Nella seconda metà del ‘500 lo spostamento dell’asse economico dalla linea Mar Adriatico-Mar Baltico alla linea Gibilterra-Fiandre-Londra provocò il declassamento del Mediterraneo e la decadenza politica dei paesi collegati

Declino e decadenza nell’Italia del Seicento

Nella seconda metà del Cinquecento, lo spostamento dell’asse economico dalla linea Mar Adriatico-Mar Baltico alla linea Gibilterra-Fiandre-Londra provocò il declassamento del Mediterraneo e la conseguente decadenza politica della Spagna e dei paesi ad essa collegati.

Come tale, l’Italia da baricentro dei traffici mediterranei, si trovò al di fuori delle rotte commerciali più importanti e le fiorenti città marittime come Genova e Venezia, pur conservando – ancora per qualche lustro – lo splendore della loro vita artistica, non riuscirono più ad opporsi alla sopravvenuta competitività dei tessuti inglesi o dei manufatti delle Fiandre e della Germania. Ciò avvenne non solo a causa della nuova geografia derivante dalle scoperte ma soprattutto dall’incapacità di riconvertire l’assetto oligarchico e corporativo delle arti e dei mestieri in un più moderno assetto capitalistico concorrenziale.

Mentre Francia, Olanda ed Inghilterra riuscivano – nei mercati vecchi e nuovi – ad offrire i loro prodotti a prezzi più bassi, nel nostro Paese l’eccessivo controllo delle corporazioni «obbligava i manifatturieri italiani a continuare con metodi di produzione e di organizzazione aziendale superati dai tempi»[1], caratterizzati da un eccessivo peso fiscale e da un alto costo del lavoro se confrontati con quelli dei paesi concorrenti.

Proprio quando l’economia italiana aveva maggiormente bisogno di allinearsi con quelle europee, l’irrigidimento corporativo contribuì – con la sua decisa difesa dell’ordine precostituito – a mantenere alto il livello dei prezzi dei prodotti manifatturieri italiani e, di fatto, a provocarne il crollo delle esportazioni.

Le associazioni corporative artigiane mostrarono così la loro vera natura – quella cioè di prevenire ed ostacolare qualsiasi forma di concorrenza tra gli associati – e nella miope difesa del localismo e del particolarismo, contribuirono alla provincializzazione del nostro Paese ed alla perdita del primato italiano in molti settori produttivi, primo tra tutti quello tessile.

La riaffermazione della nobiltà nelle gerarchie sociali fu solo uno degli aspetti di una più vasta rifeudalizzazione[2] che interessò l’intera società italiana compromettendo in modo definitivo l’assimilazione consapevole e la diffusione dei nuovi saperi, dei nuovi criteri di lavoro e dei nuovi comportamenti economici.

Nel Seicento, infatti, ricomparvero rafforzati una serie di elementi di carattere feudale nella vita sociale, politica ed economica della Penisola quali: l’acquisto dei titoli nobiliari, la ripresa di forme di oppressione dei lavoratori nelle campagne, il rinnovato prestigio delle arti e delle corporazioni che, ostacolando i nuovi produttori e opponendosi a qualsiasi innovazione, impedirono alle imprese manifatturiere degli Stati italiani di competere con quelle dei Paesi europei causando così il crollo degli utili mercantili.

Ciò provocò la corsa agli investimenti feudali-immobiliari che, garantendo nel breve periodo maggiori profitti, stimolarono un’aspirazione innata dello spirito italico di ogni tempo: «la tendenza alla rendita»[3] che spinse il ceto possidente ad investire il denaro – ritirato dalle attività industriali – nell’acquisto di terreni. Questi inoltre, non vennero acquistati per aumentarne la produttività o per porre in essere miglioramenti nei sistemi di coltivazione e di irrigazione, ma per conseguire diritti feudali e regalie che servivano a creare, per i detentori, redditi aggiuntivi alla rendita fondiaria.

Ad essa si affiancò poi quella proveniente dalla vendita ai privati, effettuata dal governo spagnolo – in difficoltà economica per esigenze di guerra – di vere e proprie attribuzioni giurisdizionali, quali il diritto di riscuotere i tributi, i diritti daziari, quelli sulle acque e sul sottosuolo. Questo tipo di contratti, frutto della «mentalità anti-economica della classe dirigente castigliana»[4], furono chiamati nel Regno di Napoli «arrendamenti»[5] e costituirono ben presto una nuova forma di rendita che poteva tra l’altro essere trasmessa in eredità o ceduta a terzi.

Una tale forma di investimento, se da una parte garantì ai possessori del capitale la possibilità di vivere senza esercitare una vera e propria attività lavorativa, dall’altro si tradusse in un danno incalcolabile per la collettività e per l’economia italiana, nel suo complesso, la cui struttura produttiva finì per veder mutato il suo assetto in senso parassitario.

In tutta la Penisola, il debito pubblico dei vari stati aumentò a dismisura e sempre più rare si fecero le forme di investimento produttivo dei capitali mobiliari. L’Italia si era definitivamente trasformata da paese esportatore di beni di lusso – servizi delle banche, assicurazioni, trasporti di merci e prodotti delle imprese manifatturiere – a paese arretrato (che non di rado era costretto ad importare dall’estero anche beni di prima necessità), ben lontano dal dotarsi di una classe dirigente all’altezza della situazione e che, anziché creare ricchezza, si assicurerà delle rendite vitalizie, laddove non ereditarie, almeno vitalizie.

Roberto Bonuglia

 

Bibliografia

  • [1] C.M. Cipolla, Il declino economico dell’Italia, in Id.Saggi di storia economica e sociale, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 78.
  • [2] Cfr. R. Villari, La Rivolta antispagnola a Napoli. Le origini (1585-1640), Bari, Laterza, 1967, pp. 216 et passim, ma anche A. De Maddalena, Il mondo rurale italiano nel Cinque e Seicento, in «Rivista Storica Italiana», a. LXXVI, n. 2, 1964, pp. 362-363.
  • [3] R. Romano, Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, Torino, Einaudi, 1971, p. 199.
  • [4] G. Spini, Storia dell’età moderna. Dall’Impero di Carlo V all’Illuminismo, Roma, Cremonese, 1960, p. 392.
  • [5] Cfr. L. De Rosa, Studi sugli arrendamenti del Regno di Napoli. Aspetti della distribuzione della ricchezza mobiliare nel Mezzogiorno continentale (1649-1806), Napoli, Ed. L’arte Tipografica, 1958 e P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari, Laterza, 1962.

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