”Il nuovo lavoro di Giorgio Montefoschi ha un titolo coraggioso, perché potrebbe far pensare ad una storia d’amore melensa e ritrita. Invece è veramente un bel libro, intenso e nostalgico
Il nuovo lavoro di Giorgio Montefoschi ha un titolo coraggioso, perché potrebbe far pensare ad una storia d’amore melensa e ritrita. Invece è veramente un bel libro, intenso e nostalgico
“Il desiderio non conosce tempo” leggiamo nella quarta di copertina e nella storia è così. Matteo Gennari, il protagonista, è sempre stato innamorato di Livia Ceriani, da che erano ventenni, studenti all’Università di Roma.
La storia è divisa in tre parti: nella prima parte, la passione che Matteo prova per Livia seppur ancora giovane, impacciato è già struggente desiderio, una fiamma che avvampa forte, da sconquassargli il petto. Nella seconda Matteo è diventato giornalista, è sposato, ha due figli, ma l’improvvisa apparizione di Livia che torna dopo vent’anni di assenza, annulla tutta la vita intercorsa in questi anni, azzera le distanze, il matrimonio con Anna, i figli avuti con lei. Tutto. Al desiderio tutto soggiace. Ma è un desiderio ricambiato solo in parte. Livia, sfuggente giovinetta e poi donna indipendente, lascia ogni volta l’amaro in bocca al protagonista, un uomo nei confronti del quale ho provato sentimenti altalenanti, dalla simpatia alla rabbia.
Uno stile delicato, che sa dipingere immagini di leggerezza e di fuoco, il fuoco del desiderio, una calamita irresistibile, un richiamo che non si può ignorare, quella che fa tornare ogni volta Matteo dalla donna che, ancora a distanza di quarant’anni, entra nei suoi sogni, col suo sorriso da ragazzina, gli occhi scuri, i capelli al vento insieme alle atmosfere di quando nelle estati lontane andavano in vespa.
Roma non è sullo sfondo, Roma è protagonista in questo romanzo, con i nomi delle vie da Viale Bruno Buozzi ai Parioli, a Villa Borghese, d’estate, d’autunno, d’inverno coi suoi colori ed i suoi profumi: la stessa Livia dopo vent’anni in Inghilterra sente il richiamo della sua città e forse anche dell’amore che dice di non provare, “Io non amo nessuno”. Ma…sono solo parole?
Nella storia intervengono vari personaggi, familiari e soprattutto amici di gioventù che si incontrano a distanza di tempo, ognuno cambiato, segnato. Nella vita si cambia, ma il desiderio persiste. Matteo nel cuore sembra sempre lo stesso giovane che si legge all’inizio del libro: sempre smanioso, taciturno, sempre innamorato della stessa donna.
La predominanza della forma dialogata su quella narrativa ha un grande pregio di cui mi sono accorto solo più tardi: entrando nei dialoghi non solo il narratore si eclissa quasi del tutto, ma lo stesso lettore si annulla, diventa egli stesso partecipe di una storia in divenire, è spettatore dei discorsi. Il lettore rischia di dimenticarsi che sta leggendo.
Una lettura che coinvolge, la storia di due amanti, che come sostiene la Sgarbi nella seconda di copertina , si ameranno e si cercheranno anche reincarnati in nuove vite. Un libro struggente, tenero.
La trama del romanzo
“Il vero protagonista del libro è il desiderio allo stato puro, irragionevole e cieco, senza età e senza amore. Desiderio tra un uomo e una donna che saranno amanti sempre e comunque, anche nelle vite in cui si reincarneranno. Matteo e Livia sono due personaggi che rimangono nell’anima, con un languore, una scia di dolorosa malinconia, come la Micol di Bassani, come certi amanti di Moravia. Come capita con i classici, che diventano esperienze nella vita del lettore. Livia è un sogno sfuggente che appare e scompare, seduttiva come seduttivo è Matteo nella sua fedeltà assoluta e cieca al desiderio di Livia, per cui è pronto a mettere tutto in discussione, anche la stessa Livia che non è all’altezza della sua passione. Nei tre tempi del romanzo risalta la permanenza del desiderio contro l’impermanenza della vita ‘ufficiale’: non che quest’ultima sia falsa e l’altra vera. Ma la vita ufficiale cambia e passa, il desiderio, immutato, rimane identico a sé… Hai scritto un romanzo bellissimo.”
Come inizia
“Dov’è, dov’è la mia piccola dea…”
Euripide, Elettra, II episodio
Parte prima
“È arrivato Matteo Gennari,” annunciò Marco fermandosi a metà delle scale.
“Ma che ore sono?” Nella sua stanza Livia sbadigliò.
“Le undici.”
Fuori, il cielo era azzurro. Sui campi fra l’Appia e l’Ardeatina il grano, già parecchio alto, era mosso dal vento. Un aereo, in attesa di atterrare sulla pista dell’aeroporto di Ciampino, virava dai Colli Albani verso Ostia.
“Roma è deserta.” Mentre Marco attraversava il piazzale di ghiaia, Matteo si tolse il giubbotto.
“Stanno tutti al mare.”
“O ai Castelli.”
“O al comizio di San Giovanni. Tu ci sei mai stato?”
“No.”
“Nemmeno io.”
Al piano di sopra, un’imposta sbatté contro il muro.
“Dove siete?” Livia si sporse oltre il davanzale.
“Sulla panca,” rispose Marco.
Scese venti minuti più tardi.
Nei capelli neri, lucenti, che da un mese, dopo il taglio drastico deciso all’improvviso col parrucchiere, le denudavano gli zigomi, le guance incavate, il naso sottile e dritto, aveva infilato gli occhiali scuri; una macchiolina di dentifricio le era rimasta in un angolo delle labbra; i bottoni slacciati della camicia celeste di tela scoprivano sul collo esile il filo della catenina d’oro.
“Ti hanno restituito la Vespa,” disse a Matteo.
“Sì, finalmente.”
“Quanto te l’hanno tenuta?”
“Venti giorni.”
“Degli incapaci.” Si installò sul sellino.
Marco intanto, in cucina, trafficava con le pentole.
“Quale usiamo?” Uscì dalla porta-finestra mostrando alla sorella due teglie di diversa grandezza.
“Quella.”
“Non è piccola?”
“Allora l’altra.”
S’era stirata le braccia.
“Io,” guardò nel pacchetto, “sono rimasta con tre sigarette.”
“Fattele bastare.” Marco rientrò.
“No. Vado e torno. Anzi: mi ci porta Matteo.”
“Ma dove?” Matteo scosse la testa.
“Allo spaccio.”
“Non è chiuso?”
“Quelli sono aperti sempre.”
“Pure il primo maggio?”
Dovevano, dopo il viale sterrato in discesa che conduceva al cancello della tenuta, prendere la via di Torricola e imboccare l’Ardeatina. Il viale era ancora dissestato dalle piogge torrenziali di Pasqua.
“Qui,” avvertì Livia, “è pieno di buche.”
“Le ho viste,” Matteo la rassicurò.
“A Pasqua era un ruscello. Non smetteva mai…”
“Voi che facevate?”
“Io, non facevo niente. Marco studiava. Mamma tormentava papà.”
“Per cosa?”
“Si preoccupa al di là di ogni limite ragionevole, e lo ossessiona, poveretto.”
“Vengono, oggi?”
“No. Se ne sono andati via ieri pomeriggio.”
Avevano oltrepassato il cancello. La via di Torricola, fiancheggiata dai pini a ombrello, scorreva dolcemente; le corolle dei papaveri spuntavano dall’erba selvatica e dalle spighe; nell’aria tersa volavano minuscoli frammenti di paglia.
“Tu ti sei mosso o sei rimasto a Roma?” Livia provò a staccare le braccia con le quali s’era stretta a causa dei sobbalzi.
“No.” Matteo rallentò, a pochi metri dall’incrocio con l’Ardeatina. “Non mi sono mosso.”
“Tuo fratello Andrea?”
“È andato da Marina a Sabaudia. La domenica e il lunedì.”
“Loro hanno una bella villa.”
“Sì, sulle dune.”
“Oggi che faceva?”
“Non lo so.”
Lo spaccio era aperto; come aveva detto.
Comprarono le sigarette, una scatoletta di fiammiferi svedesi, i biscotti per la colazione, una bottiglia grande di Coca-Cola; ispezionarono i tavoli della trattoria contigua al bar, sui quali i camerieri disponevano i piatti; ordinarono due caffè; rimisero in moto; dopo aver incrociato il traffico dei ritardatari in uscita dalla città verso i laghi di Castel Gandolfo e di Nemi, girarono in via di Torricola, e riattraversarono il cancello.
Sul prato incolto a sinistra del casale, da dove era possibile spingere lo sguardo fino all’Appia Antica, Leone Bellentani accarezzava i riccioli biondi di Sofia, la sua ultima fiamma, che distesa come lui sull’erba gli poggiava la testa in grembo. Nelle tre sedie a sdraio disposte in cerchio dalla parte opposta al parcheggio delle macchine, Giovanni Gerbi leggeva “Il Messaggero”; Luca Simoncelli diceva qualcosa a Nora Modiano che immobile, gli occhi serrati, si crogiolava al sole; Luisa e Maria Angrisani stendevano sopra il tavolo di legno rustico, schermato dai grappoli e dalle foglie del glicine, una tovaglia bianca; Marco badava al forno.
“Secondo te va bene a duecento?” chiese a Matteo che stava infilando in frigo la Coca-Cola.
“Io,” confessò Matteo, “non è che me ne intenda molto.”
“Chiedi a una ragazza.”
Livia stava aprendo un ombrellone.
“Tuo fratello,” la raggiunse, “vuol sapere se il forno va bene a duecento.”
“Duecento?”
“È giusto,” intervenne Nora.
“Anche duecentoventi,” sbucò Giovanni da dietro “Il Messaggero”.
“Che ne sai tu?”
“Come, che ne so?”
Sul viale, lentamente, avanzavano Sofia e Leone.
Sofia aveva composto un mazzetto formato da quei fiorellini celesti, rosa, viola pallido che nella campagna romana crescono fin da marzo o aprile; Leone, indietro di un passo, muoveva l’obiettivo della macchina fotografica che gli pendeva dal collo.
“Vi faccio una foto.” Si fermò a cinque metri dalle sdraio. “Ma dovete esserci tutti.”
“È obbligatorio?” sempre da dietro il giornale Giovanni si informò.
“Dai!” Leone finse di non aver sentito. “Chiamate le Angrisani. Dove sono?”
“Dentro.”
Livia s’era accesa la prima sigaretta del pacchetto nuovo, intanto; Nora aveva spalancato lo sportello della vecchia Morris di suo padre – sempre profumata di colonia e tabacco da pipa – e frugava nella borsa; senza capire granché, Luca ascoltava la dettagliata illustrazione della nuova Nikon, ricevuta in regalo a Natale, che gli stava propinando il futuro ingegner Bellentani.
“Quando andate a caccia, te la porti?” a un tratto domandò.
“Ogni tanto.”
“Magari scoprite dei posti bellissimi.”
“Sì, però noi a caccia spariamo, soprattutto…”
“Devono ammazzarne più che possono,” Livia commentò.
“E che altro dovremmo fare?”
“Non andarci per niente, a caccia,” disse Livia.
“Sì, certo…”
“Guarda che non scherzo mica.”
“Lo so… Spostati un po’ a sinistra.”
“Così?”
“Perfetto…”
“È a colori?”
“In bianco e nero.”
Il caldo che, mentre mangiavano, era sembrato quasi estivo e, dopo pranzo, soprattutto in chi non si era risparmiato col vino, aveva suscitato il desiderio di tornare a stendersi sulle sedie a sdraio, o sul prato, o addirittura dentro casa, sul divano del salotto-soggiorno in fondo al quale il camino conservava i tizzoni carbonizzati del fuoco acceso la sera precedente, era scemato a poco a poco. I raggi del sole, che già cominciavano a inclinarsi nella direzione delle spiagge di Torvajanica e Castelporziano, filtravano attraverso i rami della mimosa e dell’eucalipto. Dai grappoli del glicine, le api volavano sui dolci rimasti sopra la tovaglia insieme al vassoio del caffè, i bicchieri, le brocche, le bottiglie.
“La città in cui vorrei vivere?” Livia aveva appena ripetuto la domanda di una specie di que stionario di Proust scovato in un cassetto. “New York. O Londra.”
“Il tuo peggior difetto?” Matteo passò alla successiva.
“La pigrizia.”
“La qualità che preferisci in un uomo?”
“Il coraggio, e la gentilezza.”
“La tua idea di felicità?”
“Svegliarmi tardi la mattina e fare colazione a letto.”
“Il tuo stato d’animo attuale?”
“Tranquillo… No, indifferente…”
Nel piazzale, dopo aver accompagnato Luisa e Maria all’appuntamento stabilito con la signora Angrisani, Leone e Marco erano scesi dalla macchina.
“Lo abbiamo fatto.” Rivolgendosi a entrambi, Livia agitò il foglietto.
“E che ne è uscito fuori?” Leone s’avvicinò.
“Che siamo agli antipodi su quasi tutto. Io preferisco i dolci, lui il salato; io amo l’estate, lui l’autunno; io vorrei vivere a New York o a Londra, a lui piace vivere a Roma.”
“Anche a me piace vivere a Roma.”
“Roma, rispetto a Londra e New York, è provinciale.”
“Io ci sto benissimo.”
Sofia si girò: “Di che parlate?”
“Di Roma,” spiegò Matteo. “Che Livia giudica provinciale rispetto a Londra e New York.”
“È vero,” le diede ragione Nora Modiano. “Roma è provinciale. Più di Milano.”
“Ma va’!” esclamò Luca.
“Roma ha il cinema…”
“E basta.”
“Quindi tu ci vivresti a Milano?”
Sofia si stava alzando.
“Dove vai?” Leone la intercettò.
“Da nessuna parte,” rispose. “Ho preso troppo sole.”
“Vieni qui.”
“Sì. All’ombra.”
Lui le cercò una mano.
“È proprio ferreo,” gliela strinse, “questo orario delle otto?”
“Sì, Leone: è ferreo, te l’ho detto.”
“E cenate alle otto in punto?”
“No, non ceniamo alle otto. Ci sono i miei zii.”
Mancava ancora un po’ di tempo. Alle sette montarono sulla Lancia blu che qualche volta Antonio Bellentani concedeva a suo figlio la sera e nei giorni festivi, scesero per la via di Torricola e si inserirono nel traffico già scorrevole del rientro. Poco dopo, al termine di una breve passeggiata, salutarono anche Luca Simoncelli e Nora Modiano. Mentre la Morris spariva sul viale sterrato, Marco disse che saliva un momento in camera a guardare degli appunti. Livia raccolse da terra una salvietta di carta.
“Che dici,” la appallottolò, “rientriamo o stiamo fuori?”
“Per me,” rispose Matteo, “è lo stesso.”
“Allora stiamo fuori. Ti ricordi l’anno scorso?”
“Come no! Faceva un freddo cane.”
“Mi venne un mal di gola…”
Avevano rioccupato, scostandole dal tavolo, le poltroncine di vimini sulle quali si erano seduti per affrontare il questionario di Proust.
“È bello questo posto,” fissando le luci tremolanti dei Castelli, Matteo disse piano.
“Molto.”
“E sono bellissimi i boschi. Soprattutto quelli attorno al lago di Nemi. Hanno un grande fascino.”
“In che senso?”
“Custodiscono parecchie leggende.”
“Antiche?”
“Di epoca romana.”
“Dimmene una.”
“Be’, per esempio, c’è quella del Ramo d’oro.”
“Che dice?”
“Che nel recinto del santuario di Diana a Nemi cresceva un albero di cui non si poteva spezzare nessun ramo…”
“Perché?”
“Perché se qualcuno lo spezzava acquisiva il diritto di battersi col sacerdote del santuario e, se lo uccideva, diventava re del bosco. Un ramo magico, insomma… Poi c’è quella della ninfa Egeria, identificata in una fonte che scendeva nel lago, dove le donne andavano a immergersi e a bere se volevano dei figli; e quella di un certo Virbio, che si diceva fosse lo stesso giovane greco Ippolito, discepolo della dea Artemide, infatti andava sempre a caccia…”
“Come Leone.”
“Sì, come Leone. Però non amava le donne. Così Afrodite, la dea dell’amore, sentendosi disprezzata, si vendicò facendo in modo che la matrigna di Ippolito si innamorasse di lui e, pure lei trascurata dal bel ragazzo che andava sempre a caccia, lo denunciasse al padre Teseo dicendo che l’aveva insidiata, mentre era assolutamente falso, con tutto quello che poi ne seguì: la morte di Ippolito, Fedra che si impicca, la scoperta dell’inganno… Insomma, la tragedia di Euripide che si legge al liceo…”
Dai prati saliva il mormorio degli insetti e dei grilli che già anticipava la stagione estiva; la ghiaia restituiva il calore del giorno; dalle aiuole e dal vicino orto veniva il profumo dei frutti ancora acerbi ma quasi pronti, insieme a quello, solare, delle piante di pomodoro; di colpo, nel folto delle foglie, si liberava un frullio di ali.
“Tu sai un mucchio di cose,” Livia ruppe il silenzio.
“Non è vero,” Matteo si schermì. “So quelle che si studiano per gli esami.”
“Quanti te ne mancano?”
“Nove.”
“E dopo che vuoi fare? Insegnare a scuola?”
“Perché a scuola? All’università, semmai. Comunque non so se ne avrei tanta voglia. A me, quello che interesserebbe sarebbe di lavorare nel cinema, o in un giornale.”
“Tuo padre non è giornalista?”
“Sì, è giornalista…”
“Quindi ti potrebbe aiutare.”
“Lo spero.”
“Perché, speri?”
“Perché è un ambiente difficile, in cui c’è molta concorrenza, ci sono molte invidie.”
“E nel cinema che ti piacerebbe fare?”
“Scrivere le sceneggiature.”
“Non il regista?”
“No, lo sceneggiatore.”
Ormai era quasi buio.
“Io non so che farò,” Livia rifletté.
“Non hai detto che vorresti vivere a Londra o a New York?”
“Sì, magari per qualche anno…”
“A New York è pieno di opportunità. Puoi fare di tutto.”
“È vero.”
Piegando il busto in avanti, con la punta di un rametto tracciava sulla ghiaia dei piccoli ghirigori.
“Intanto,” accennò un sorriso, “visto che sono lì, potrei sposare uno ricchissimo.”
“Un miliardario…”
“Un produttore di Hollywood.”
“Hollywood è in California.”
“Però i produttori stanno anche a New York; poi hanno gli uffici a Los Angeles… Comunque,” abbandonò il rametto e sollevò il viso, “voglio andarci, in quel bosco. Organizziamo una gita.”
“Una domenica.”
“Oppure un giorno qualunque.”
Passò un minuto.
Il sorriso con il quale aveva dichiarato che avrebbe potuto sposare un miliardario produttore di Hollywood era svanito; gli occhi sembravano più grandi.
“A che stai pensando?” Matteo si schiarì la gola.
“A niente,” lei mormorò.
“Non ci credo.”
“Invece è vero,” ribadì.
Quindi prese la brocca di terracotta dell’acqua e vide che era vuota; insieme ai bicchieri sparsi sul tavolo la mise nel cestino che fungeva da vassoio; infilò il pacchetto delle sigarette nel taschino.
“Mio fratello,” s’avviò verso casa, “non è normale, però. Esagera. Sempre.”
“Ha l’esame la prossima settimana.” Matteo la seguì.
“E non poteva leggerseli a Roma, fra un’ora, questi appunti?”
L’ingresso e il vano delle scale erano al buio.
“Marco!” lo chiamò. “Quanto ti manca?”
“Ho quasi finito.”
“Muoviti, su, per favore.”
Dopodiché accese la luce che pendeva dal soffitto sopra il tavolo da pranzo, quella di un lume da terra con la cloche avorio, e si lasciò cadere in un angolo del divano.
“Ci sarebbero gli avanzi,” sospirò.
“Io,” disse Matteo, “non ho una gran fame.”
“Io, zero.”
Sul camino, a sinistra di un vaso azzurro pallido da cui emergevano i fiori dei lillà, una cornice d’argento conteneva il ritratto fotografico della famiglia Ceriani, scattato di fronte alla pergola spoglia del glicine in una giornata di sole piuttosto fredda – a giudicare dai cappelli e dai giacconi – di non molto tempo prima, nella quale alle spalle dei genitori, Umberto e Clara, seduti nelle poltrone da regista, stavano in piedi Marco e Livia. A destra, una serie di cornicette di forme e dimensioni diverse ospitavano soltanto immagini dei due figli.
“Questa dove l’hai fatta?” Matteo ne prese una piccola in mano e la girò.
“Qual è?” Livia abbandonò lo schienale.
“Tu in un giardino, a piedi nudi, con il copricostume bianco.”
“Allora è a Fregene.” Tese il braccio e la mise sotto la cloche.Si vedevano un paio di aiuole, un lembo di prato, una siepe di recinzione, al di là della siepe i pini a ombrello, una piazzola di mattonelle simile a quelle che in alcuni stabilimenti balneari vengono usate la sera per ballare, un tavolino di vetro, un dondolo.
“Quanti anni avevi qui?” Matteo accostò il viso.
“Tredici.”
“Hai un’aria serissima.”
“È vero.”
“E i capelli tutti scarmigliati…”
“Mio padre mi chiamava ‘la zingara’. Ci passavamo tre mesi, a Fregene.”
“Ti piaceva?”
“Non tanto.”
“Perché?”
“Tre mesi era troppo.”
“Non avevi delle amiche?”
“Qualcuna, in spiaggia. Io, però, non ero per niente socievole a tredici anni.”
“Eri timida?”
“Anche. Sono cambiata quando i miei hanno cominciato a spedirmi a Londra. Lì, se non altro per parlare la lingua, fare amicizia era obbligatorio.”
Marco, intanto, aveva depositato la sua borsa in ingresso.
“Sopra,” disse, “ho chiuso tutto.”
“Io,” Livia lo scrutò, “metto via due gonne e andiamo.”
“Senza cenare?”
“Abbiamo stramangiato.”
“E gli avanzi?”
“Li lasciamo alla signora Agnese con i soldi e un biglietto.”
“Che scrivi tu.”
“No, tu.”
S’era alzata a fatica.
“È difficile questo esame?” domandò Matteo all’amico.
“Facile,” rispose, “a Ingegneria non ce n’è nessuno. E il professore ha fama di essere una belva.”
“Tu sono mesi che studi.”
“Sì, ma in Fisica non sono mai stato fortissimo. E certe volte mi prende l’ansia.”
La cornicetta con la fotografia di Fregene era rimasta sul divano.
Marco la rimise al suo posto e girò gli occhi intorno; aprì una dopo l’altra le tre finestre e si assicurò che le veneziane già serrate avessero anche il fermo; si appoggiò al muro.
“È carina Sofia,” interruppe un breve silenzio.
“Molto,” Matteo annuì.
“Soprattutto, per lui è la persona giusta. Lo placa e non è remissiva.”
“Da quant’è che stanno insieme?”
“Mi pare quattro mesi. Ma con Leone non si possono fare calcoli.”
“Io lo conosco poco.”
“È un prepotente…”
“Leone?” trascinando la sua valigia, a colpo sicuro Livia si inserì.
“Perché, non ho ragione?”
“Come no!”
Stava squillando il telefono.
“Era papà?” chiese Marco, appena Livia riagganciò.
“Mamma.”“Che voleva?”
“Ricordarci la busta per la signora Agnese.”
Fuori, nel cielo rischiarato dai bagliori delle prime periferie e del quartiere di San Giovanni, dove si era svolto il comizio, nonché da un incrociarsi di fari all’altezza del vicino Ippodromo delle Capannelle per un probabile, ulteriore appuntamento della grande festa popolare, si indovinavano le prime stelle.
“Ti basta questo giubbotto leggero?” disse Livia, vicino alla Vespa, in attesa che Marco, tornato a prendere la busta nella camera dei genitori, riscendesse e scrivesse il biglietto.
“Assolutamente sì.” Matteo cercò una manica e ci infilò la mano.
“Sei sicuro?”
Lei, sopra la camicia di tela, aveva un golf blu scuro, l’incerata gialla usata nei giorni piovosi di Pasqua, il foulard di seta con i fiori, afferrato dall’attaccapanni, penzolante sulle spalle.
“Si può sapere che combini?” Vedendolo incastrato nella manica, posò il foulard sul sellino.
“Non lo so.” Matteo provò, di nuovo invano, a liberarsi.
“È rivoltata. Non te ne sei accorto?”
Rideva. Ma erano molto vicini; si toccavano, a tratti, perché lo stava aiutando; e il profumo della sua pelle che saliva dal collo e dalle guance sfiorate dai lembi aperti del colletto, quello dei capelli gonfiati dalla spazzola prima di spegnere la luce del bagno, era incantevole, notturno, diverso da quello quasi impercettibile della spedizione in Vespa allo spaccio, ancora intriso di sonno, poi nel corso della lunga giornata all’aperto smarrito. Così, quando l’operazione di soccorso ebbe termine, e lei si fu allontanata di un passo, sentendo la medesima fragilità che all’improvviso gli era corsa nel sangue dopo il questionario di Proust, i discorsi sul matrimonio miliardario tra Los Angeles e New York, Matteo allungò un braccio e strinse un istante quello di lei protetto dalla cerata gialla; in una specie di mezza carezza – il gesto che fino a ora una quantità di occasioni avevano suggerito – gli passò le dita ripiegate fra lo zigomo e il mento; e, con un tono di voce che doveva essere a ogni costo distaccato e mondano, le disse: “Adesso scommetto che per almeno tre o quattro mesi non ci vedremo più.”
“E perché?” Livia replicò, pur essendo rimasta di marmo.
“Tu, coi tuoi, sei sempre in giro.”
“Ma no!”
Marco stava girando la grossa chiave del portone.
“Eccoci.” Li raggiunse.
“Il biglietto?”
“L’ho scritto.”
Matteo aveva messo in moto la Vespa.
“Dicevamo di vederci.” Livia aprì lo sportello della Citroën.
“Certo.” Marco aprì il suo.
“Io fino a tutto luglio sto a Roma.”
“Allora ci sentiamo.” Livia abbassò il finestrino.
Quindi – la Citroën due cavalli, adatta per la campagna, avanti, la Vespa dietro – scesero sulla via di Torricola, poi, dopo l’incrocio con l’Ardeatina, loro accelerarono l’andatura e, dopo un paio di chilometri, scomparvero. Matteo costeggiò il muro di recinzione delle catacombe di san Sebastiano, al bivio entrò nell’Appia Antica e, facendo attenzione ai sampietrini sconnessi e alle buche, raggiunse le Mura Aureliane; passò davanti ai ruderi delle Terme di Caracalla e a quelli del Palatino; dal viale dell’Anagrafe, costellato di manifesti del Partito comunista che invitavano al comizio del segretario Palmiro Togliatti, svoltò a sinistra e percorse tutto il Lungotevere, sotto gli alberi gonfi di verde, fino alla sagoma grigia del Palazzo di Giustizia: baluardo, sul fiume, del quartiere Prati; attraversò piazza Cavour e i viali; rapidamente – senza smettere di pensare a come, standogli così vicina, lo aveva aiutato a rimettersi il giubbotto – arrivò in via Angelo Brofferio.
Le finestre al terzo piano erano illuminate.
Nella sala centrale – ricavata, alla metà degli anni Cinquanta, abbattendo la parete fra la stanza da pranzo e il salotto – Mariafranca Gennari e sua sorella Luciana, il cugino giovane, nonché scapolo, Alberto Gennari e Dora Canestrari, professoressa di Storia e Filosofia al liceo Mamiani di viale delle Milizie, giusto alle spalle di via Brofferio, giocavano a canasta. Sul tavolo moderno di legno chiaro, rettangolare, attorno a un vaso di tulipani gialli, c’erano i piatti freddi che anche quella sera Mariafranca aveva portato per la cena dalla cucina – non di rado sostituiti dal caffellatte, dal pane e marmellata, dalla ricotta con cacao e zucchero. Al di là del tavolo, Massimo Gennari leggeva nella sua poltrona.
“Se hai fame,” disse Mariafranca dopo i saluti come sempre veloci ai quali si concedono i giocatori di carte, “è tutto lì.”
“Più che fame, ho sete.” Matteo si versò l’acqua dalla brocca.
“Noi pure,” Luciana distaccò pensierosa le parole, “abbiamo preso due foglie di insalata e basta.”
“Io nemmeno quelle,” s’accodò Dora Canestrari, mentre Alberto dichiarava: “Io metto il fante qui, qui il re e ho chiuso.”
Matteo, intanto, aveva raggiunto suo padre.
“Che stai leggendo?” Spiò le pagine del libro abbassato sui ginocchi.
“Ferito a morte di Raffaele La Capria. Il premio Strega dell’anno scorso.”
“È bello?”
“Ha uno stile particolare. Movimentato…”
“In che senso?”
“Salta da un’immagine all’altra, da un tempo all’altro.”
“Dov’è ambientato?”
“A Napoli. Ma dimmi di te. Com’è andata?”
“Bene.” Matteo si sedette. “Anzi: benissimo.”
“E in che punto è, esattamente, questa campagna?”
“Fra l’Appia e l’Ardeatina.”
“La casa è grande?”
“Un casale. Con intorno i magazzini, le stalle in disuso. Ai figli piace molto.”
“Ai genitori, meno?”
“Non si capisce. Il padre ha problemi di salute.”
“Che fa?”
“Faceva l’avvocato. Ora non lavora quasi più. Amministra le cose che hanno.”
“Beato lui.”
“È più anziano di te.”
Al tavolino da gioco avevano terminato la mano.
“Prima,” ondeggiando sui fianchi robusti, il cugino Alberto si avvicinò, “parlavate del premio Strega…”
“Del libro che ha vinto la scorsa edizione.” Massimo gli mostrò la copertina.
“Sì, Ferito a morte, ho sentito.”
“L’hai letto?”
“Non ancora. Quest’anno chi c’è?”
“Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi,” intervenne Dora Canestrari.
“Di che parla?”
“Di un maestro di scuola a Vigevano, che poi è l’autore stesso.”
“E vale la pena?”
“È stupendo.”
“Allora me lo porto a Fiuggi.”
“Sempre in quell’alberghetto carino?” Luciana distribuì le ultime carte.
“E per quale motivo dovrei cambiare? I padroni mi conoscono, sono gentili. Ci sto da Dio…”
Continua a leggere…
L’autore
Giorgio Montefoschi è nato a Roma nel 1946, è romanziere e critico letterario. Si è laureato in Lettere, con una tesi sul romanzo di Elsa Morante “Menzogna e Sortilegio” e collabora da vari anni alle pagine culturali del “Corriere della Sera”. L’esordio come romanziere risale al 1974 con “Ginevra” (Rizzoli)
Tra le sue numerose opere ricordiamo La casa del padre (1994, Premio Strega), Il segreto dell’estrema felicità(2001), La sposa (2003), Lo sguardo del cacciatore (2003), L’idea di perderti (2006), Le due ragazze con gli occhi verdi (2009), Eva (2011), La fragile bellezza del giorno (2014), Il volto nascosto (1991, 2015) e Il corpo(2017). La nave di Teseo ha ripubblicato il suo romanzo d’esordio Ginevra (1974, 2019), Il Museo Africano (1976, 2019) e L’amore borghese (1978, 2020).
- Desiderio
- Giorgio Montefoschi
- Editore: La nave di Teseo
- Collana: Oceani
- Anno edizione: 2020
- In commercio dal: 13 febbraio 2020
- Pagine: 324 p., Brossura
- EAN: 9788834602010. Acquista. € 18,05