Pensieri e riflessioni di una viaggiatrice culturale
DIARIO DI UNA FLÂNEUSE – OTTO –
Redazione Inchiostronero
La bellezza di una città non si trova nei monumenti più famosi o nelle piazze più frequentate. È nascosta nei dettagli, in quelle piccole cose che non si vedono di sfuggita. Camminare senza fretta è come passare dall’alta definizione di una fotografia alla delicatezza di una pennellata: ti accorgi di ciò che prima ignoravi, perché il tuo sguardo si allarga e si approfondisce.
Livia mentre parte da Malpensa
Mi chiamo Livia, e viaggio per perdermi. Non cerco itinerari, né mappe da seguire. Non compilo liste di monumenti o attrazioni da depennare. Cammino, osservo, ascolto. Mi lascio guidare dalle città, dai silenzi dei vicoli, dalle storie che si annidano tra le pagine stropicciate di un vecchio libro trovato per caso. A Parigi, ho camminato lungo la Senna al tramonto, lasciando che i versi di Baudelaire si confondessero col rumore dell’acqua. A Praga, ho seguito le ombre di Kafka tra i vicoli della Città Vecchia, mentre nell’aria si mescolavano cannella e vino speziato. A Lisbona, mi sono persa nell’Alfama, tra le voci del fado che salivano dai muri come sussurri malinconici. A Edimburgo, ho lasciato che il vento e le librerie mi scegliessero il cammino, in una città sospesa tra leggende e nebbia. A San Pietroburgo, ho camminato sulla Prospettiva Nevskij sotto un cielo bianco e basso, ascoltando i sussurri di Dostoevskij. A Kyoto, ho imparato il silenzio, tra i torii rossi di Fushimi Inari e le ombre perfette dei giardini zen. A Buenos Aires, ho seguito il ritmo sottile del tango nei passi delle strade, tra i colori sbiaditi di San Telmo e le parole taciute nei caffè letterari. Ho camminato senza direzione tra ricordi e assenze, e lì ho capito che ci sono incontri che non finiscono, nemmeno quando sembrano scomparire. Ora, un nuovo viaggio mi attende. Una nuova città. Un’altra pagina da scrivere camminando.

Arrivo a Bogotà
L’aereo atterra con una leggera vibrazione, come se la città volesse farsi scoprire piano, senza fretta.
Dall’oblò, le montagne avvolgono Bogotá come un abbraccio spezzato, e tra le nubi si intravedono tetti color rame e cortili nascosti.
All’aeroporto El Dorado, l’aria è più sottile. Livia la sente nei polmoni, un respiro più corto, come un pensiero a metà. La luce ha qualcosa di irregolare: filtra obliqua, come se danzasse tra il vetro e la polvere.
Le voci in spagnolo si rincorrono, musicali, rapide. I cartelli dicono “Bienvenidos”, ma il benvenuto vero sta nei gesti: un addetto alla sicurezza sorride con gli occhi; una ragazza aiuta un’anziana con le valigie traballanti.
I colori sono più vivi, ma anche più stanchi: gialli ocra, azzurri spenti, il verde scuro delle divise e delle piante tropicali che spuntano tra i corridoi lucidi.
Livia si ferma un momento vicino a un piccolo chiosco che vende arepas e succo di guanábana. Il profumo del mais tostato le si infila nel naso come un ricordo mai avuto.
Un bambino corre con una spada giocattolo, urlando qualcosa che lei non capisce. Un uomo lo segue tenendo in mano una rosa avvolta nella plastica.
«Taxi?»
La voce arriva improvvisa, gentile ma decisa.
Un uomo le si avvicina, il tesserino al collo e una cartellina trasparente in mano. Indossa una giacca troppo pesante per il clima, e ha il sorriso timido di chi conosce l’attesa.
«Sí, gracias», rispondo, abbozzando un sorriso.
Fuori, Bogotá mi accoglie un cielo lattiginoso e l’odore sottile della pioggia che minaccia ma non arriva.
Il tassista mi apre lo sportello con un gesto cortese. Salgo in silenzio, posando lo zaino sulle ginocchia. La stoffa è calda: ha già assorbito l’umidità dell’aria.
«¿Primera vez en Bogotá?»
“È la prima volta a Bogotá?”
«Sí.»
Non aggiungo altro. Lui annuisce, accende la radio. Dalle casse esce una cumbia pigra, appena sopra il fruscio del traffico.
La macchina si immette sulla Avenida El Dorado. I palazzi scorrono come fotogrammi sgranati: vetro, cemento, grafiche pubblicitarie dai colori saturi. Alcuni murales esplodono sui muri ciechi con una bellezza spavalda: volti indigeni, colibrì, mani che stringono libri. Bogotá sembra già voler dire qualcosa, ma non sono ancora pronta ad ascoltare.
Le montagne a est restano immobili, maestose, come se sorvegliassero la città. Il cielo è grigio, ma non triste — più che altro in attesa. Le nuvole basse sembrano toccare i tetti.
Passiamo accanto a un mercato di strada. Vedo cassette di frutta, banane nere e papaya, tende sfilacciate, donne che indossano grembiuli azzurri e vendono empanadas su griglie improvvisate.
Un uomo al semaforo lava il parabrezza di una macchina che non l’ha richiesto. I suoi occhi incrociano i miei per un secondo, poi si voltano altrove.
«¿Dónde va, exactamente?»
Dove va, esattamente?” chiede l’autista, voltandosi appena.
«La Candelaria, calle 10.»
La Candelaria, calle 10.
Non è un albergo.
È il nome che avevo cerchiato a matita in fondo a una pagina, mesi fa.
Una libreria, forse. Una storia mai iniziata.
O solo un punto sulla mappa che Aina aveva lasciato scivolare in una conversazione, tempo fa.
Qualcosa mi dice che devo cominciare da lì.
Non aggiungo altro.
Non è un albergo.
È solo il primo posto che avevo appuntato, come se qualcosa — o qualcuno — volesse che cominciassi da lì.
Lui annuisce, accende la radio. Dalle casse esce una cumbia pigra, appena sopra il fruscio del traffico.
Annuisce, prende una curva stretta. Le strade cominciano a salire, a restringersi. I palazzi si fanno più bassi, più antichi. I graffiti lasciano spazio a balconi in ferro battuto e a facciate dipinte a mano.
Mi appoggio al finestrino. La città è piena di contrasti — stratificata, accesa, contraddittoria.
Come una voce che cambia timbro a ogni quartiere.
Sto per chiederle chi è.
Ma forse, come sempre, sarà lei a chiedermelo per prima.
Non ho detto al tassista di portarmi in albergo.
Solo: Calle 10, La Candelaria.
Quando ci fermiamo, lui si volta appena.
«¿Aquí es?»
“È qui?”
«Sí. Pero necesito un favor.»
“Sì. Ma ho bisogno di un favore.”
Gli allungo un foglietto con il nome dell’hotel — Casa del Sur, il mio rifugio per le prossime notti.
Gli dico di portare lì il bagaglio. Una piccola valigia e uno zaino.
Gli offro una mancia. Non discute.
Annuisce, con quello sguardo tranquillo che sa già tutto.
«Lo dejaré en la recepción.»
“Lo lascerò alla reception.”
Scendo leggera.
Con me, solo il taccuino, la penna e un desiderio che non so ancora nominare.
La città mi viene incontro, calda e silenziosa.
Cammino.
Un nome appuntato tempo fa, come una nota lasciata da qualcun altro.
Forse c’era una libreria.
Forse solo il bisogno di iniziare da lì.
Mi ha lasciata all’angolo di una strada in salita, piena di colori slabbrati, insegne dipinte a mano e bambini che rincorrono aquiloni bassi.
Cammino senza direzione, seguendo solo le curve dei muri colorati.
Un azzurro pastello mi accompagna per un tratto, poi vira in arancio bruciato, poi ancora in verde bottiglia.
Ogni casa sembra raccontare una storia diversa, ma tutte hanno finestre che sembrano occhi, e balconi che conservano segreti.
Mi fermo davanti a una porta socchiusa.
Dal cortile interno proviene una voce femminile, chiara, profonda.
Sta parlando a un gruppo di bambini seduti su seggioline colorate.
Accanto al cancello, un’insegna: Taller de Teatro Comunitario.
Una delle donne mi vede.
Avrà circa sessant’anni, i capelli raccolti in una treccia argentea, la pelle ambrata e viva.
Mi sorride con naturalezza.
«¿Quiere entrar, señora? Aquí siempre hay espacio para una más.»
“Vuole entrare, signora? Qui c’è sempre spazio per una in più.”
Sorrido, annuisco. Lei si alza e mi viene incontro, asciugandosi le mani su un grembiule.
«¿No es de aquí, cierto?»
“Non è di qui, vero?”
«No. Estoy conociendo.»
“No. Sto scoprendo.”
Lei annuisce con uno sguardo attento.
«Entonces, debe saber que la Candelaria no es solo casas de colores. Tiene alma.»
“Allora deve sapere che la Candelaria non è solo case colorate. Ha un’anima.”
Mi indica con un gesto il cortile.
«Aquí nació la Virgen de la Candelaria. La trajeron los españoles, claro, pero el pueblo la hizo suya…»
“Qui è nata la Vergine della Candelaria. La portarono gli spagnoli, certo, ma il popolo l’ha fatta sua…”
«¿Quiere entrar, señora? Aquí siempre hay espacio para una más.»
Vuole entrare, signora? Qui c’è sempre spazio per una in più.
Sorrido, annuisco. Lei si alza e mi si avvicina, asciugandosi le mani su un grembiule.
«No es de aquí, ¿cierto?»
Non è di qui, vero?
«No. Estoy conociendo.»
No. Sto scoprendo.
«Entonces, debe saber que la Candelaria no es solo casas de colores. Tiene alma.»
Allora deve sapere che la Candelaria non è solo case colorate. Ha un’anima.
Mi indica il soffitto con un gesto lento.
«Aquí nació la Virgen de la Candelaria. La trajeron los españoles, claro, pero el pueblo la hizo suya. Es la virgen de la luz, de las velas. La sacaban en procesión para espantar la oscuridad. Antes eran callejones peligrosos, brujas, demonios. Ahora es teatro. Cultura. Museo. Pero la luz viene de ella.»
Qui è nata la Vergine della Candelaria. La portarono gli spagnoli, certo, ma il popolo l’ha fatta sua. È la vergine della luce, delle candele. La portavano in processione per scacciare l’oscurità. Un tempo c’erano vicoli pericolosi, streghe, demoni. Ora è teatro. Cultura. Museo. Ma la luce viene da lei.
La guardo. Il sole le disegna una ragnatela d’oro sul viso.
«Y usted trabaja aquí, en este lugar.»
Lei lavora qui, in questo posto?
«Trabajo no. Sigo la tradición. Enseñamos teatro a los niños, porque aquí cada pared habla. Cada casa tiene su historia. Esta era una casa di famiglia, ora è palco. Como La Candelaria, como Seki Sano, como García Márquez. Prima erano silencio. Ora fanno rumore bello.«
Non è un lavoro. Porto avanti la tradizione. Insegniamo teatro ai bambini, perché qui ogni muro parla. Ogni casa ha la sua storia. Questa era una casa di famiglia, ora è un palcoscenico. Come La Candelaria, come Seki Sano, come García Márquez. Prima erano silenzio. Ora fanno un rumore bello.
Mi indica i bambini che ridono. Dietro di loro, un murale raffigura la Virgen, circondata da candele rosse, con lo sguardo sereno e pieno di cielo.
«Cuando llegue la noche, vendrán las luciérnagas. Bogotá es così: più si fa scura, più brilla.»
Quando arriverà la notte, verranno le lucciole. Bogotá è così: più si fa buia, più brilla.
Resto qualche secondo immobile. Poi la ringrazio con un cenno.
Riprendo a camminare, ma con un passo diverso. Come se qualcosa, sotto la superficie colorata della Candelaria, avesse cominciato a tremare.
Riprendo il cammino. Le strade si arrampicano dolcemente verso le pendici del Monserrate. Ogni angolo sembra custodire un inizio: una porta socchiusa, una musica lontana, il profumo di caffè tostato che si insinua tra le crepe dei muri.
Passo davanti a un edificio basso con una scritta in maiuscolo: Casa del Florero.
Mi fermo a leggere il cartello turistico. Qui, mi dice, è nato il grido d’indipendenza. Un litigio per un vaso, un pretesto, un fuoco che ha incendiato la storia.
In Colombia, anche la rivoluzione sembra cominciare da piccoli oggetti.
Poco più avanti, intravedo il Museo de la Moneda, con la sua facciata austera e l’aria di una banca in pensione. Non entro. Mi basta immaginarne il peso, il metallo, il suono delle mani che contano e ricontano valore.
Una voce mi raggiunge da dietro. Un uomo sta facendo da guida a un gruppo di turisti.
«Y aquí, en esta calle, Bolívar descansaba después de sus batallas. La Quinta era su refugio en la sabana.»
E qui, in questa via, Bolívar si riposava dopo le sue battaglie. La Quinta era il suo rifugio nella savana.
Mi volto, intravedo il profilo del Museo Quinta de Bolívar. Un altro frammento di passato incastrato nella città.
Tutto si stratifica qui: storia, fede, arte.
Cammino tra i colori come tra pagine non ancora lette. Il rosso vivo di una parete, il giallo senape di un’insegna, il verde ossidato di una grata arrugginita.
Poi il cielo comincia a cambiare.
Le nuvole si muovono veloci. La luce diventa liquida. Le prime luci dei teatri si accendono come fiammelle: Teatro La Candelaria, Seki Sano, El Tecal… Nomi che sembrano poesie mormorate dietro le quinte.
Una fila di studenti aspetta davanti a un ingresso dipinto di blu. Ridono, gesticolano, stringono copioni tra le mani.
«Hoy presentamos una obra nueva: mujeres que no fueron nombradas.»
Oggi presentiamo un’opera nuova: donne che non furono mai nominate.
Resto a guardarli da lontano. Non entro. Non ancora.
Questa città va assaporata come il caffè che promette a ogni angolo: forte, denso, con un retrogusto che arriva dopo.
E io, come sempre, sono qui per perdermi prima di capire.
La luce del tardo pomeriggio si sfila tra i tetti, trasformando le strade in vene d’oro stanco.
Sto per proseguire, quando sento di nuovo la voce dalla porta del teatro.
«Hoy presentamos una obra nueva: mujeres que no fueron nombradas.»
Oggi presentiamo un’opera nuova: donne che non furono mai nominate.
Ma non è la frase che mi ferma. È un nome.
Aina.
L’ho sentito con chiarezza. Pronunciato da una ragazza che tiene il copione in mano, seduta sul gradino dell’ingresso.
Il nome mi attraversa. Semplice, acuto. Come una lama che non cerca il cuore ma lo trova comunque.
Entro.
L’atrio del teatro è spoglio, con pareti grigie punteggiate di manifesti incollati male. Un odore di legno, polvere e tessuti vecchi riempie l’aria. Sul palco, qualcuno sta provando. Le luci sono spente, ma si vede abbastanza.
Un ragazzo recita sottovoce. Ha la schiena dritta, lo sguardo fisso nel vuoto. La sua voce è quella di qualcuno che ancora sta imparando a farsi ascoltare.
Aspetto che finisca la frase, poi mi avvicino.
«Perdón… ¿puedo preguntar algo?»
Scusa… posso chiedere una cosa?
Lui si volta, sorpreso ma non infastidito.
«Claro. ¿Está buscando algo?»
Certo. Sta cercando qualcosa?
«Aina. Ho sentito quel nome. Fa parte della pièce?»
Annuisce lentamente.
«Sí. Aina es uno de los personajes principales. Es una mujer esclava, del siglo XIX. No aparece en los libros, pero existió. Fue costurera, testigo de una rebelión. En la obra, su historia es símbolo de todas las mujeres que no tienen voz.»
Sì. Aina è uno dei personaggi principali. È una donna schiava, del diciannovesimo secolo. Non appare nei libri, ma è esistita. Era una sarta, testimone di una ribellione. Nella pièce, la sua storia è il simbolo di tutte le donne senza voce.
Resto in silenzio. Il suo sguardo si fa incerto.
«¿La conocía?»
La conosceva?
Abbasso gli occhi.
Non saprei cosa rispondere.
Non era lei. Eppure, era lei.
«No. Solo… mi ha colpito il nome.»
Lui annuisce. Come se bastasse.
«Si quiere, puede quedarse a ver un momento.»
«No. Gracias. Preferisco non sapere tutto.»
Esco.
Il cielo è diventato cobalto. Una brezza fredda scivola lungo le pietre.
Mi fermo sul marciapiede, con le mani in tasca.
Quel nome è rimasto dentro.
Non so se come ferita o come salvezza.
Notte a Bogotá — Sogno
La camera è immersa in un silenzio pesante, interrotto solo dal rumore fioco del vento che sfiora le finestre.
Il letto ha lenzuola ruvide, con il profumo lieve del sapone locale. Chiudo gli occhi, e lascio che la stanchezza faccia il resto.
Scivolo via.
Nel sogno, mi trovo su una terrazza. Bogotá è lontana, sotto una nebbia azzurra che sembra un mare in attesa.
Davanti a me, una figura siede su una sedia di ferro battuto. È di spalle, ma la riconosco prima ancora che si volti.
Aina.
Ha un vestito bianco, semplice, e i capelli raccolti in una treccia morbida. Sta cucendo qualcosa: le mani si muovono con una calma assoluta. Ogni punto sembra tenere insieme qualcosa che stava per disfarsi.
Mi avvicino.
«Aina.»
Lei non si volta. Ma mi parla.
«Sapevi che il filo più resistente è quello che ha già ceduto una volta?»
La voce è chiara, bassa, come un canto fatto a metà.
Guardo le sue mani: sta cucendo lettere. Parole. Frasi che non riesco a leggere.
«Dove sei?»
Il silenzio risponde per lei.
Poi, finalmente, si gira. Mi guarda. Sembra più grande. Più distante. Ma anche più viva.
«Sto cucendo tutto quello che non abbiamo detto.»
Mi sveglio di colpo.
Il cuore batte veloce. Le lenzuola sono aggrovigliate, come se avessi lottato con qualcosa.
Mi alzo, apro la finestra. L’aria della notte sa di pioggia e di pianto trattenuto.
Non riesco più a dormire.
E tutto quello che vorrei ora… è sapere dove si trova.
Per scriverle.
Per sentirla dire che esiste ancora, anche se lontana.
Mattina seguente — dettaglio
Scendo a fare colazione più tardi del solito.
Nel patio interno dell’hotel, qualcuno ha lasciato un libro su una sedia di vimini.
È sottile, senza copertina. Rilegato a mano.
Lo apro per caso.
Dentro, tra le pagine, c’è un fazzoletto di lino cucito a mano. Su un angolo, un nome:
Aina.
Non c’è nessuna spiegazione. Nessuna firma.
Solo il ricamo preciso, con filo rosso.
Mi guardo intorno. Nessuno sembra sapere nulla.
Lo tengo tra le mani. Lo piego con delicatezza.
E capisco una cosa sola:
Devo trovarla.
Devo sapere dov’è.
Bogotá Secondo giorno
Il cielo è coperto, ma la luce filtra con una gentilezza che sembra quasi compassione.
Dopo la colazione — caffè forte, pane dolce con guava — mi lascio alle spalle l’hotel e mi addentro nella città con il passo di chi non cerca, ma trova.
Attraverso la Carrera Séptima, dove la vita si dispiega in mille direzioni: artisti di strada, studenti in ritardo, vecchi che giocano a domino, venditori ambulanti che gridano nomi di frutti che non conosco.
Un mimo mi tende una rosa di carta. La prendo. Non la rifiuto mai, la gentilezza travestita da poesia.
Entro nel Museo del Oro. Le sale sono silenziose, illuminate come reliquie.
L’oro non abbaglia. L’oro qui racconta.
Vedo una maschera rituale con gli occhi vuoti. Sembra fissarmi.
Mi chiedo se Aina l’avrebbe trovata bella, o spaventosa.
Mi chiedo troppe cose.
Uscita dal museo, mi sposto verso il parco vicino alla Biblioteca Luis Ángel Arango. Trovo una panchina all’ombra di un albero secolare, i cui rami sembrano mani antiche.
Mi siedo.
Apro il taccuino. La penna scivola da sola.
Non ho un indirizzo. Non ho nemmeno una certezza.
Ma ho bisogno di scriverle.
Aina.
Lettera non spedita 
Aina,
Ti ho sognata. Stavi cucendo parole che non riuscivo a leggere. Forse erano le nostre. Forse erano tutte quelle che abbiamo taciuto per paura, o per stanchezza, o per amore — che a volte è la stessa cosa.
Qui a Bogotá il tempo sembra più lento, ma i pensieri corrono veloci. Ti cercano ovunque: nei muri colorati, nei volti delle donne sedute a vendere dolci, in una canzone che parlava di “mujeres que no fueron nombradas”. Tu non eri nominata, Aina, ma eri presente. Come adesso. Come sempre.
Vorrei poterti scrivere davvero. Sapere dove sei. Sapere se stai ancora cucendo. Se ogni tanto pensi a me. Se a volte ti manca il silenzio che avevamo costruito per difenderci dal rumore del mondo.
Mi manca la tua voce quando facevi finta di non aver paura. E mi manca anche la paura, quando ero con te.
Scrivo queste righe sapendo che non arriveranno. Ma forse una città come questa le saprà conservare meglio di me.
Livia
Richiudo il taccuino con un gesto lento.
Appoggio la rosa di carta tra le pagine.
Poi riprendo a camminare, mentre il cielo sopra Bogotá comincia a minacciare pioggia, come se volesse sciogliere tutto ciò che non può dire.
Bogotá, pomeriggio
Cammino senza più una meta precisa.
La città ha rallentato. I clacson si sono fatti timidi, i passi si attutiscono contro il selciato umido. Le nuvole si sono abbassate ancora.
Sento freddo sulle mani.
Mi rifugio sotto la tettoia di una piccola libreria indipendente, con i vetri appannati e le copertine scolorite.
Una sedia vuota accanto alla vetrina sembra aspettarmi. Mi siedo.
Apro il taccuino per rileggere ciò che ho scritto, forse per strapparlo, forse solo per sapere se sono ancora io.
Il libraio gentile mi offre una tazza di tè caldo, ci voleva proprio.
La rosa di carta cade tra le ginocchia.
Mentre la raccolgo, noto qualcosa infilato tra le pagine, più in fondo. Una piega che conosco, un lembo che sporge appena.
Il foglio.
Quello che Aina mi aveva lasciato.
“Quando tornerai a camminare da sola… aprilo.”
Lo avevo già aperto. L’avevo guardato. Ma ora, adesso, sembra un’altra cosa.
Lo spiego lentamente.
Due figure stilizzate.
Una in piedi, l’altra in cammino. Le mani appena sfiorate.
E sotto, la frase:
“A veces, los lugares que más nos cambian… no están en el mapa.”
A volte, i luoghi che più ci cambiano… non sono sulla mappa.
Ma ora, sotto quella frase, noto un’altra linea.
Sottile, quasi invisibile. Scritta in inchiostro sbiadito, forse emersa col tempo o con la luce di oggi.
Una parola sola:
“¿Todavía caminás?”
Stai ancora camminando?
La guardo. La rileggo.
Non so se l’ha scritta lei allora, o se è comparsa adesso.
Ma mi colpisce al petto con la delicatezza di un pugno.
Sì, Aina. Sto ancora camminando. Ma senza di te è tutto più muto.
Chiudo il foglio.
Lo ripiego con la stessa cura.
E capisco che questa ricerca non è finita.
Perché adesso non sto più solo scrivendo per ricordare.
Sto scrivendo per trovare.
Bogotá, tardo pomeriggio
Il cielo è ancora basso, ma la pioggia non cade.
Cammino lungo una via secondaria, dove i muri sembrano più vecchi del tempo e le case si appoggiano l’una all’altra come parole stanche.
Mi fermo davanti a un portone scrostato, decorato da una vite che si arrampica fino al secondo piano. Le foglie sono larghe, grasse, con un verde che non ha paura di farsi notare.
All’improvviso mi torna alla mente una frase che Aina mi disse una volta, a bassa voce, mentre osservavamo una pianta simile crescere su un muro abbandonato.
“Las plantas que crecen hacia arriba… tienen miedo de ser pisadas.”
Le piante che crescono verso l’alto… hanno paura di essere calpestate.
Allora non le avevo dato peso.
Ora mi si apre dentro come un’immagine silenziosa.
Resto qualche istante lì, poi fotografo la scena con gli occhi.
Mi volto, riprendo a camminare.
Attraverso una piazzetta dove un anziano suona il bandoneón.
Una bambina danza per gioco, con un vestito rosso che sembra una fiamma. Un cane dorme sotto una panchina, ignaro del mondo.
Scrivo mentalmente:
Ci sono giorni in cui il dolore si disfa da solo, come pane secco nell’acqua.
Non serve analizzarlo. Basta lasciarlo sciogliere.
All’angolo di una libreria, un manifesto strappato porta solo tre parole leggibili:
“Carta sin respuesta.”
Lettera senza risposta.
Non so se è pubblicità, poesia o disattenzione.
Ma lo prendo come un segno.
Non per cercare.
Per continuare a camminare.
Bogotá, fine pomeriggio
Sto per tornare verso l’hotel, quando sento una musica arrivare da una via laterale.
Non è forte, ma ha quella qualità che scivola tra le cose, insinuandosi nei piedi prima ancora che nelle orecchie.
Curvo l’angolo, e la trovo.
Una piccola piazza si è trasformata in una festa di quartiere.
Un palco improvvisato, sedie di plastica colorate, bancarelle con empanadas, succo di lulo, pupusas, dolci impolverati di zucchero.
Un gruppo suona dal vivo: chitarra, cajón, flauto. Canti mescolati, voci in controtempo.
Non capisco se sia una celebrazione religiosa, una ricorrenza storica, o solo il bisogno collettivo di esistere insieme.
Mi siedo su un muretto. Nessuno mi guarda come un’intrusa.
Una donna mi porge una arepa senza dire una parola.
Accetto. Il mais ha il sapore ruvido di ciò che è stato fatto con cura.
Un ragazzo, poco più che ventenne, balla da solo nel centro della piazza. Ha un cappello a falda larga e il sorriso di chi non ha bisogno di essere guardato per essere felice.
Alza le braccia. Poi ruota su se stesso.
La sua camicia ha un ricamo sul petto: una linea curva, due figure stilizzate. Le mani appena sfiorate.
Il disegno.
Sento il cuore accelerare.
Potrebbe essere una coincidenza. Una forma comune.
Oppure no.
Il ragazzo ride. Non mi guarda. Continua a ballare.
Decido di non chiedere nulla.
Non tutto ha bisogno di essere spiegato.
Resto lì ancora un po’.
Lascio che la musica mi attraversi.
E per la prima volta da giorni, non penso a nulla.
Solo al fatto che sono qui. E non da sola.
Mi siedo su un muretto. Accanto a me, una signora con un ventaglio colorato mi porge una arepa calda, come se sapesse che ne avevo bisogno.
Un ragazzo danza da solo, al centro.
Ha una camicia chiara con un piccolo ricamo sul petto: due figure stilizzate, le mani che si sfiorano appena.
Il cuore mi scivola un istante.
Lo guardo, ma non dico nulla.
Potrebbe essere una coincidenza.
O un segno.
O solo il modo che ha il mondo di ricordarti che tutto è connesso.
Mi lascio cullare dalla musica.
Non penso. Non cerco.
Per la prima volta da giorni, semplicemente sono.
Bogotá, terzo giorno

Il mattino è limpido.
Una luce nuova scivola sui tetti e sulle finestre opache del quartiere.
Dopo la colazione, sento che ho bisogno di salire. Guardare la città da lontano, da sopra. Come se solo da lì potessi capirne la forma.
Monserrate si staglia in alto, una linea verde tra il cielo e le case.
Prendo la funicolare. Mentre salgo, i tetti si rimpiccioliscono, il rumore si allontana, e la città si distende come un tappeto disordinato.
Bogotá vista da qui sembra meno caotica. Più fragile. Quasi un sogno cucito male.
Arrivata in cima, cammino fino alla chiesa bianca.
Ci sono pellegrini che salgono a piedi, con passo lento e occhi bassi.
Io mi siedo su un muretto. Guardo.
Non prego.
Ma ascolto.
Un venditore ambulante passa con un vassoio di caramelle e sussurra:
«Una pa’ la fe, una pa’ el amor.»
Una per la fede, una per l’amore.
Ne compro una. Non so quale delle due.
Scendo a piedi. Un passo dopo l’altro.
Bogotá risale incontro a me.
Nel pomeriggio, cammino senza meta fino a una piccola libreria nella Candelaria.
Ha un nome inciso a mano sulla porta: “Tinta y sombra”.
All’interno, scaffali storti, profumo di carta vecchia e una gatta che dorme su una pila di poesie.
Prendo un libro a caso. Lo apro. Dentro, una frase sottolineata:
“Nombrar lo invisible no es poseerlo. Es liberarlo.”
Dare un nome all’invisibile non è possederlo. È liberarlo.
Non c’è autore. Solo una calligrafia tremante.
Segno la pagina con uno scontrino trovato per terra.
Poi esco. La gatta non si muove.
Ultima tappa del giorno: il Museo Colonial.
Una sala piccola, silenziosa. Tele scolorite, crocifissi antichi, lettere manoscritte.
Mi colpisce un quadro: una madonna con lo sguardo altrove. Non guarda il figlio. Guarda fuori. Come se sapesse già che perderà qualcosa.
Scrivo sul taccuino:
Ci sono occhi che non guardano mai dove li aspetti.
Quando torno in hotel, la città ha cambiato colore.
Il cielo è di nuovo grigio. Ma io no.
Io oggi ho respirato.
Sera in hotel
Torno in hotel poco prima che inizi a piovere.
Le prime gocce scivolano lungo i vetri come note lente, mentre nella sala da pranzo si accendono le luci basse, calde.
La stanza è quasi vuota. Solo tre tavoli occupati.
Mi siedo in un angolo, vicino alla finestra. Ordino un piatto semplice: ajiaco, brodo denso di patate, mais e coriandolo. Il calore mi attraversa.
Poco dopo, un uomo si siede al tavolo accanto. Avrà una cinquantina d’anni, barba sale e pepe, occhiali con la montatura fine.
Legge un libro con la copertina consumata.
Ogni tanto sorride, come se riconoscesse qualcosa tra le righe.
Quando il cameriere gli porta il vino, lui alza lo sguardo verso di me e accenna un cenno gentile.
«La lluvia invita a quedarse, ¿no?»
La pioggia invita a restare, vero?
«Sí. O al menos, a rallentare.»
Lui sorride, incuriosito.
Beve un sorso. Poi appoggia il libro sul tavolo.
Sulla copertina, riconosco il titolo: “Cartas que no llegaron”.
Lettere che non sono mai arrivate.
Il cuore mi fa un piccolo salto.
«È una raccolta di lettere vere?» chiedo.
«No. Sono inventate. Ma alcune sembrano più vere di quelle reali.»
Sfoglia una pagina, poi chiude il libro con lentezza.
«A veces, nombrar lo invisible no es poseerlo. Es liberarlo.»
A volte, dare un nome all’invisibile non è possederlo. È liberarlo.
Lo dice così, come se fosse sua.
Ma io l’ho già letta.
Resto in silenzio.
Lui si accorge della mia espressione e inclina leggermente la testa, come per chiedere se va tutto bene.
«Nulla. È solo che… le parole a volte tornano. Anche se non sai da dove sono partite.»
Lui annuisce. Poi non dice più nulla.
La cena prosegue tranquilla. Nessun’altra domanda. Nessuna confidenza.
Solo la presenza, gentile, accanto.
Quando mi alzo per andare in camera, lo saluto con un sorriso.
«Buona notte.»
«Che sueñe con lo que falta.»
Che lei sogni ciò che manca.
In stanza, prima di dormire, riapro il taccuino.
La rosa di carta è ancora lì, tra le pagine.
La sposto con cura.
Rileggo la frase che ho trascritto oggi dal libro della libreria:
“Nombrar lo invisible no es poseerlo. Es liberarlo.”
La sottolineo una seconda volta.
Come se oggi, avesse trovato una nuova voce.
Bogotá, mattina quarto giorno
La mattina è più chiara del previsto. L’aria è fresca, lucida, come lavata via dalla pioggia della sera prima.
Cammino senza direzione precisa.
Mi lascio guidare da una serie di curve, di odori, di silenzi interrotti. Bogotá, oggi, ha il passo più lento.
Come me.
Giro l’angolo e vedo un’insegna scritta a mano su una lastra di legno:
“Taller Silencio”
Non c’è vetrina. Solo una porta socchiusa e il suono delicato di una macchina da cucire.
Entro. Nessuno dice nulla.
La stanza è stretta e piena di oggetti: rotoli di stoffa, libri aperti, linoleum inciso, inchiostri, forbici, aghi, una pressa manuale per la stampa.
Sembra una casa, un’officina e una poesia allo stesso tempo.
Una donna siede accanto a un grande tavolo.
Avrà sessant’anni, forse più. Ha le mani lunghe, agili, segnate da piccoli tagli e macchie di colore.
Sta stampando parole su tessuto.
Un’arte che non avevo mai visto: frasi incise su lastre di linoleum, poi stampate a mano su pezzi di lino, garza, canapa.
Non le importa chi entra. Lavora in silenzio, ma senza chiudersi.
Mi avvicino, lentamente.
Guardo.
«¿Puedo mirar?»
Posso guardare?
Lei annuisce, senza fermarsi.
I gesti sono lenti ma precisi. Preme, inchiostra, solleva.
Ogni pezzo di stoffa ha una frase diversa. Alcune sono poesie, altre sembrano pensieri lasciati a metà.
Ne leggo una, appena stampata:
“Cada puntada es un intento de no desaparecer.”
Ogni punto è un tentativo di non sparire.
Mi si ferma qualcosa in gola.
La donna mi guarda solo allora.
Ha occhi scuri, calmi. Non mi chiede nulla.
Mi porge un pezzo di lino ancora umido d’inchiostro.
La frase è breve:
“Lo que no se dice, también pesa.”
Anche ciò che non si dice pesa.
Lo prendo. La ringrazio con un cenno.
Lei annuisce. Torna al suo lavoro.
Esco senza dire altro.
Il sole ha cominciato a filtrare tra le nuvole.
Cammino piano. Tengo stretto quel pezzo di stoffa tra le dita.
Mi accorgo che sto sorridendo.
Non per qualcosa che ho trovato.
Ma per quello che, finalmente, non ho bisogno di dire.
Quarto giorno – Pomeriggio | Giardino Botanico José Celestino Mutis
Il tassista mi lascia davanti a un cancello verde scolorito.
All’interno, il Giardino Botanico si apre come una pausa, come un libro lasciato a metà sotto la luce.
Non ci sono molte persone. Qualche coppia, un anziano seduto su una panchina, bambini che inseguono farfalle vere o inventate.
Cammino piano.
Non cerco informazioni.
Solo ombra, e qualcosa che cresca senza fare rumore.
Attraverso la serra delle orchidee.
I fiori sembrano piccole lingue colorate che non hanno più bisogno di parole.
Mi fermo davanti a una pianta grassa, enorme, con spine perfette.
Accanto, un cartello dice:
“Sobrevive con lo mínimo. Florece cuando nadie lo espera.”
“Sopravvive con il minimo. Fiorisce quando nessuno se lo aspetta.”
Penso a me.
Penso a chi resta.
Penso a Aina.
Non è malinconia.
È più simile a una forma di resistenza gentile.
La consapevolezza che si può fiorire, anche nel silenzio.
Mi siedo su una panchina.
Il taccuino resta chiuso.
Per oggi ho già scritto abbastanza.
Tardo pomeriggio e sera | Mercado de Paloquemao
Prima del tramonto, decido di visitare il Mercato di Paloquemao.
Lontano dalle rotte turistiche, ma vivo, pulsante, colorato.
Appena entro, l’aria cambia. Sa di frutta tagliata, di sudore, di pane appena cotto, di gente che si conosce da anni.
Le voci si accavallano.
Nomi di frutti: lulo, maracuyá, guanábana, uchuva.
Forme che non conosco, colori che sembrano usciti da un sogno tropicale.
Compro una fetta di mango con lime e sale.
Un’esplosione perfetta tra lingua e memoria.
Una signora mi indica un banchetto dove vendono piccoli quaderni cuciti a mano, ognuno con una copertina diversa.
Ne sfoglio uno.
All’interno, una frase scritta con calligrafia minuta:
“Lo que dejás ir, también te cuida.”
Ciò che lasci andare, a volte, ti protegge.
Lo compro senza pensarci.
Poi, all’uscita, lascio il frammento di lino ricevuto al “Taller Silencio” su una cassetta vuota, sotto una pila di libri usati.
Non per qualcuno.
Non per farmi trovare.
Solo perché non tutto ciò che portiamo deve venire con noi.
Esco mentre le luci si accendono tra i banchi che smontano.
Cammino piano. La sera ha il sapore delle cose che non servono spiegare.
Notte | Hotel
La stanza è in penombra.
La città fuori respira piano, come un animale stanco.
Sento ancora il rumore ovattato dei passi nel corridoio, l’acqua che gocciola da un rubinetto lento.
Tutto è fermo. Ma non immobile.
Mi siedo sul letto, il taccuino sulle ginocchia.
La rosa di carta è ancora lì, piegata tra le pagine.
L’avevo dimenticata. O forse no.
La apro. La guardo. Poi scrivo.
Diario – fine del quarto giorno
Aina,
oggi non ti ho cercata. Non per distrazione. Ma per rispetto.
Ho camminato tra piante che fioriscono senza rumore, tra frutti che non so nominare, tra mani che stampano parole su stoffe che nessuno leggerà davvero. E in tutto questo, tu c’eri. Senza esserci. Come sempre.
Ho lasciato qualcosa che mi avevi insegnato. Forse lo troverà qualcun altro. O forse no. Ma a me è bastato lasciarlo.
Non so dove sei. Non so se leggerai mai queste righe. Ma ti ho portata con me in ogni passo. E ora, per la prima volta, sento che posso anche lasciarti andare… senza perderti.
Domani partirò. Ma qualcosa di me è rimasto qui. Forse anche qualcosa di te.
Livia
Chiudo il taccuino con un gesto lento.
Lo ripongo nello zaino, insieme al quaderno vuoto comprato al mercato.
Domani lo riempirò altrove.
Spengo la luce.
E resto un po’ in ascolto.
Di tutto quello che, nel silenzio, continua a parlarmi.
Quinto giorno – Aeroporto El Dorado
Lascio la stanza presto, prima che la città si svegli del tutto.
Il cielo è ancora grigio, ma la luce comincia a filtrare con tenerezza.
Nel taxi, non penso a molto.
Solo a quanto questo viaggio sia stato pieno di silenzi che parlano.
Di assenze piene.
Di segni senza spiegazione.
All’aeroporto, passo i controlli con quella stanchezza calma di chi ha vissuto abbastanza in pochi giorni.
Cerco un posto per sedermi, vicino al gate.
Ordino un caffè nero, forte.
Apro lo zaino per prendere il taccuino.
E lì, tra le pagine, c’è qualcosa che non avevo messo io.
Un piccolo foglio quadrato, piegato in quattro.
Lo apro.
C’è disegnata una linea curva, due figure stilizzate, le mani che si sfiorano appena.
Lo stesso disegno. Ma non è il mio foglio. È un altro.
E sotto, in spagnolo, una frase:
“Te sigo leyendo.”
Ti sto ancora leggendo.
Nient’altro.
Non so come sia arrivato lì.
Forse l’ho raccolto senza accorgermene.
Forse l’ha lasciato qualcuno.
Forse non importa.
Lo tengo tra le mani.
Sorrido. Non c’è bisogno di piangere.
Guardo l’ora.
L’imbarco è cominciato.
Mi alzo.
E per la prima volta, non mi sento più sola.
Ultima riga del diario – Bogotá, partenza
Non so quando, non so dove.
Ma so che la ritroverò.
Ne sono certa.
E con questa frase, il viaggio ottavo si chiude.
Non con un punto. Ma con una certezza dolce, cucita nel silenzio.
Aeroporto El Dorado
L’aereo comincia a imbarcare.
Tengo ancora in mano il foglio con il disegno.
Lo piego lentamente. Lo infilo tra le pagine del taccuino, accanto alla rosa di carta e alle parole che non ho spedito.
Guardo il tabellone delle partenze.
Non cerco la mia.
Lo sguardo si ferma su un’altra destinazione, quasi senza volerlo.
Dublino.
Un nome verde. Bagnato di vento e nostalgia.
Un luogo che non tocco da anni.
Un’isola dove le parole sembrano nascere dalla pioggia.
Sorrido.
“Forse è lì che devo andare.
Forse è lì che tutto ricomincerà.
Lo capirò tra le scogliere.
O tra le pagine di un altro taccuino.”
Milano, preludio all’Irlanda
Sull’aereo il cielo è chiaro, limpido sopra le Alpi.
Le nuvole sembrano sospese a metà tra il sogno e il ritorno.
Livia guarda fuori dal finestrino senza pensare.
Ha lasciato Bogotá, ha scritto tutto quello che doveva scrivere — o quasi.
Ora c’è una pausa da attraversare.
Arrivata a Milano, prende un taxi e rientra nel suo piccolo appartamento in zona Brera.
È come ricordava: odore di libri, legno, finestre alte, silenzio amico.
Poggia lo zaino, fa scorrere l’acqua nella cucina, si toglie le scarpe.
Accende il telefono.
Tra le notifiche, solo una e-mail.
Nessun testo. Nessuna firma.
Oggetto: “Libreria di Quartiere”
Nient’altro.
Livia resta a guardare lo schermo per qualche istante.
Non apre la mail.
Ma la memoria comincia a muoversi.
Sì.
Ricorda quella piccola libreria dietro una piazza tranquilla, nascosta tra una bottega di cornici e un vecchio caffè.
C’era passata una volta, anni prima, in un inverno di nebbia. Non vi era entrata.
Non ci aveva pensato più.
Fino ad ora.
Pomeriggio – La libreria
Il sole filtra tra le facciate di Brera con quella luce lenta di ottobre.
Livia cammina piano.
Non cerca davvero.
Lascia che sia la città a riportarla lì.
E la trova.Libreria di Quartiere.
Il nome inciso su una targa di legno sbiadita. La vetrina coperta da un tendaggio color crema.
Dentro, scaffali alti, un odore di carta e tempo.
La libreria è vuota.
Solo una donna dietro il bancone, che non parla. Sorride e le fa un cenno gentile.
Livia si avvicina a uno scaffale.
Prende un libro con la copertina blu. Un titolo poetico.
Lo apre.
Dentro, una cartolina.
Vecchia, con i bordi consumati.
Scritto a mano:
“A chi continua a camminare, anche quando non sa dove.”
In basso a destra, una A.
Nient’altro.
Livia sente una fitta. Ma non è dolore.
È qualcosa di più simile alla certezza.
Apre il taccuino.
E sotto l’ultima riga di Bogotá, scrive:
“Forse anche lei sta tornando da qualche parte.”
Poi chiude.
E mentre esce dalla libreria, sa che il viaggio non è finito.
Lo capirà tra le scogliere.
O tra le pagine di un altro taccuino.
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