Un mondo sull’orlo del baratro: la nuova guerra americana si prepara nell’ombra, tra illusioni imperiali e tracolli annunciati.

Washington D.C distrutta in un’ambientazione post-apocalittica

DE BELLO AMERICANO

Il Simplicissimus

In un’epoca segnata da contraddizioni, cecità strategiche e illusioni di controllo globale, De Bello Americano si interroga su quanto ci separa – davvero – da una nuova guerra devastante. Washington ha tracciato una linea rossa intorno all’Iran, costringendolo a scegliere tra la totale resa tecnologica e la sopravvivenza sovrana. Mentre le manovre diplomatiche cedono il passo alla logica dello scontro, il tempo si stringe e gli alleati si scoprono vulnerabili, con Israele sull’orlo dell’impotenza e l’intelligence occidentale ormai compromessa. Nel cuore di questa analisi pulsa una domanda angosciante: quanto pesa ancora il sogno egemonico delle élite occidentali? Attraverso il prisma delle teorie geopolitiche di Brzezinski e le rivelazioni del generale Wesley Clark, il testo svela un disegno di lunga data: smembrare, infiltrare, comandare. Ma ogni impero ha il suo prezzo, e quello che si profila all’orizzonte per gli Stati Uniti non è solo un possibile bagno di sangue, ma la fine della propria centralità globale. Uno sguardo impietoso ma necessario, per comprendere come la politica estera americana non sia solo una questione di petrolio o missili, ma il teatro finale di una crisi sistemica dell’Occidente. (Fonte Redazionale)


Viviamo in mezzo a segnali contraddittori e assurdi tra i quali si naviga a vista, senza avere alcuna bussola. Da una parte Washington ha praticamente messo l’Iran nelle condizioni di dover scendere in guerra, visto che non solo dovrebbe rinunciare totalmente al nucleare civile e sanitario, ma anche privarsi di qualsiasi tipo di missile, rimanendo così indifeso. Dall’altra Trump si è preso due settimane di tempo per decidere e a quel punto Israele avrà finito i missili contraerei e sarà inerme contro Teheran, tanto più che nella prima azione, quella del 13 giugno che avrebbe dovuto essere decisiva, non ha colpito il nucleo della difesa e dell’industria militare iraniana, tutta sottoterra, ma ha fatto venire allo scoperto molte delle quinte colonne israeliane e occidentali che operano sul territorio iraniano, e dunque un secondo colpo di quel tipo non è più possibile. Così come si allontanano le speranze di un cambio di regime per il quale tali organizzazioni di infiltrati erano state create, finanziate, armate e accompagnate dalla solita cornice mediatica di dissidenti e di cronisti a pagamento di provenienza occidentale. Allora sarà guerra o pace per quanto precaria?

Heartland.

Da una parte il rischio di un intervento diretto per gli Usa è enorme, visto il rischio di sconvolgimenti anche sul piano economico che potrebbero affondare il potere e il prestigio di Washington, per non parlare della possibilità di conflitto nucleare generalizzato oppure di un’operazione di terra che sarebbe un bagno di sangue, una sorta di Afghanistan moltiplicato per diecimila e destinato al fallimento. Dall’altra c’è il fascino che le élite anglosassoni hanno per l’Heartland (1)da parecchio più di un secolo: la sua più recente formulazione è quella di Zbigniew Brzezinski, esposta ne “La grande scacchiera”, secondo cui l’Iran è la chiave per controllare una porzione maggiore dell’Asia e quindi una porzione maggiore del mondo. L’obiettivo di un cambio di regime in sette Paesi del Medio Oriente e dell’Africa, incluso l’Iran, come riportato dal generale Wesley Clark, e le misure sostenute per smembrare i Paesi del Medio Oriente in feudi più piccoli, sono la realizzazione del piano. Ma a pensarci bene anche lo Stato di Israele ha l’unica funzione di essere la pistola fumante nell’area del petrolio in ragione di questo disegno, e la sua sopravvivenza, oltre al suo reddito, non è certo dovuta alla sua piccola e stentata economia, ma solo ai trasferimenti finanziari e militari dall’Occidente.

Sarà più forte il richiamo dell’esca o la paura di ficcarsi un amo in gola? La domanda serve a mostrare ancora una volta, esattamente come accade in Ucraina, come gli Usa si trovino dentro una palude: non possono smettere di sostenere Israele a causa della politica interna fortemente influenzata dalle lobby sioniste e dai vecchi sogni egemonici tanto a lungo coltivati, ma non osano inviare truppe e armi statunitensi in battaglia contro l’Iran anche perché i militari e l’intelligence dicono che probabilmente alla fine gli Stati Uniti perderebbero. Inoltre, posizionare le forze Nato vicino al confine con la Russia non funziona meglio in Iran che in Ucraina e adesso gli Stati Uniti si sono resi conto che la Russia non è più solo una stazione di servizio, come dicevano nella loro logora stupidità, ma una delle tre superpotenze al mondo, e una tale provocazione è estremamente pericolosa.  I sostenitori di Trump sono divisi tra i sionisti cristiani che sostengono l’entrata in guerra e i sostenitori del Maga che vogliono restarne fuori ed è per questo che The Donald viene sballottato avanti e indietro, finendo per rilasciare dichiarazioni sciocche e contraddittorie che lasciano a bocca aperta e che danno l’impressione che ormai la terza guerra mondiale non sia più evitabile.

In realtà a Trump basterebbe non fare nulla, assumere il tono tonitruante che gli è proprio, mostrare i muscoli, mandare in giro navi, lanciare allarmi, senza mai togliere la sicura: la semplice diminuzione di invio di armi a Israele e all’Ucraina aprirebbe naturalmente la strada alle trattative di pace. Purtroppo, però non ha né l’abilità, né la possibilità di farlo, tirato com’è da tutte le parti e adesso si aggrappa a Putin perché sia lui a trovare una soluzione. Ma chiedere all’arcinemico di venire in soccorso è in fondo la migliore e più conclamata dimostrazione del declino statunitense e assieme della follia europea dedita alla sconfitta sempre e comunque, ma in ogni caso sempre più ai margini degli eventi. Napoleoni con lo scolapasta sulla testa.

Redazione

 

 

 

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