Pensieri e riflessioni di una viaggiatrice culturale
DIARIO DI UNA FLÂNEUSE – SEI –
Prima giornata
Redazione Inchiostronero
La bellezza di una città non si trova nei monumenti più famosi o nelle piazze più frequentate. È nascosta nei dettagli, in quelle piccole cose che non si vedono di sfuggita. Camminare senza fretta è come passare dall’alta definizione di una fotografia alla delicatezza di una pennellata: ti accorgi di ciò che prima ignoravi, perché il tuo sguardo si allarga e si approfondisce.

Mi chiamo Livia, e viaggio per perdermi. Non cerco itinerari precisi, non colleziono check-list di luoghi da visitare. Mi lascio guidare dalle città, dai vicoli silenziosi e dalle storie che si nascondono tra le pagine di un vecchio libro trovato per caso.
A Parigi, ho camminato lungo la Senna al tramonto, lasciando che i versi di Baudelaire si intrecciassero con il rumore dell’acqua. A Praga, ho seguito le ombre di Kafka tra i vicoli della Città Vecchia, mentre nell’aria si diffondeva l’aroma caldo della cannella e del vino speziato. A Lisbona, mi sono persa nei quartieri colorati dell’Alfama, dove le note struggenti del fado si arrampicavano lungo i muri bianchi come sussurri malinconici.
A Edimburgo, una città di storie sospese tra realtà e leggenda, dove ogni pietra racconta un segreto. Qui, tra il vento del Nord e l’aroma antico delle librerie polverose, ho camminato senza fretta, lasciando che fosse la città a scegliere il mio percorso.
A San Pietroburgo, il cielo basso e bianco si specchiava nei canali ghiacciati, mentre i versi di Dostoevskij sembravano sussurrare tra i vicoli della Prospettiva Nevskij.

Kyoto: Il respiro delle cose leggere
Perché Kyoto è stata fatta di silenzi, foglie, poesia, ascolto. Un titolo che accoglie, senza peso.
L’aeroporto di Kansai è un labirinto di luci fredde e annunci ovattati. Quando le porte scorrevoli si aprono, l’aria è umida e sa di pioggia recente. Livia stringe il manico del suo trolley giallo, quel piccolo compagno di viaggio che, negli anni, ha raccolto polvere di troppe città.
«Scusi, per prendere il treno per Kyoto?»
Il ragazzo alla biglietteria la guarda con un sorriso cortese e indica un cartello dietro di sé.
«Haruka Express, binario 4.»

Sul treno, i sedili sono puliti, ordinati, avvolgenti. Livia appoggia la fronte al finestrino e osserva il paesaggio scorrere: campi allagati, tetti grigi, il bagliore lontano della città. Sta davvero arrivando a Kyoto.
Pensiero sparso: È strano, ma in ogni viaggio c’è un momento in cui la realtà supera l’idea che ne avevi. Kyoto, finora, era solo un nome sussurrato nei libri, nelle fotografie di un vecchio atlante. Ora è l’odore dell’aria, il rumore del treno, il riflesso delle lanterne nei vicoli umidi.
Prima sera a Kyoto

Il piccolo ryokan in cui soggiorna ha un ingresso discreto, incastrato tra due edifici più moderni. Un noren color indaco si muove appena nel vento serale. La donna alla reception le porge la chiave con un inchino.
«Questa è la mappa della città.»
Livia la prende tra le dita. La carta è liscia, leggermente ingiallita. Le viene in mente un ricordo lontano: quando era bambina, disegnava mappe immaginarie su un vecchio quaderno, tracciando sentieri tra montagne inventate. Era il suo modo di esplorare mondi che ancora non conosceva.
Pensiero sparso: Forse, in fondo, non ho mai smesso di farlo. Solo che ora le mappe sono vere, e io posso camminarci dentro
Colazione e primi passi nella città
Il tatami scricchiola sotto i miei passi mentre mi dirigo verso la sala comune. Nell’aria c’è un profumo delicato di tè verde e riso cotto a vapore. Mi siedo vicino alla finestra, lasciando scivolare lo sguardo sul piccolo giardino zen: una pietra rotonda al centro di un letto di ghiaia, le linee precise tracciate con cura, come se qualcuno avesse pettinato la terra con le dita.
Poco dopo, la colazione arriva su un vassoio laccato: una ciotola di miso fumante, riso bianco, pesce grigliato e qualche sottaceto. Non è il mio solito caffè con un dolce, ma c’è qualcosa di rassicurante nella lentezza con cui sollevo le bacchette.
«A Parigi, la colazione era un rituale leggero: croissant sfogliati con le dita, caffè nero in tazze sottili. A Lisbona, il profumo della pastéis de nata si attaccava alle strade, zuccherando l’aria. Ogni città ha il suo modo di cominciare il giorno. Kyoto mi insegnerà il suo.»
Dopo aver assaporato ogni boccone, esco nel vicolo e respiro profondamente. L’aria è umida, profuma di terra e pioggia recente. Il cielo è bianco, lattiginoso, e il rumore delle biciclette che scivolano sull’asfalto bagnato si mescola al ronzio distante della città che si sveglia.
Non ho una meta. Come sempre, mi lascio guidare dalle strade.
Un caffè e un primo incontro
Dopo un po’, noto una piccola caffetteria incastrata tra due edifici. La porta scorrevole in legno è socchiusa, sopra pende un’insegna con un ideogramma nero su fondo bianco. Spingo piano la porta e mi avvolge un odore familiare: caffè tostato e tatami.
Il barista, un uomo sulla cinquantina con occhiali tondi, mi accoglie con un cenno del capo.
«Espresso?» chiede in un inglese gentile.
Annuisco. Mi siedo al bancone e osservo i suoi gesti: misurati, precisi, come se ogni movimento facesse parte di un rituale antico.
«A Praga, i caffè erano luoghi di parole: Kafka, Hrabal, i filosofi invecchiati sulle pagine ingiallite. A Edimburgo, il tè scaldava le mani dopo le passeggiate sotto la pioggia. Qui, il caffè è silenzio, è precisione, è meditazione.»
Soffio sul liquido scuro, lasciando che il calore mi scaldi le dita. La porta si apre con un lieve scorrere di legno su binari metallici. Una ragazza entra e si siede accanto a me. Ha i capelli corti, lisci, e le dita macchiate d’inchiostro
«Anche tu viaggi da sola?» mi chiede in inglese, con un accento che non riconosco subito.
Poso la tazzina. «Sì.»
«Anche io. Sono coreana, di Seoul» Si toglie il cappotto, lo appoggia sullo schienale della sedia con un gesto rapido e ordinato. Indossa un maglione color avorio, morbido, con le maniche troppo lunghe che le coprono metà delle mani. «Sono qui per studiare il design giapponese. Tessuti, pattern, stampe antiche.» Mentre parla, estrae un piccolo taccuino dalla borsa di tela e me lo mostra. Le pagine sono piene di schizzi: motivi geometrici, onde sottili, fiori stilizzati. Sul bordo di una pagina, c’è una frase scritta a matita: Le cose belle si lasciano trovare.
Si chiama Hana. Più o meno mia coetanea. Parliamo piano, senza fretta, come due sconosciute che si riconoscono in un angolo di mondo lontano da casa.
Dopo un po’, Hana guarda il suo taccuino. «Sto cercando un posto dove trovare vecchi tessuti giapponesi. Tu hai una meta oggi?»
Scuoto la testa. «Ancora no.»
Sorride. «Allora potremmo esplorare insieme.»
«Sto cercando una bottega che vende tessuti antichi. Dicono che sia nascosta tra i vicoli di Higashiyama. Mi accompagni’»
Annuisco
Hana sorride, si infila il cappotto con un gesto veloce. «Allora seguimi»
Paghiamo il caffè e usciamo nella strada. L’aria è più fresca ora, e la città si sta svegliando piano. Il rumore delle biciclette, il fruscio di passi sulle pietre umide, il suono distante di un clacson.
Il mercato nascosto

Camminiamo senza fretta, lasciandoci guidare dalle strade strette di Higashiyama. Lungo il cammino, le botteghe iniziano ad aprire: piccoli negozi con tende di stoffa davanti all’ingresso, venditori che sistemano le loro merci. Passiamo davanti a una libreria con la vetrina piena di volumi dalla copertina di carta ruvida. L’odore di carta antica mi ricorda Edimburgo, le librerie polverose e il vento del Nord che entrava dalle fessure delle porte.
«Aspettami un attimo.» Mi fermo e varco la soglia della libreria.
L’interno è piccolo e accogliente. Su uno scaffale noto un libro di poesie giapponesi, la copertina decorata con motivi dorati. Lo sfoglio piano, le pagine sottili sotto le dita.
«A San Pietroburgo, un libraio mi aveva parlato di Anna Achmatova, della poesia come resistenza. Qui, in un angolo di Kyoto, mi ritrovo a sfogliare versi scritti secoli fa, parole che hanno viaggiato nel tempo per arrivare fino a me.»
Pago il libro e raggiungo Hana fuori dalla libreria. Lei mi guarda con aria curiosa.
«Ti piacciono le poesie?»
Annuisco. «Mi piace trovare parole in posti nuovi.»
Riprendiamo a camminare. Dopo qualche minuto, l’aria cambia: un odore sottile di stoffa, di tinture naturali, di legno vecchio e umidità. Un piccolo vicolo si apre alla nostra destra, e alla fine vediamo una bottega con una lanterna rossa appesa sopra l’ingresso.
Hana si illumina. «Eccola.»

Entriamo. Il negozio è una piccola stanza con scaffali di legno scuro e cesti pieni di rotoli di tessuto. L’uomo dietro il bancone, anziano, con le mani nodose, ci osserva con sguardo attento.
Hana si avvicina a un rotolo di seta indaco, lo sfiora con la punta delle dita. Il vecchio le dice qualcosa in giapponese, lei risponde con un inchino leggero.
Io mi perdo tra le stoffe. Alcune hanno colori vibranti, altre portano segni del tempo, con i bordi leggermente sfilacciati. Mi soffermo su un tessuto color avorio, decorato con onde stilizzate.
«Questo è del periodo Meiji,» dice il negoziante, in un inglese dal suono antico. «Era usato per i kimono estivi.»
Lo tocco piano. È leggero, fragile.
«A Lisbona, le piastrelle azzurre sulle facciate delle case raccontavano storie antiche. Qui, i tessuti sono frammenti di memoria cuciti nel tempo.»
Hana acquista un piccolo pezzo di seta decorata con foglie d’acero rosse. Io esito, poi faccio lo stesso con il tessuto color avorio. Non so ancora cosa ne farò, ma mi piace l’idea di portare con me un pezzo di Kyoto.
Usciamo dalla bottega e continuiamo a camminare. Il cielo si sta aprendo piano, il sole filtra tra le lanterne appese ai tetti.
Hana si stringe il tessuto al petto. «Grazie per avermi accompagnata.»
Sorrido. «Non avevo una meta, ma mi sa che l’abbiamo trovata.»
Giorno 1° – Nel cuore di Kyoto

Esco dalla bottega con il tessuto avvolto in una carta sottile, avorio come la seta che ho scelto. Lo infilo nello zaino, sentendone la leggerezza contro la schiena. Hana fa lo stesso con il suo, stringendolo un attimo tra le mani prima di riporlo.
Le strade di Higashiyama sono piene di vita. Turisti e abitanti del posto camminano sotto le lanterne rosse, le biciclette sfilano lente, qualcuno si ferma davanti alle vetrine delle botteghe di ceramiche.
«Hai mai visitato Kyoto prima?» mi chiede Hana mentre ci incamminiamo senza fretta.
Scuoto la testa. «È la prima volta. E tu?»
«Ci sono già stata qualche anno fa, ma sempre di passaggio. Adesso voglio restare qualche mese. Voglio capire la filosofia dietro il design giapponese, il senso dell’equilibrio. Hai notato che qui nulla è casuale? Anche nelle cose più semplici, c’è armonia.»
Osservo i vicoli, le facciate delle case, le insegne in legno con i caratteri tracciati a pennello. Anche gli oggetti esposti nelle vetrine sembrano disposti con un ordine preciso.
«A Praga, le strade si stringevano in curve gotiche, in ombre che sembravano sfiorare le pareti. A Lisbona, le azulejos spezzavano la luce in riflessi blu e oro. Qui, ogni dettaglio sembra voler trovare il suo posto esatto, senza sbavature.»
Hana indica un piccolo negozio con vasi di bambù fuori dalla porta. «Vieni, voglio farti vedere una cosa.»
Il piccolo negozio di carta

Varchiamo la soglia e ci accoglie il fruscio delicato della carta. Dentro, l’aria sa di inchiostro e legno antico.
Scaffali ordinati espongono fogli di washi, la carta tradizionale giapponese, decorata con motivi sottili: fiori di ciliegio, gru, onde stilizzate. Alcuni rotoli sono appesi alle pareti, come arazzi leggeri.
Un uomo anziano, dai capelli bianchi e le mani sottili, ci saluta con un inchino.
«Questa carta è fatta a mano,» spiega Hana sfiorando un foglio con un disegno dorato. «Il washi si usa per la calligrafia, per avvolgere doni o persino per fare lanterne. È resistente, ma leggerissima.»
Prendo un foglio decorato con rami d’acero rossi e dorati. Lo sollevo controluce, e il disegno sembra prendere vita nella trasparenza della carta.
«A San Pietroburgo, i mercati vendevano stampe di antiche icone sacre, immagini che il tempo aveva sbiadito ma non cancellato. Qui, la bellezza è nella fragilità: un pezzo di carta che sembra poter volare via al minimo soffio, eppure dura nei secoli.»
Hana sceglie alcuni fogli, io ne prendo uno. Pago, e il negoziante mi porge il pacchetto con entrambe le mani, in un gesto rispettoso.
«Arigatō gozaimasu,» mormoro, e lui sorride.
Uscendo, il cielo è più chiaro. Il bianco lattiginoso della mattina ha lasciato spazio a un azzurro leggero.
Un tempio nascosto

«Ora ti porto in un posto speciale,» dice Hana.
Lasciamo la via principale e ci inoltriamo in un sentiero tra alberi alti, le radici intrecciate alle pietre del suolo. L’aria profuma di muschio, di incenso lontano. Dopo pochi minuti, il sentiero si apre su un piccolo tempio di legno scuro, immerso nella quiete.
Non ci sono turisti, solo il suono del vento tra le foglie di bambù.
Davanti all’ingresso, un tavolino con delle strisce di carta legate a un filo sottile.
«Sono omikuji, i biglietti della fortuna,» mi spiega Hana. «Si estraggono a sorte. Se il responso è positivo, lo tieni con te. Se è negativo, lo leghi qui, così la sfortuna resta al tempio.»

Prendo una moneta dalla tasca e la inserisco nella piccola scatola di legno. Estraggo un biglietto e lo apro.
“La strada che cerchi non è dritta, ma il cammino porterà dove il cuore desidera.”
Lo leggo più volte. Non è né una buona né una cattiva sorte. È solo un invito a continuare a camminare.
«A Edimburgo, avevo letto che i fantasmi vivono nelle pietre della città. Qui, invece, è come se le risposte fossero nell’aria, sospese tra gli alberi.»
Hana mi guarda. «Cosa dice?»
Le mostro il biglietto. Lei sorride. «Sembra perfetto per te.»
Rimango qualche istante in silenzio. Poi annuisco, ripiego con cura il foglietto e lo infilo nel taccuino. Questo lo porterò con me.
Oltre il tempo
Il tempio alle nostre spalle scompare tra gli alberi, come se fosse sempre appartenuto alla foresta. Camminiamo senza fretta lungo il sentiero di pietra, i passi attutiti dal muschio e dalle foglie secche. Il vento porta con sé un odore di legno antico e incenso, lasciando nell’aria un’eco di spiritualità che mi resta addosso.
«Hai fame?» mi chiede Hana, sistemandosi la borsa a tracolla.
Solo in quel momento mi accorgo che la mattina è quasi svanita e che nello stomaco inizia a farsi sentire un leggero vuoto.
«Dove mi porti?»
Lei sorride, con l’aria di chi ha già deciso.
Un pranzo tradizionale
Arriviamo in una stradina laterale, nascosta tra edifici bassi. L’insegna è discreta, solo due caratteri giapponesi dipinti a mano su una tavoletta di legno. Una tenda corta, di un blu profondo, copre la parte superiore dell’ingresso.

Hana scosta il noren con un gesto naturale e varchiamo la soglia. Dentro, il ristorante è piccolo e accogliente, con luci soffuse e pochi tavoli bassi. Un uomo e una donna dietro il bancone si muovono con grazia, mentre il rumore delicato delle stoviglie riempie lo spazio.
Ci togliamo le scarpe e ci accomodiamo su due cuscini di tatami vicino alla finestra, dove la luce filtra attraverso una carta di riso sottile.
«Ti fidi di me?» mi chiede Hana, con un sorriso.
Annuisco, e lei ordina per entrambe.
Dopo pochi minuti, arriva il primo piatto: una zuppa chiara, con piccole foglie verdi che galleggiano sulla superficie. La porto alle labbra e il brodo caldo mi avvolge la lingua con un sapore leggero ma profondo.
«A Lisbona, il cibo era un abbraccio di spezie e sapori decisi. A Parigi, ogni boccone sembrava un dettaglio curato da un artista. Qui, invece, il cibo è armonia: niente sovrasta, tutto si bilancia.»
Poi arrivano piccole ciotole con riso bianco, verdure marinate e pesce grigliato con una glassa lucida di salsa dolce. Il tempo sembra rallentare mentre assaporo ogni boccone, seguendo il ritmo di Hana, che mangia con un’eleganza spontanea.
«Da quanto viaggi?» mi chiede lei, prendendo un pezzo di daikon con le bacchette.
«Da sempre, credo. Ma senza una vera direzione.»
«È un bel modo di vedere il mondo.»
Sorrido. Non so se sia davvero così, ma mi piace l’idea.
Una cerimonia del tè

Dopo pranzo, Hana mi propone un’esperienza diversa.
«Hai mai partecipato a una cerimonia del tè?»
Scuoto la testa.
«Allora dobbiamo rimediare.»
Ci addentriamo in una via ancora più silenziosa, fino a raggiungere una piccola casa da tè con un giardino di pietre e bambù. All’ingresso, una donna in kimono ci accoglie con un inchino e ci invita a entrare.
Ci sediamo su tatami chiari, davanti a una tavola bassa. Il silenzio è totale.
La padrona di casa inizia il rito con gesti precisi e misurati. Prende una ciotola di ceramica grezza e vi versa l’acqua calda con un mestolo di bambù. Il movimento è lento, meditativo. Poi aggiunge la polvere verde intenso del matcha e inizia a mescolare con un frustino di bambù, fino a creare una schiuma morbida sulla superficie.
Quando mi porge la tazza, la prendo con entrambe le mani, come ho visto fare a lei. Porto il tè alle labbra. Il sapore è intenso, erbaceo, leggermente amaro.
«A Edimburgo, il tè era conforto nelle giornate fredde e piovose. Qui è un gesto di consapevolezza, un ponte tra chi prepara e chi riceve.»
Dopo aver finito, rimaniamo ancora un attimo in silenzio. C’è qualcosa di profondamente rilassante in tutto questo.
Quando usciamo, il sole sta calando piano dietro i tetti di Kyoto.
Il mercato serale

«Ti va di vedere qualcosa di più vivace?» mi chiede Hana.
Annuisco.
Camminiamo fino a un quartiere più animato, dove il mercato serale sta prendendo vita. Le lanterne illuminano le bancarelle, e l’aria è piena di profumi: carne alla griglia, spezie, dolci fritti.
C’è un banco di ceramiche fatte a mano, uno di maschere tradizionali, un altro con piccoli quaderni rilegati in seta. Mi fermo a osservarli, scorrendo con le dita le copertine decorate.
«Ti piace scrivere?» chiede Hana, guardandomi.
Annuisco. «Scrivo per non dimenticare.»
Lei prende un taccuino blu notte con un disegno dorato di gru in volo. Me lo porge. «Allora questo è perfetto per te.»
«A San Pietroburgo, avevo comprato un taccuino rilegato in cuoio, con le pagine spesse che sapevano di inchiostro antico. Ogni viaggio mi lascia qualcosa da scrivere. Forse Kyoto sarà un racconto di seta e carta.»
Prendo il taccuino. Poi Hana si ferma davanti a una bancarella di dolci.
«Ne vuoi uno?»

Sul bancone ci sono piccoli dolci di riso color pastello. Ne scelgo uno rosa, ripieno di fagioli dolci.
Lo addento, e la dolcezza delicata si scioglie sulla lingua.
«Com’è?» chiede Hana.
Sorrido. «Sa di Kyoto.»
Lei ride. «E di cos’altro?»
Rifletto un attimo, poi rispondo.
«Di qualcosa che voglio ricordare.»
Il mercato continua a scorrere intorno a noi, tra luci, voci e profumi. Kyoto mi parla, e io l’ascolto.
Una libreria aperta nella notte
Il mercato alle nostre spalle si spegne lentamente. Le bancarelle iniziano a chiudere, le lanterne oscillano piano nel vento tiepido. Hana si ferma un attimo, si sfila la borsa dalla spalla e si stiracchia.
«Io torno alla guesthouse. Domani ho una lezione all’università.»
Annuisco, non ancora pronta per rientrare. «Grazie per la giornata.»
Sorride. «Buona esplorazione notturna.»

Si allontana tra la folla che si dirada. Io riprendo a camminare senza una meta precisa, lasciando che Kyoto decida per me.
Dopo pochi minuti, noto una piccola vetrina illuminata. L’insegna è scritta a mano, i caratteri giapponesi tracciati con inchiostro nero su legno chiaro. Non c’è altro che una porta scorrevole leggermente aperta.
Entro.
L’aria sa di carta e polvere sottile. La libreria è minuscola, ma le pareti sono coperte di scaffali fino al soffitto. Libri antichi, volumi rilegati in seta, piccole raccolte di poesie.
Dietro il bancone c’è un uomo anziano con occhiali sottili e mani eleganti. Mi guarda senza sorpresa, come se sapesse già che sarei arrivata.
«Benvenuta.» La sua voce è profonda, calma.
Annuisco, quasi in un inchino, e mi avvicino agli scaffali. Il silenzio è perfetto. Sfioro le copertine, alcune ruvide, altre lisce come seta.
Poi trovo un libro che mi attrae senza motivo apparente: una raccolta di haiku, con una copertina bianca e sottili disegni d’inchiostro. Lo apro a caso.
“Le onde si ritirano,
lasciando tracce sulla sabbia.
Domani, il mare le porterà via.”
«A Parigi, lungo la Senna, avevo trovato un vecchio libro di Baudelaire abbandonato su una bancarella. Qui, tra questi scaffali, mi sembra di sentire le voci di poeti lontani, come se Kyoto mi stesse parlando in sussurri d’inchiostro.»
Il libraio si avvicina con passi leggeri.
«Un bel libro,» dice, osservando la pagina che ho aperto.
Annuisco. «Gli haiku sembrano brevi, ma hanno un peso incredibile.»
Lui sorride. «Esattamente. Le parole giuste non hanno bisogno di essere tante.»
Prendo il libro. Lui lo avvolge in una carta sottile, mi porge il pacchetto con entrambe le mani.
«Buona notte, viaggiatrice.»
Uscendo, respiro l’aria fresca della sera. Il libro pesa leggero nella mia borsa, come un segreto che Kyoto ha deciso di affidarmi.
Fine della prima giornata di Livia a Kyoto.

Pinuccia
28 Marzo 2025 a 11:21
Mi piacerebbe viaggiare con Livia ma ora posso farlo solo con questi racconti che sono intensi e veramente descritti molto bene un applauso allo scrittore 👏👏👏
Riccardo Alberto Quattrini
28 Marzo 2025 a 11:59
Carissima, il vero viaggio è camminare insieme lungo la strada, non arrivare da qualche parte.