunzio stava cominciando il suo percorso politico: eletto in Parlamento con la destra, andò poi nei banchi della sinistra (“vado verso la vita”); ma quel passaggio gli fu fatale, non fu poi rieletto. Tuttavia, in quel percorso aveva già maturato l’idea di una politica eroica ed estetica, in cui la moltitudine e l’aristocrazia, la tradizione e la rivoluzione, la nazione e la giustizia sociale si sarebbero incontrate nella sintesi ardita e creativa dell’artista-politico. Erano quelle le basi della rivoluzione conservatrice. L’interventismo fu per lui l’occasione per rendere la poesia totale, visione che si fa azione, letteratura che si fa storia, e che nel nome della nazione mobilita il popolo in un’impresa grandiosa di redenzione e di riscatto. Quella stessa ispirazione produrrà dopo la guerra l’avventura di Fiume, la reggenza del Carnaro, l’incontro tra radicalismo e tradizione, tra sindacalismo rivoluzionario e nazionalismo dei reduci. E tra la guerra e l’impresa fiumana, d’Annunzio dà vita a una liturgia politica e combattentistica, tiene a battesimo una ricca ritualità nutrita di simboli e di miti, che impregna i suoi gesti e i suoi discorsi “alati”.
Claudio Siniscalchi ha dedicato un breve ma incisivo saggio a “D’Annunzio, custode del Disordine”, edito da Oaks; ripercorre il cammino dannunziano cogliendo il filo conduttore proprio nella chiave della rivoluzione conservatrice. Un ossimoro che rappresenta meglio di qualunque altro la coincidenza degli opposti che animò la visione dannunziana e quella di molti autori ed eventi seguenti. D’Annunzio galvanizza e potenzia i due fattori antagonisti e ritrova in quell’incontro tra gli opposti l’energia, la scintilla che accende la storia. La vita come opera d’arte passa così dalla solitudine dell’eroe, del poeta, dell’artista superuomo, alla moltitudine e ai combattenti. È quello il D’Annunzio politico, che Gioacchino Volpe descrisse tra i primi; poi vennero Renzo de Felice, Leeden e altri autori. Che questa coincidenza degli opposti sia l’essenza dell’ideologia italiana, lo pensa anche Siniscalchi. E che quella visione in altre forme e con altri linguaggi, riguardi anche Papini e Prezzolini, Malaparte e Mussolini, mi sembra evidente. Ma prima di loro, Alfredo Oriani e sul versante poetico Giovanni Pascoli e Giosuè Carducci avevano già prefigurato, conciliando nazionalismo e socialismo, con forti ascendenze imperiali e militari. Non fu solo d’Annunzio, o Marinetti, a elogiare la guerra e a eccitare gli animi nel nome della Patria e del Popolo. Per certi versi era la linea di Crispi, come ben evidenzia Siniscalchi, opposta a Giolitti. Una linea per così dire di sinistra nazionale, mediterranea, risorgimentale, garibaldina. L’autore ne descrive la parabola e il travaglio in un confronto con Gentile e con Gramsci, avvalendosi anche dell’acuta interpretazione di Augusto del Noce.
Siniscalchi scandisce il suo viaggio in più tappe, dal d’Annunzio politico al letterato, dall’esteta decadente al poeta condottiero fino all’avventura fiumana, per concludersi con il “Vate degli italiani”. Ricorda i giudizi critici più autorevoli, da quello di Croce a quello di Pirandello, le ironie di Marinetti e dei futuristi. È un breve viaggio nella vasta e densa parabola dannunziana che altri, da Maurizio Serra a Giordano Bruno Guerri e Annamaria Andreoli, hanno descritto in volumi ponderosi. Pertinente è il paragone con Wagner e la giusta insistenza sulla forte influenza esercitata da Nietzsche sul poeta: ma il suo Zarathustra alla solitudine preferisce il balcone, parla alle masse, mobilita le moltitudini.
A voler cercare un sostrato filosofico alla visione dannunziana lo ritroviamo nell’intreccio di volontarismo, vitalismo e sovrumanismo: è a Nietzsche che si deve risalire. Gli aggettivi che accompagnano i tre ismi sono eroico, epico e lirico. Nietzsche è il pensatore che permea quasi tutta la letteratura e l’arte, l’estetica e l’interventismo del Novecento. Futurismo e dannunzanesimo ne sono impregnati, anche inconsapevolmente.
È però da notare, come giustamente evidenzia Siniscalchi, che pur impregnata di nazionalismo, italianità e romanità, la rivoluzione conservatrice italiana, a partire da quella dannunziana, si inscrive in realtà nella rivoluzione conservatrice europea, come osservò anche Ernst Nolte. Quanto più parlavano di italianità tanto più forte era il loro debito verso autori e correnti francesi e tedeschi, da Nietzsche a Sorel, dall’Action francaise a Spengler e agli autori mitteleuropei.
Il saggio di Siniscalchi si conclude soffermandosi sul rapporto tra d’Annunzio e il fascismo che a suo dire è stato “la pietra tombale” su d’Annunzio. Oggi per rilanciare D’Annunzio si insiste fin troppo sul suo presunto antifascismo e comunque sulla impossibilità di imprigionare il poeta nel fascismo. Si potrebbero sottolineare elementi sia a favore che contro quella identificazione o quella vicinanza. Siniscalchi si muove con prudenza, attenendosi ai fatti, senza forzature di sorta. Come ci è già capitato di scrivere, non si tratta di stabilire se D’Annunzio sia stato o no fascista ma di riconoscere che il fascismo è stato dannunziano. Profondamente e superficialmente dannunziano, nella visione, nei riti, nel linguaggio e nelle pose. D’Annunzio era già d’Annunzio quando sorge il fascismo; aveva più di cinquant’anni, aveva scritto e vissuto le cose più importanti della sua vita e della sua opera, aveva già detto, fatto e scritto e pensato le cose importanti. La sua rivoluzione conservatrice era già passata dalla destra alla sinistra e ritorno al nazionalismo, dalla guerra all’impresa fiumana: il fascismo venne dopo e ne subì la fascinazione. Tra mille altre cose d’Annunzio fu anche suo precursore.
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