”La cosa, in sé e per sé, potrebbe apparire comica
DEL “CARCIOFO” E ALTRE STRATEGIE
La cosa, in sé e per sé, potrebbe apparire comica. Una sorta di umorismo involontario. O, meglio ancora, di paradosso.
Molti analisti occidentali, soprattutto italiani, pontificano sul fatto che Vladimir Putin stia adottando la, classica, “strategia del carciofo” nei confronti della povera Ucraina.
Una foglia alla volta. Sino a papparsela tutta.
Prima la Crimea, ora il Donbass. E, asseriscono, va fermato subito. Altrimenti…
Insomma, è necessario, anzi obbligatorio fermare Putin. Altrimenti chissà dove potrebbe arrivare, con la sua ambizione di ricostruire l’Impero degli Zar. E quello dei Soviet.
Ora, che qualche elemento della “strategia del carciofo” possa intravedersi nell’azione di Mosca in Ucraina è, probabilmente, vero. Prima ha acquisito, senza colpo ferire, la Crimea. Poi è toccato al Donbass. Inizialmente attraverso accordi diplomatici che permettessero alla regione – storicamente, linguisticamente e culturalmente russa – uno statuto speciale. Tale da garantire la sua sicurezza, e, contemporaneamente, l’influenza di Mosca.
Falliti questo tentativi diplomatici, perché Kiev, spalleggiata da Washington, ha sempre disatteso agli accordi di Minsk, è cominciata la guerra. Con un doppio obiettivo: l’annessione del Donbass, e la neutralizzazione del resto dell’Ucraina. Per evitare un’ulteriore espansione ad oriente della NATO.
Tuttavia, è proprio qui il nocciolo del problema.
La strategia del Cremlino non è che la logica e inevitabile conseguenza, potremmo dire la reazione, a quella attuata dalla NATO sin dal crollo del Muro di Berlino(1).
Quando, di fronte alla prospettiva della riunificazione tedesca, Washington assicurò a Mosca, ad un troppo malleabile – perché in gravi difficoltà interne – Gorbaciov, che la NATO non si sarebbe mai espansa ad oriente della Germania.
Come, in realtà, siano andate le cose è ben noto. A tutti, tranne ai, cosiddetti, analisti che oggi pontificano sulla minaccia della “strategia del carciofo” russa.
La NATO, approfittando del caos interno alla Russia nei, folli, anni di Eltsin, ha inglobato, uno dopo l’altro, tutti gli ex satelliti sovietici.
Polonia, Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria. I confini della Alleanza Atlantica si sono, progressivamente e rapidamente, spostati ad oriente. E, contemporaneamente, occupando tutta la ex Jugoslavia. Tranne la Serbia, da sempre legata alla Russia. Che, però, è stata duramente colpita e costretta a rinunciare al controllo della Bosnia e del Kosovo.
Per quella che, in linea teorica, dovrebbe essere un’Alleanza difensiva, non c’è decisamente male, non vi pare?
Poi, la NATO ha fatto un ulteriore passo avanti. Annettendosi i Paesi Baltici. Lituania, Estonia, Lettonia. E questo, al Cremlino, è stato letto come un segnale estremamente pericoloso.
Perché le tre piccole repubbliche non erano ex satelliti sovietici. Erano stati parte integrante dell’URSS, e, prima ancora, dell’Impero degli Zar. Con periodi di indipendenza, in epoca recente, alquanto brevi.
A questa espansione NATO, Mosca non fu in grado di reagire. Aveva altri problemi interni di cui curarsi. La crisi economica, i secessionismi di Cecenia, Daghestan, Inguscezya nell’inquieto Caucaso…
E così anche altre tre foglioline del carciofo russo vennero sfogliate.
La musica è, però, cambiata, nel 2008. Quando la Georgia, di fatto sempre più nell’orbita statunitense, tentò di annettersi manu militari l’Ossezia del Sud. Provincia (nominalmente) ribelle, ma di fatto restata legata alla Federazione Russa.
La reazione di Mosca fu fulminea. In meno di una settimana l’Armata Russa era alle porte di Tblisi. Dove si fermò. Per tornare indietro.
Era un segnale ben preciso. Il Cremlino non era più disposto ad accettare che venissero strappate altre foglie al suo carciofo.
E i georgiani lo capirono bene. Tant’è che, oggi, fanno una politica tesa a mantenere buoni rapporti con il grande, e ingombrante, vicino. Anche perché ricordano bene di essere stati lasciati soli di fronte al blitz russo. Contro ogni promessa della NATO.
Che, evidentemente, fu presa di sorpresa. Impreparata alla reazione russa. Infatti, era prevalsa negli ambienti atlantici la convinzione che la Russia fosse ormai solo una potenza di terz’ordine. Destinata a un continuo declino. E che quindi fosse facile strapparle, una alla volta, tutte le sue “foglie”. Riducendola allo spazio dell’antico principato della Moscova.
Una convinzione che, evidentemente, ha continuato a prevalere a Washington e Londra. Portando dritto sino al conflitto in Ucraina. Un paese che, storicamente, è sempre stato parte integrante, e importante, della Russia. Mai indipendente.
Il buon senso, anche strategico, avrebbe raccomandato maggiore prudenza. Il cercare di mantenere un’Ucraina indipendente e neutrale, uno Stato cuscinetto, utile per evitare, e decantare, conflitti. E invece…
E invece sappiamo come è andata. E come sta andando. Ora, al di là delle dichiarazioni di facciata, resta solo da vedere se Kiev crollerà militarmente a breve, o se, per un totale disimpegno della NATO, sarà necessario attendere il cambio di inquilino nello Studio Ovale.
Esperienza che, comunque, dovrebbe insegnare come la “strategia del carciofo” non possa sempre venire applicata senza pagare prezzi molti alti. E che, forse, sarebbe più opportuno tornare a ragionare in termini di “concerto di potenze”, o, se vogliamo, di equilibrio multipolare.
Sarebbe… se si fosse appresa la lezione. Tuttavia, l’impressione è diversa. Quello che sta accadendo in Moldavia, in Armenia e anche in Bosnia non ci dà molte speranze… a meno che, con un cambio alla Casa Bianca…

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