Dopo La città interiore, Mauro Covacich compone una nuova, potente avventura narrativa che ha il coraggio dell’autobiografia più vera. Un romanzo capace di entrare con esattezza nel presente che plasma le nostre vite.

La trama del romanzo.

Una piccola anomalia cardiaca viene scoperta all’uomo che ha il nome e le sembianze dell’autore, allontanandolo da un’attività sportiva ai limiti del fanatismo e infrangendo l’illusione di un’efficienza fisica senza data di scadenza. È questo l’innesco di un romanzo sul corpo, ma soprattutto sul cuore come luogo dei sentimenti e dei destini individuali. C’è un ragazzo caduto, o forse lasciato cadere, da una finestra di un albergo di Milano durante una gita scolastica. Ci sono gli esseri umani, fragili e pieni di voglie. La solitudine e il desiderio. Ma la storia gira attorno alla relazione dell’autore con la sua compagna, alle trasferte di lavoro, alle tentazioni a cui sono esposti, alla fiducia e al sospetto di cui si nutre la convivenza. Chi è, ad esempio, quell’uomo che si infila in casa loro la notte? Una pista porterebbe nel quartiere, il Villaggio Olimpico di Roma, popolato da figure che sembrano carte dei tarocchi e che lo scrittore consulta nelle sue camminate erranti.

Come inizia.

Onde, se io non avrò forse il coraggio o l’indiscrezione di dir di me tutto il vero, non avrò certamente la viltà di dir cosa che vera non sia.

Vittorio Alfieri

La sonda spara ultrasuoni nel petto. Al primo contatto con la pelle la sua testa scivolosa mette i brividi, poi prevalgono le immagini. Sullo schermo una sagoma medusoide pulsa nell’oscurità. Si dilata e si contrae in mezzo a quel nero dove all’improvviso potrebbero comparire palombari. Oppure astronauti. Ma non c’è nessuno nel petto, ci sono solo le cose contenute in ogni essere umano. La dottoressa aggiunge altro gel e continua a perlustrare piano, alla cieca, gli occhi sempre fissi sul monitor, indugiando un po’ sotto lo scalino delle costole. Si ferma, ingrandisce, scruta i due vani inferiori, appena visibili nel pulviscolo, divisi da una parete che si scuote al loro stesso ritmo, spazzata da una corrente incessante.

   È tutta roba mia quella, non è la fossa delle Marianne, non è un pianeta sconosciuto.

   Distolgo lo sguardo e contemplo il profilo azzurrino della dottoressa, chissà per quanto ancora assorbita dal suo viaggio, la sinistra sulla sonda, la destra sulla tastiera. Sento il suo alito di sigaretta. Mi piace una cardiologa fumatrice al centro di medicina dello sport. Alle sue spalle è appeso il disegno anatomico dell’organo che sta esplorando, però nessuno ci crederebbe a confrontarlo: tubicini rossi, tubicini blu, l’illusione beffarda di un sistema invulnerabile, la sezione di un motore eterno. Fuori dalla porta le voci della segretaria e del tizio arrivato dopo di me che ora sta già pagando, ancora in lieve affanno per la prova da sforzo, poche parole né allegre né tristi, la solita routine del certificato, idoneità agonistica. Anch’io ero così l’anno scorso. Perché l’ecocardiogramma oggi, non bastava il test sulla cyclette? È una domanda che ho preferito non fare. Ogni tanto serve un pollo da spennare, ecco la verità. Ora mi alzerò dal lettino con un bel referto inutile in mano e dovrò solo elargire a questi ladri una donazione di ulteriori novanta euro, eccola qui l’anomalia sistolica.

   E quando ormai mi sto rivestendo e la dottoressa si è spostata alla sua scrivania zeppa di taocchiali e cavi di alimentazione e chiavette USB e ombrellini da cocktail, sento che dice:

   “Eh sì, per un po’ lei deve stare a riposo.”

Nella palestra nuova, dove mi sono iscritto correggendo un vecchio certificato per attività non agonistica, sfrutto quasi esclusivamente la piscina scoperta, una vasca da cinquanta metri che al mattino è frequentata da silfidi e tritoni della prima squadra (corsie dalla 1 alla 4), qualche avvocato dorsista che fa il pieno di endorfine prima di entrare in studio (corsie 5 e 6), donne del tipo alternativo alle patite degli attrezzi, senza protesi ungulari, spesso anche senza smalto o tutt’al più nero vinile e solo ai piedi (corsie dalla 6 alla 9) e leoni dei Parioli in quiescenza, che trascinano le infradito chiacchierando a piccoli gruppi sull’ampio bordo vasca come antichi filosofi peripatetici.

   Immagino di perdere i sensi. Ieri Alberto mi ha parlato di sincope. Eravamo al solito indiano di piazza Vittorio.

   “È un’ipotesi remota, però il rischio c’è. Non sapessi quanto sei fissato, ti ordinerei di smettere. Devi ridurre intensità e frequenza. Fai il dieci per cento di quello che facevi, non di più.”

   In acqua si può perdere i sensi? Penso alle centinaia di scene, nei film, nei cartoni animati, in cui lo svenuto viene risvegliato da una secchiata d’acqua. No, non può succedermi finché nuoto. Basta che tenga la faccia sempre sotto. Basta che respiri il meno possibile. Mi vedo disteso accanto alla scaletta, il bagnino che mi osserva a un palmo dal naso – il fiatone, la maglietta fradicia, gli occhi sgranati – mentre rigurgito un rivolo di colazione ai piedi dei curiosi raccolti in cerchio sopra di me. Oppure non si accorge di niente, resta a leggere il suo Kindle e io galleggio bocconi nell’indifferenza generale, con gli ultimi residui di ossigeno che si ritirano dal cervello come aloni di vapore sul vetro.

   Appena entro in spogliatoio prendo venti gocce di Lexotan contandole sulla lingua, senza bisogno del bicchiere.

   In doccia uno dice all’amico: “Stanotte ho sognato che mangiavo un piatto di spaghetti.”

In realtà, per consultarmi con Alberto ho aspettato che ci appartassimo un bel po’ dopo il pranzo. Non mi andava di coinvolgere anche Francesco e Gianfranco, il primo alle prese con la depressione della madre, asserragliata in casa e decisa a rifiutare ogni nuova domestica per proseguire nella sua ascesi di accumulatrice seriale, il secondo in procinto di affrontare un intervento manutentivo a un precedente trapianto di cornea.

   Camminavamo lenti godendoci il sole di marzo in direzione del caffè e del bignè da Regoli (mezzo bignè a testa più un maritozzo intero per Alberto). Parlavamo del ragazzo morto in un albergo di Milano durante una gita scolastica. Provo a ricostruire un filo più o meno sensato nell’accavallarsi delle voci.

   “Nessuno ha bevuto molto.”

   “E tu come lo sai?”

   “Dai giornali, dai rilievi sui giornali.”

   “Eppure, chissà come, i compagni di stanza non si sono accorti di nulla.”

   “Dice che dormivano.”

   “Be’, era notte fonda.”

   “Forse gli hanno messo del lassativo nella birra.”

   “Bello scherzo, eh?”

   “Che non facevi scherzi, tu, da ragazzo?”

   “Ma perché allora non è corso in bagno?”

   “Non avrà fatto in tempo.”

   “Su e giù per il corridoio, le porte chiuse, nessuno che ti apre.”

   “E si sarà liberato, dove stava stava.”

   “Poi, visto il danno…”

   “Ah sì, non basta lo smacchiatore, lì devi sostituire la moquette.”

   “Gesù, che disperazione.”

   “Intanto senti nuovi crampi in arrivo…”

   “Che casino, ma perché si è tolto mutande e pantaloni?”

   “Dice che li hanno trovati sporchi.”

   “Be’, se vuoi arrampicarti più facilmente sulla finestra e farla fuori…”

   “Solo che è caduto lo stesso.”

   “Messa così, è quasi meglio l’atto vandalico.”

   “Un po’ Amici miei, un po’ Arancia meccanica.”

   “Infatti. Se non altro il vandalismo ti fa pensare che erano complici, insomma, che stava insieme ai compagni. Fa meno male.”

  “Sai che complicità con quelli che lo lasciano morire e se ne scappano in camera…”

   “Io non credo che lo abbiano tenuto per le braccia sospeso nel vuoto mentre la faceva.”

   “Perché?”

   “È una posizione impossibile, il sistema neurovegetativo blocca la muscolatura liscia.”

   “Ah.”

   “Se invece lo reggevano mentre lui stava accosciato in bilico sul cornicione, non avrebbero avuto difficoltà a tirarlo dentro, una volta finita. Non ci sarebbero neanche i lividi ai polsi.”

   “Già, i lividi.”

   “I lividi escludono pure che fosse solo.”

   “Certo oh, che carogne.”

   “No, io li capisco, neanch’io avrei detto niente agli interrogatori.”

   “Ma che dici!, che capisci!, chi li capisce gli adolescenti, quelli sono marziani.”

   “Fortuna che non abbiamo figli.”

   Era una buona battuta per cambiare argomento, abbiamo annuito, ma nessuno di noi ci credeva: non Francesco che da un anno si è convertito alla vita di coppia e ha addirittura preso in affitto un trilocale con giardino a Tor Pignattara insieme alla nuova compagna; non Gianfranco, il più dolce e paterno di noi quattro, che è stato lasciato dalla ragazza con cui si era comprato una casetta fuori Roma, nel paese dove lei lavorava; non io che dieci anni fa ho sottoposto Susanna a una cura intensiva di traslochi, feste, concerti, attraversate sfiancanti in motorino da una parte all’altra della città con l’obiettivo, fatalmente raggiunto, di un cosiddetto aborto spontaneo; ma forse neanche Alberto, che l’aveva pronunciata, ci credeva fino in fondo.

   Figli ce n’erano lì attorno, di ogni tipo e dimensione. Ragazzini africani lunghi come gambi di sedano giocavano a pallacanestro nel campetto interno alla piazza, minuscole cinesi dai capelli scintillanti sciamavano a gruppi dalla scuola modello del quartiere, e c’era il moccioso del fioraio bengalese che mangiava del riso insieme al padre direttamente dalla vaschetta di plastica, seduti spalla a spalla in mezzo alla loro oasi di begonie e gerbere, giusto dirimpetto alla sede ufficiale dei giovani fascisti.

   Vengo volentieri all’Esquilino, anche se ci metto una quarantina di minuti tra metropolitana e tram. Per un po’ l’ho snobbato perché sembrava il posto obbligato per viverci se eri uno scrittore, uno sceneggiatore, un fotografo, un regista – una specie di riserva naturale per artisti immersa nel sogno del melting pot newyorkese – poi col tempo ho dovuto ammettere a malincuore che i gusti di quella gente assomigliavano ai miei. Ieri, in particolare, assaporavo ogni passo, guardavo anche le scarpe da nove euro e novanta esposte sulla bancarella sotto i portici, indugiavo davanti alla vetrina coi teleobiettivi “trovati” chissà dove e svenduti la domenica da scagnozzi quasi sempre slavi su teli incerati, stesi a terra, al mercato di Porta Portese. Gli altri mi aspettavano con indulgenza: senza che glielo avessi mai confidato, sapevano che per me era il momento più importante della settimana (ma non escludo fosse ai primi posti anche per loro).

   “Il ‘Corriere’ mi ha proposto di andare a vedere l’albergo. Magari ti viene qualcosa,” ho detto ripetendo le parole del vicedirettore, mentre superavamo il negozio di spezie, procedendo sgranati nel viavai del marciapiede, ormai a pochi metri dalla pasticceria.

   “Quando ci vai?”

   “Ho preso tempo, ma non credo che ci andrò.”

   “Perché?”

   “Perché non riesco a pensare a nient’altro che al sollievo di quel ragazzo.”

   Per un attimo Gianfranco si è fermato. Alberto e Francesco si sono voltati a guardarmi. Solo allora mi sono accorto che sin dall’inizio avevo osservato la scena dal punto di vista del figlio, non dei genitori, non del padre. D’altronde non smetterò mai di essere un figlio, non sarò mai un padre.

   “È così,” ho detto, “non posso farci niente. Penso solo al suo sollievo. Lo vedo che muove un’ultima volta la testa, disteso sul cemento, nudo fino alla cintola, le braccia disarticolate, la maglietta salita sulla schiena, e sa che non dovrà affrontare la vergogna. Nessuna vergogna, nessun disonore. Sa che qualunque cosa sia accaduta non lo riguarderà più e svanirà come sta svanendo il dolore. E la coscienza.”

   Gli altri mi hanno guardato.

   “Ma questo,” ho detto, “non si può scrivere.”

Ci siamo fermati a parlare ancora per una mezz’oretta a quattr’occhi, poi, quando ormai non me l’aspettavo più, Alberto ha tirato fuori il ricettario come un coniglio dal cappello per il rifornimento che gli avevo chiesto al telefono. Con i foglietti arrotolati in mano mi sono diretto alla metro pervaso da un improvviso senso di leggerezza. Strano, con tutte quelle raccomandazioni e l’ultimo spauracchio gettato lì a mezza bocca: la sincope. A quanto pare le medicine facevano effetto prima ancora di essere acquistate. Anche la colite, il mio bilioso cane di compagnia, mordeva meno. A casa avrei preso un secondo Valpinax e tutto si sarebbe sistemato.

   Così ho deciso di prolungare la passeggiata fino a Termini, tanto per dare un’occhiata alla libreria della stazione. Dieci minuti dopo scendevo sulla scala mobile della linea A, il regno delle zingare. Scacciate dai nuovi scherani del servizio armato il più possibile lontano dalle banchine dei treni dove seminavano il panico, sono costrette ora a lavorare all’esterno dei tornelli, vicino alle macchinette dei biglietti, aree in vero ancora più pescose, colme di turisti coi portafogli in mano, lo sguardo intento a decifrare le tariffe, i trolley dimenticati alle spalle come cuccioli di foche distratte in un mare di orche assassine. Erano lì anche ieri, sparse sugli scalini, sedute con indifferenza in mezzo alla gente che doveva dribblarle per scendere, e si parlavano tra le gambe dei passanti con le loro inconfondibili voci adrenaliniche, piene di scatti, anche quando sono annoiate. Il loro modo di vestire, imitato da photo-editor, commesse di erboristeria, operatrici di organismi non governativi, addette stampa e da ogni altra donna che mi capiti di frequentare. I loro polpastrelli affusolati, di antiche origini indiane, sempre anneriti e unti, come quelle stesse donne intellettuali passate da un giorno all’altro, tutte insieme, ad arrotolarsi piccole sigarette grigio avena, non so se per nostalgia degli spinelli adolescenziali o per protesta verso le multinazionali del tabacco. Il loro sguardo di sfida, la scintilla di follia che fa breccia nei primi strati del guscio e finisce per toccarti dove non ti aspetteresti e sei costretto ad abbassare gli occhi perché non eri preparato e quella sfacciataggine ti ha stanato e ora ti senti nudo, allo scoperto, dirottato dall’orbita rassicurante del tuo giorno di marmotta verso una stella riapparsa a tradimento: desidera!, de-sidera!

   Erano più o meno le quattro, un’ora senza ressa nei vagoni. Si stava larghi, io e tutti questi tizi bianchicci in bermuda e cappellino con le loro mogli spilungone, pronte con un amsorry al minimo contatto. C’era anche qualche filippina, gli occhi in croce sul giochetto del cellulare, i detersivi nelle sporte, in rapida transizione dalla padrona del mattino alla padrona del pomeriggio, ma prevalevano di gran lunga i passeggeri diretti a fotografarsi a Piazza di Spagna, o a San Pietro.

   Pochi giorni fa, più o meno alla stessa ora, in una metropolitana non più affollata di ieri, è salito un energumeno di due metri, i capelli lunghi sulle spalle, gli occhi iniettati di sangue, una punta di freccia infitta nel sopracciglio, più la solita divisa del metallaro ingentilita da arabeschi di borchie e scritte gotiche inneggianti il Valhalla. Vediamo un po’ chi incrocia il mio sguardo, pensava. In fondo l’eye contact è la versione urbana del bungee jumping. Alla fermata successiva sono saliti tre zingari sui dodici anni. Gli si sono avvicinati appena l’hanno visto. “Grande!” gli ha detto uno. “Fico!

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L’autore

 

Mauro Covacich è nato a Trieste nel 1965. Ha pubblicato diversi libri di narrativa, tra cui: Storia di pazzi e di normali (Theoria 1993, Laterza 2007), Anomalie (Mondadori 1998, 2001), L’amore contro (Mondadori 2001 e Einaudi 2009), A perdifiato (Mondadori 2003, Einaudi 2005), Fiona (Einaudi 2005 e 2011), Trieste sottosopra (Laterza 2006), Prima di sparire (Einaudi 2008 e 2010), A nome tuo (Einaudi 2011) e L’esperimento (Einaudi 2013). È inoltre autore della videoinstallazione L’umiliazione delle stelle (Buziol – Einaudi – Magazzino d’Arte Moderna Roma 2010).

 

  • Di chi è questo cuore
  • Mauro Covacich
  • Editore: La nave di Teseo
  • Collana: Oceani
  • Anno edizione: 2019
  • Pagine: 246 p., Brossura

 

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