”Di Maio dà l’impressione di non essere più lui, è come posseduto, e in certi casi perfino ipnotizzato
DI MAIO NON È PIÙ LUI
Con quell’aria da Pacchero Solitario, avanzato dalla cena precedente, Luigi Di Maio si aggira come un orfano di Stato tra i summit e le telecamere. Non evoca più lo squinternato mondo dei Cinque Stelle e l’agitata fauna dei grillini col loro populismo piazzaiolo ma è ormai un compito funzionario della Farnesina che recita in video comunicati stampa prestampati. Caricato come un carillon con una chiavetta tra le scapole, Di Maio ha una vita apparente di ministro come comparsa fissa dei telegiornali, dove rilascia dichiarazioni di assoluta irrilevanza internazionale ma col tono inappuntabile dello speaker istituzionale. Al termine delle sue dichiarazioni, a telecamere spente, viene riposto nell’astuccio per essere riusato il giorno dopo. La sua funzione finisce là.
Di Maio dà l’impressione di non essere più lui, è come posseduto, e in certi casi perfino ipnotizzato: guarda sotto effetto del valium ministeriale la telecamera coi suoi occhi cerchiati di panda e rilascia con una dizione anonima da esami di maturità, quasi sottovoce, il suo dettato di irreprensibili ovvietà. È ormai entrato completamente nei panni del funzionario d’apparato, non c’è più traccia di Beppe Grillo, semmai c’è il Notaio della lotteria Italia o l’ufficiale aeronautico per le previsioni del tempo. È un apparatcik, come li chiamavano nell’URSS.
A essere più precisi Di Maio sembra il portavoce del ministro degli Esteri, di quelli democristiani di una volta, lo stesso misurato aplomb e l’ossequio per la carica; portaborse, che so, di Emilio Colombo, buonanima. Da lui, infatti, sembra attingere il frasario, il modo felpato, il dire doroteo per non dire nulla di sostanziale e di importante. Puro cerimoniale, da guardia in borghese a presidio delle istituzioni. Inappuntabile nel suo vestitino d’ordinanza, compratogli da sua madre per la prima comunione. Considerato il tempo ormai passato da quel dì, Luigino appare ora come lo sposino sceso dalla torta nuziale, col suo abitino, la sua camicina della fortuna, la sua cravattina d’ordinanza, la sua borsona da grande per simulare che è una borsa di studio piena di dossier internazionali. Quando lo vedi ai margini di un vertice, hai l’impressione di assistere a un gioco di simulazione, come quelli che fanno i bambini quando imitano i grandi e dicono parlando alle loro spalle: facciamo che io ero il Ministro degli Esteri. E via con la fantasia, vola gigino vola gigetto.
Quando si tratta di parlare sul serio coi potenti dei problemi veri del mondo ci va Emilio Colombo, o mutatis mutandis ci va il padre putativo, Mario Draghi. Come in Miseria e Nobiltà di Eduardo Scarpetta, Di Maio è entrato nei panni di Peppiniello e sa che deve ripetere “Draghi m’è padre a me”, anche se è figlio politico di Beppe. Per il resto lui fa da controfigura, da stuntman per le telecamere. Quando si tratta di fare foto di gruppo, riprese televisive, anticamere dei vertici, colloqui preliminari sull’uso dei microfoni e igienizzazione delle sedie, occuparsi delle mascherine, dei posti a sedere, allora ci va lui, il raider della Farnesina. Nelle pause del break coffee, lo vedi in posa a favore di telecamera in presenza di statisti e presidenti con cui simula affabilità e colleganza; ma il tempo di scambiarsi i convenevoli e promettere di portare i saluti a Papà Draghi e Mamma Mattarella, e quando si deve realmente decidere, lui si sposta nella stanza dei bambini, dove incontra gli altri portavoce e portaombrelli per fare i giochini senza frontiere.
Però a volte viene da pensare: ma questo che fu presentato come il governo dei migliori, fingendo che fosse il governo dei draghi, ovvero la moltiplicazione di Draghi in tutti i dicasteri, invece ha ministri come Di Maio agli Esteri, Lamorgese agli Interni, Speranza alla Sanità e si potrebbe continuare. Non è uno scherzo: quell’ominarello è stato realmente, regolarmente indicato dalla forza più votata in Italia nel ‘18, il Movimento Cinque Stelle, di cui è stato leader politico. Qui il gioco finisce, la simpatia per il piccolo che si crede statista muta in dramma nazionale. Ma vi rendete conto? Un pupetto con quella biografia mirabilmente riassunta dal governatore della sua Campania, il mitico Vincenzo De Luca, è il plenipotenziario degli Esteri del nostro Paese e incontra i grandi della Terra. Lui, con quel curriculum, che terrà nascosto nei consessi internazionali o che avrà sostituito, noleggiandone uno più brillante e pertinente, per rendersi presentabile. Ci faccia vedere il curriculum, chiesero a Totò e lui rispose: qui, davanti a tutti?
Di Maio ha superato la fase emotiva e populista, è proiettato ormai nella storia, fra i grandi della terra. Nei consessi internazionali figura come Di Mouse, il topo elettronico che muove il cursore sullo schermo del potere.
Però, a dir la verità, Di Maio è oggi uno dei più affidabili ed equilibrati grillini, se considerate che gli altri sono Conte, Fico, Dibba, Raggi e Grillo. È un governativo al 100%, leale con Draghi e con l’intera coalizione, devoto a Mattarella che ai bei tempi dell’infanzia grillina voleva processare. Magari non lo fa per rispetto istituzionale ma solo per durare il più possibile e allontanare finché si può lo spettro delle elezioni. Ma lui non pone ostacoli, non fa il risentito come Conte che si sente il sovrano legittimo in esilio, spodestato da un golpe di usurpatori. Sta lì buono e compito, con le mani conserte, e recita allineato e conforme la parte dorotea. Un tempo parlava a nome di un popolo, di un movimento, di una piattaforma e di una rivoluzione; ora invece è lì, solo soletto che difende il posto, l’auto blu e la finestra con l’affaccio nei TG. Dallo stadio alla Farnesina, Di Maio l’ometto del regime.
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