Pensieri e riflessioni di una viaggiatrice culturale
DIARIO DI UNA FLÂNEUSE – QUATTRO –
Redazione Inchiostronero
La bellezza di una città non si trova nei monumenti più famosi o nelle piazze più frequentate. È nascosta nei dettagli, in quelle piccole cose che non si vedono di sfuggita. Camminare senza fretta è come passare dall’alta definizione di una fotografia alla delicatezza di una pennellata: ti accorgi di ciò che prima ignoravi, perché il tuo sguardo si allarga e si approfondisce.

Mi chiamo Livia, e viaggio per perdermi. Non cerco itinerari precisi, non colleziono check-list di luoghi da visitare. Mi lascio guidare dalle città, dai vicoli silenziosi e dalle storie che si nascondono tra le pagine di un vecchio libro trovato per caso.
A Parigi, ho camminato lungo la Senna al tramonto, lasciando che i versi di Baudelaire si intrecciassero con il rumore dell’acqua. Ho trascorso ore nei passage coperti, sfogliando libri dimenticati e osservando i volti dietro le vetrate dei caffè. In una libreria di Saint-Germain, un libraio con la voce rauca mi ha consigliato un’edizione consunta di Les Fleurs du Mal—“Ogni viaggio ha bisogno della sua poesia”, mi aveva detto.
A Praga, ho seguito le ombre di Kafka tra i vicoli della Città Vecchia, mentre il profumo di cannella e vino caldo riempiva l’aria. Ho sfiorato con le dita la statua del Golem, mi sono fermata sotto l’orologio astronomico ad ascoltare il tempo farsi leggenda. Una notte, sulla collina di Petřín, un violinista solitario suonava una melodia struggente: in quel momento, ho capito che le città parlano a chi sa ascoltarle.
A Cracovia, ho ascoltato il suono delle carrozze sui ciottoli di Rynek Główny, mentre la tromba dell’hejnal si spezzava a metà, come ogni ora da secoli. Ho attraversato il quartiere ebraico di Kazimierz, tra sinagoghe silenziose e caffè pieni di vita, dove le storie della Storia si intrecciano con il presente. Mi sono fermata davanti alla tomba di Jan Matejko, pensando a come l’arte possa dare un volto al passato, e nel Castello di Wawel ho cercato il respiro del drago che, secondo la leggenda, dorme ancora sotto la collina.
A Lisbona, mi sono persa nei quartieri colorati dell’Alfama, dove il fado scivolava tra le strade strette come un sussurro malinconico. Ho bevuto ginjinha con un anziano pescatore che raccontava storie di mare e sono salita sul tram 28, lasciando che il suo dondolio lento mi portasse su e giù per le colline, fino a quando, all’ultima fermata, mi sono chiesta se la tratta fosse ancora in costruzione.
Edimburgo è stata il mio ultimo rifugio. Una città di storie sospese tra realtà e leggenda, dove ogni pietra racconta un segreto. Qui, tra il vento del Nord e il profumo di carta ingiallita nelle librerie, ho camminato senza fretta, lasciando che fosse la città a scegliere il mio percorso. Ho sfiorato le lapidi coperte di muschio a Greyfriars Kirkyard, ho ascoltato il suono di un tin whistle portato via dal vento su Arthur’s Seat, ho sfogliato vecchi volumi in una libreria su Victoria Street, mentre fuori il cielo si tingeva di quel grigio perlaceo che rende Edimburgo una città fuori dal tempo.
Ogni viaggio mi ha lasciato qualcosa, un frammento di storia, un suono, una voce. Ma Edimburgo… Edimburgo è rimasta impressa come inchiostro su pelle.
PERDENDOSI TRA LE VIE DI EDIMBURGO

Il vento di Edimburgo sa essere feroce. Taglia la pelle, ruba fiato e pensieri. Ma oggi è solo una carezza fredda che mi sfiora il viso mentre attraverso Princes Street Gardens. L’aria è satura dell’odore di terra bagnata e di muschio, mentre i rami spogli degli alberi si stagliano contro un cielo di piombo.
Vicino alla statua di Sir Walter Scott, un violoncellista solitario suona una melodia malinconica. Mi fermo ad ascoltare. Le note vibrano nell’aria come un eco lontano delle storie di Scott, delle sue pagine che hanno dato un’anima romantica alla Scozia. Qualche passante rallenta il passo, lasciandosi avvolgere dalla musica. Un uomo con una sciarpa a quadri lancia una moneta nel fodero aperto dello strumento, e il musicista solleva lo sguardo in un silenzioso ringraziamento.
L’aroma dolce del caffè mi raggiunge da una bancarella vicina. Mentre stringo tra le mani un bicchiere fumante, osservo il contrasto tra la Old Town e la New Town, due anime della stessa città. La prima, caotica e medievale, si arrampica sulla collina con i suoi vicoli stretti e irregolari; la seconda, elegante e razionale, riflette lo spirito illuminista che trasformò Edimburgo nel Settecento.
Attraverso il North Bridge e davanti a me si spalanca il dedalo intricato della Old Town. Lascio che siano i miei passi a guidarmi, senza una meta precisa.
Segreti di pietra: i close della Old Town

Mi infilo in un close, uno di quei vicoli angusti e ripidi che si aprono all’improvviso tra i palazzi di pietra. Il selciato umido scricchiola sotto i miei passi. Qui il tempo sembra essersi fermato: i muri coperti di muschio, l’odore di umidità mescolato a quello della fuliggine rimasta intrappolata nei camini secolari.
Passo accanto a Mary King’s Close, uno dei più famosi, un tempo una strada vivace, poi sigillata nel XVII secolo per contenere l’epidemia di peste. Ora è una città fantasma sotto la città, avvolta da leggende di spiriti inquieti e sussurri nel buio. Una guida in costume accompagna un piccolo gruppo di visitatori all’interno, raccontando con voce bassa e solenne la storia dei suoi antichi abitanti.
In un altro vicolo, noto un’anziana signora con un cappotto pesante e un cappello di lana scuro. Sta vendendo cartoline e piccole stampe d’epoca su un banchetto di legno. Mi avvicino e osservo le immagini: Edimburgo com’era un tempo, con carrozze lungo il Royal Mile, lampioni a gas e botteghe di artigiani.
“La città è cambiata molto?” le chiedo, scegliendo una cartolina con una vista del Castello.
Lei alza lo sguardo, gli occhi azzurri come il mare d’inverno. “I turisti aumentano, i negozi cambiano. Ma le pietre restano. E le storie… quelle non se ne vanno mai.”
Victoria Street: colori, libri e magia

Il mio viaggio continua fino a Victoria Street, una curva elegante e colorata di negozi e caffetterie, spesso indicata come l’ispirazione per Diagon Alley. Le vetrine brillano sotto la luce dorata del pomeriggio: edizioni rare, gioielli artigianali, tazze decorate con citazioni letterarie.
Entro in una piccola libreria. Il pavimento scricchiola sotto i miei passi, gli scaffali sono stipati di libri fino al soffitto. Dietro il bancone, un uomo anziano con occhiali tondi e un maglione di lana legge assorto un’edizione ingiallita di Robert Burns.
“Cerchi qualcosa in particolare?” chiede con un sorriso gentile.
Scorro con le dita le coste di vecchie edizioni rilegate in pelle. “Forse una storia che racconti la vera anima di Edimburgo.”
Lui annuisce, si alza e prende un libro da uno scaffale più alto. “Prova questo: ‘Edinburgh: Picturesque Notes’ di Robert Louis Stevenson. Ha il cuore della città tra le pagine.”
Sfoglio qualche pagina. La sua prosa è un ritratto vivido della Edimburgo di un tempo, sospesa tra il fascino gotico e il rigore illuminista. Lo acquisto senza esitazione.
Il calore di un pub storico

Più tardi, la fame mi porta fino alla Grassmarket, un tempo mercato del bestiame e luogo di esecuzioni pubbliche. Ora è un’animata piazza piena di pub storici, ognuno con la sua leggenda. Scelgo uno dei più antichi, il White Hart Inn, che si dice frequentato dal fantasma di un antico locandiere assassinato.
L’interno è caldo e accogliente. Il fuoco scoppietta nel camino, il legno scuro delle pareti trasuda storie. Mi siedo a un tavolo d’angolo e ordino una scodella fumante di cullen skink, la zuppa cremosa di pesce affumicato e patate. Il primo cucchiaio è un conforto inaspettato, un sapore di casa, anche per chi casa qui non ce l’ha.
Vicino a me, un uomo sulla sessantina con la barba brizzolata e un bicchiere di whisky in mano mi osserva con curiosità. “Prima volta a Edimburgo?” chiede.
Annuisco. “Ma sento già che ci tornerò.”
Sorride e solleva il bicchiere. “È quello che pensano tutti. Poi succede davvero.”

Il richiamo del mare
Al tramonto, il desiderio di vedere il mare mi porta fino a Portobello. Qui la spiaggia si stende sotto un cielo che sembra sciogliersi in sfumature d’arancio e viola. L’aria sa di sale e sabbia fredda.
Accanto a me, una donna lancia pane ai gabbiani. Li osservo librarsi in volo, liberi e leggeri come versi di una poesia dimenticata.
Una città che resta dentro

Quando rientro in città, la notte è già calata sulle guglie e sulle strade di ciottoli. Il Festival Theatre sta per aprire le porte a un nuovo spettacolo. Un violinista di strada suona una melodia celtica. La sua musica si disperde nel vento, confondendosi con le luci tremolanti dei lampioni.
Forse è questo il vero viaggio: non una destinazione, ma un mosaico di istanti, suoni e volti che si intrecciano come le strade di questa città.
Edimburgo non è solo un luogo. È una storia che aspetta di essere letta.
E io, questa sera, ne sono solo una pagina.
Giorno 2: Oltre le mura di Edimburgo
Il cielo di Edimburgo si sveglia con un velo di nebbia che avvolge guglie e torri come un incantesimo sospeso. L’aria è umida, carica di pioggia non ancora caduta. Oggi lascio la città alle spalle, seguendo il richiamo della Scozia selvaggia, quella che si svela oltre i confini di vicoli e pietra.
Prima tappa: Arthur’s Seat, il trono dei venti
Attraverso Holyrood Park mentre la nebbia si solleva lenta dai prati. Il silenzio è rotto solo dal fruscio del vento tra l’erba alta e dal battito ritmico dei passi di un corridore solitario. Salire su Arthur’s Seat, l’antico vulcano che domina Edimburgo, è come scalare il passato. Ogni passo è un respiro più vicino alla libertà.
Si racconta che questa collina fosse il leggendario “trono di Re Artù”, e alcuni credono che qui possa essere sepolto il sovrano delle leggende. Ma la realtà è altrettanto affascinante: sotto la sua superficie, nel 1836, furono trovate diciassette bare in miniatura contenenti piccole figure scolpite. Il loro mistero rimane irrisolto. Stregoneria? Un omaggio ai Covenanters perseguitati? O un rituale dimenticato?
L’aria odora di terra umida e ginestre selvatiche. Quando raggiungo la cima, il mondo si spalanca sotto di me. La città si estende come un dipinto: il Castello è una fortezza di ombre, il Firth of Forth scintilla in lontananza.
Accanto a me, una coppia di escursionisti si scatta una foto. Un ragazzo seduto su una roccia soffia nell’imboccatura del tin whistle, il piccolo flauto celtico. La sua melodia si mescola al vento, leggera e struggente come un ricordo. Scambio uno sguardo con lui, e per un istante mi sembra che anche la musica stia viaggiando, alla ricerca di qualcosa.
Seconda tappa: Dean Village, un angolo fuori dal tempo
Dopo la discesa, mi avventuro verso un luogo che sembra appartenere a un’altra epoca: Dean Village. Il contrasto con il resto della città è netto. Qui tutto è quieto, sospeso tra case dai tetti a punta, ponticelli di pietra e il dolce scorrere del Water of Leith.

Camminare qui è come entrare in un acquerello sfumato. Il tempo sembra aver rallentato. Eppure, un tempo Dean Village era tutt’altro che idilliaca: per secoli fu il cuore industriale della città, piena di mulini e lavoratori instancabili. Solo nel XX secolo venne trasformata in un rifugio per artisti e sognatori.
Un gatto rosso mi osserva da un davanzale. Socchiude gli occhi, sornione, come se custodisse i segreti di questo luogo nascosto.
Poco più avanti, una donna anziana siede su una panchina con un album da disegno sulle ginocchia. La osservo mentre abbozza il contorno di un vecchio mulino. Quando alza lo sguardo, mi sorride.
“Lo disegni spesso?” chiedo, indicando l’album.
Lei ride piano. “Oh, cara, Dean Village non cambia mai. È il mondo intorno che si trasforma.”
E, in quel momento, capisco di essere in un luogo fuori dal tempo.

Terza tappa: Stockbridge, il quartiere bohémien
Da Dean Village, una passeggiata lungo il Water of Leith mi porta a Stockbridge, un quartiere che pulsa di vita e creatività.
Qui l’aria è elettrica, vibrante di storie.

Mi fermo in un piccolo bistrot per un tè caldo e uno scone con burro e marmellata. Accanto a me, due scrittori discutono animatamente di un romanzo appena pubblicato. Il libraio, un uomo dal viso affilato e il maglione di lana consunta, scuote la testa con un sorriso.
“Troppo ambizioso,” mormora, mentre riprende a leggere.
La signora accanto a lui sfoglia un giornale con un’espressione serena. Nel frattempo, dalla porta entra un musicista con una custodia di violino. Ordina un caffè, poi estrae lo strumento e inizia a suonare. La sua melodia riempie la stanza, e per qualche minuto il mondo sembra fermarsi.
Quarta tappa: Il mare di South Queensferry
Nel pomeriggio, il richiamo del mare si fa più forte. Prendo un treno per South Queensferry, il piccolo villaggio di pescatori affacciato sul Firth of Forth.
L’aria sa di sale e alghe. Il vento porta l’eco dei gabbiani e il suono dei passi sulle banchine di legno. Il Forth Bridge, con la sua struttura rossa e imponente, si staglia contro il cielo come una scultura di ferro. Quando fu costruito, nel 1890, era un miracolo dell’ingegneria: il primo ponte in acciaio al mondo, simbolo dell’ambizione scozzese.

Mi fermo accanto a un vecchio pescatore che sistema le sue reti. Lo osservo per un momento, poi gli chiedo se il mare oggi è calmo.
“Calmo per chi guarda da riva,” risponde, senza distogliere lo sguardo. “Ma il mare cambia faccia in un attimo.”
Guardo l’acqua incresparsi sotto il vento. Forse ha ragione. Forse il mare è come la vita: imprevedibile, mai completamente domabile.
Riflessione finale
Mentre torno in città, mi rendo conto che Edimburgo è fatta così: un costante equilibrio tra il selvaggio e il sofisticato, tra il passato e il presente. Ogni strada, ogni ponte, ogni suono ha una storia da raccontare.
E io, oggi, ne ho vissuta un’altra.
Il viaggio continua…
Giorno 3: L’ultimo sguardo su Edimburgo
Il mio tempo qui sta per finire. Eppure, Edimburgo sembra sapere che non sono ancora pronta a lasciarla andare. Stamattina la città si sveglia sotto un cielo limpido, insolito per febbraio. Le nuvole si sono diradate, lasciando spazio a un azzurro pallido che si riflette nei vetri appannati delle caffetterie.
Prima tappa: La calma del cimitero di Greyfriars
Prima di immergermi nel trambusto della città, cerco un momento di quiete tra le lapidi scolpite di Greyfriars Kirkyard. Qui, tra tombe ricoperte di muschio e alberi che sembrano sussurrare antiche storie, il tempo è sospeso.
Oltre alla tomba di Tom Riddle, che ha ispirato J.K. Rowling per il nome del suo celebre antagonista, il cimitero custodisce leggende più oscure. Mi soffermo davanti alla mausoleo di George “Bloody” Mackenzie, persecutore dei Covenanters nel XVII secolo. Si dice che il suo spirito infestante abbia reso Greyfriars uno dei cimiteri più infestati del mondo. Un uomo sulla cinquantina, con un cappotto scuro e un taccuino in mano, si accorge che sto osservando la tomba e sorride.
“Interessata ai fantasmi?” chiede con un accento morbido, scozzese ma non troppo marcato.
Scopro che è uno storico locale e che sta raccogliendo testimonianze sui fenomeni paranormali del luogo. “Edimburgo ha più spettri che abitanti,” scherza, prima di annotare qualcosa e proseguire il suo cammino.
E poi c’è lui, il piccolo Greyfriars Bobby, il cane che vegliò sulla tomba del suo padrone per quattordici anni. La sua statua, poco fuori dal cimitero, brilla consumata dalle carezze dei passanti. Un bambino si alza sulla punta dei piedi per sfiorarne il muso, ridendo quando la madre gli dice che porta fortuna. Gli accarezzo il naso anch’io, prima di riprendere il cammino.

Seconda tappa: La magia di The Elephant House

Edimburgo è una città di scrittori, e oggi voglio immergermi nella loro atmosfera. Entro in The Elephant House, la storica caffetteria dove J.K. Rowling scrisse le prime pagine di Harry Potter.
Il profumo di caffè tostato riempie l’aria, mescolandosi a quello del pane caldo e della cannella. Mi siedo vicino alla finestra, con vista sul castello che sembra davvero uscito da una fiaba.
Mentre ordino, il barista – un ragazzo con i capelli ricci e la camicia a quadri – mi chiede da dove vengo. Quando gli dico che sono italiana, sorride.
“Milano? O più a sud?” chiede, mentre prepara il mio cappuccino.
Rimaniamo a chiacchierare per qualche minuto: ha viaggiato in Italia anni fa e sogna di tornarci. Mi racconta di come ogni mattina turisti da tutto il mondo vengano qui per scrivere, ispirati dall’energia del luogo.
Tiro fuori il mio taccuino e scrivo. Non so cosa, non so perché. Ma sento che questa città mi ha lasciato qualcosa dentro, e voglio fissarlo su carta prima che il tempo lo porti via.
Terza tappa: Un ultimo sguardo dalla Camera Obscura

Prima di andare, voglio vedere Edimburgo dall’alto un’ultima volta.
La Camera Obscura, oltre a essere un museo delle illusioni, custodisce un pezzo di storia. Risale al 1853, quando Maria Short, una donna determinata e intraprendente, la rese una delle attrazioni più amate della città. Oggi è un labirinto di specchi, giochi di luce e inganni ottici.
Mi perdo per qualche minuto tra le sale, poi salgo sulla terrazza.
Qui non c’è illusione. Solo Edimburgo, vera e perfetta, stesa davanti a me.
Il Castello, il Royal Mile, il Mare del Nord all’orizzonte. Respiro profondamente. Cerco di imprimere questa immagine nella mente, come una fotografia senza tempo.
Accanto a me, un’anziana signora con un bastone guarda la città con occhi lucidi. Mi sorride e dice, quasi per sé:
“Ci ho vissuto tutta la vita, ma ogni volta che la guardo da quassù mi sembra di vederla per la prima volta.”

E in quel momento capisco che Edimburgo non è un luogo che si visita. È un luogo che si scopre, ogni volta in modo diverso.
Ultima tappa: Un arrivederci da Waverley Station
Il mio treno per l’aeroporto parte nel pomeriggio. Cammino lentamente verso Waverley Station, fermandomi ogni pochi passi, come se il semplice atto di rallentare potesse prolungare il mio tempo qui.
Passo accanto a The Scott Monument, la torre gotica dedicata a Sir Walter Scott. Non posso fare a meno di pensare a lui, alla sua capacità di trasformare la Scozia in una leggenda. “La mia patria,” scrisse, “è fatta di poeti, guerrieri e sogni.”
L’eco delle sue parole mi accompagna mentre scendo le scale della stazione.
Il suono del violino di un artista di strada mi segue fino all’ingresso. Compro un ultimo libro in una piccola libreria lì vicino, qualcosa che mi ricordi questo viaggio una volta tornata a Milano.
Il treno si muove. Guardo Edimburgo scivolare via dal finestrino.
So già che tornerò.

Perché questa città non è solo un luogo. È un richiamo. Una promessa. Una storia che continuerà a parlarmi.


