Pensieri e riflessioni di una viaggiatrice culturale

DIARIO DI UNA FLÂNEUSE – SEI – 

seconda e terza giornata

Redazione Inchiostronero

La bellezza di una città non si trova nei monumenti più famosi o nelle piazze più frequentate. È nascosta nei dettagli, in quelle piccole cose che non si vedono di sfuggita. Camminare senza fretta è come passare dall’alta definizione di una fotografia alla delicatezza di una pennellata: ti accorgi di ciò che prima ignoravi, perché il tuo sguardo si allarga e si approfondisce.

Livia mentre parte da Malpensa

Mi chiamo Livia, e viaggio per perdermi. Non cerco itinerari precisi, non colleziono check-list di luoghi da visitare. Mi lascio guidare dalle città, dai vicoli silenziosi e dalle storie che si nascondono tra le pagine di un vecchio libro trovato per caso. Parigi, ho camminato lungo la Senna al tramonto, lasciando che i versi di Baudelaire si intrecciassero con il rumore dell’acqua. A Praga, ho seguito le ombre di Kafka tra i vicoli della Città Vecchia, mentre nell’aria si diffondeva l’aroma caldo della cannella e del vino speziato. A Lisbona, mi sono persa nei quartieri colorati dell’Alfama, dove le note struggenti del fado si arrampicavano lungo i muri bianchi come sussurri malinconici. Edimburgo, una città di storie sospese tra realtà e leggenda, dove ogni pietra racconta un segreto. Qui, tra il vento del Nord e l’aroma antico delle librerie polverose, ho camminato senza fretta, lasciando che fosse la città a scegliere il mio percorso. San Pietroburgo, il cielo basso e bianco si specchiava nei canali ghiacciati, mentre i versi di Dostoevskij sembravano sussurrare tra i vicoli della Prospettiva Nevskij. Ora, un nuovo viaggio mi attende. Una nuova città. Un’altra pagina da scrivere camminando.

Livia all’arrivo all’aeroporto di Kyoto il primo giorno

Seconda giornata Le parole che restano

Ci sono voci che non chiedono risposta, ma che ti attraversano come la luce di un mattino limpido. Parole semplici, che restano e iniziano qualcosa, senza fretta.

Livia sulla soglia del ryokan, immersa in una luce mattutina pallida,

Dopo il saluto con Hana, rimango qualche istante sulla soglia del ryokan, con il libro di haiku stretto tra le mani. Il cielo è ancora pallido, ma promette una giornata limpida. Mi incammino piano, senza fretta.

Poi sento la voce.

«Non sei di qui.»

Mi volto. È il ragazzo di ieri sera, quello seduto sul muretto accanto all’ingresso. Lo stesso libro aperto sulle ginocchia, ora chiuso. Ha gli occhi scuri, vivi, con quell’intensità curiosa che riconosco in chi ama osservare il mondo prima di entrarci dentro.

«Yuki, vero?»

«E tu, Livia.» Sorride. «Ti va un caffè? Ti devo mostrare qualcosa.

Il caffè nascosto e il taccuino di Bashō.

Il cammino si stringe,
la voce del mondo si allontana.
Tra le foglie bagnate un silenzio antico ci accompagna.
Ogni pietra ha il peso di una parola non detta.


Entriamo in un piccolo kissaten nascosto tra le case

Entriamo in un piccolo kissaten nascosto tra le case. La luce è soffusa, i tavoli in legno scuro, le tazze spaiate. L’aroma di caffè tostato si mescola a un profumo di carta antica.

Yuki appoggia sul tavolo un quaderno di pelle consumata. Lo apre con delicatezza.

«Sto preparando una tesi sulla poesia giapponese classica. Bashō, Buson, Issa…» Mi mostra una pagina con appunti fitti, segni a matita e kanji annotati a lato.

«Bashō,» ripeto piano. «Lo conosco. Ho scritto qualcosa su di lui anni fa, per il mio blog.»

Lui mi guarda, incuriosito. «Allora sai che era un viaggiatore. Un pellegrino della parola.»

Annuisco. «I suoi haiku sono pietre di silenzio.»

Yuki prende un foglio e scrive piano:

“In viaggio d’autunno – il mio unico compagno il crepitio delle foglie.”

«Uno dei miei preferiti,» dice. «Vuoi vedere il sentiero che ha ispirato alcuni dei suoi versi?»

Mi viene da sorridere. «Certo.»

«A Parigi, i poeti si nascondevano nei caffè, tra nuvole di fumo e tazze mezze vuote. Qui, la poesia si cammina.»

Il tempio delle parole leggere

Yuki cammina con passo calmo, il suo taccuino sotto braccio. La strada si fa più stretta, bordata da muretti bassi e alberi dalle foglie sottili. Mi dice che stiamo andando verso Konpuku-ji, un piccolo tempio fuori dai percorsi turistici, dove Bashō avrebbe composto uno dei suoi haiku più celebri.

«Lo chiamano il tempio dei poeti,» mi dice. «Qui venivano per ascoltare il suono del vento tra i pini.»

Livia accanto a Yuki

Il quartiere si dirada. Il rumore del traffico si dissolve in una quiete crescente. Il cielo è di un azzurro nitido, e la luce del mattino si rifrange sulle foglie bagnate dalla rugiada. Passiamo accanto a un giardino curato con maniacale attenzione: ghiaia pettinata, rocce disposte come sillabe. Tutto qui sembra voler dire qualcosa, anche senza parlare.

«A Edimburgo, il silenzio era pieno di pioggia e di storie. Qui è un vuoto pieno: come una pagina bianca già intrisa di significato.»

Arriviamo all’ingresso del tempio. Un sentiero in pietra si snoda tra cespugli e alberi antichi. Una lanterna di pietra, coperta di muschio, accoglie i visitatori. Yuki si ferma davanti a una stele grigia, inclinata leggermente da un lato.

«Qui,» dice, «ci sono incisi versi di Bashō. Questo è uno dei suoi ultimi haiku

Si avvicina, appoggia la mano al bordo della pietra, poi legge:

“Vecchio stagno – una rana si tuffa suono dell’acqua.”

Sto in silenzio. Sento quel suono immaginato come se accadesse ora, proprio accanto a noi.

«È come se il tempo si fermasse in questi tre versi,» mormoro.***

Yuki annuisce. «Bashō diceva che scrivere haiku è ‘seguire la cosa fin dove essa parla’. Non guidarla, non forzarla. Ascoltarla.»

Ci sediamo su una panca di legno, di fronte al giardino interno. Un piccolo stagno riflette i rami sottili di un salice. Una rana vera salta sull’acqua, come per rendere omaggio al verso.

 «A San Pietroburgo, le parole erano scavate nel marmo dei palazzi. A Kyoto, le parole fluttuano nell’aria, leggere come il respiro di un fiore.»

Yuki estrae dalla borsa due fogli di washi e una matita. «Scriviamone uno anche noi.»

Esito un attimo. Non so se posso osare, ma poi sento che non importa. Non è una prova, è un gesto.

Il mio haiku nasce così:

Foglie d’acero –
la tua voce cammina
nel vento fresco.

Lui lo legge, in silenzio. Poi sorride. «Bashō avrebbe approvato.»

Ci alziamo. Prima di andar via, leghiamo i nostri haiku a un ramo sottile, come piccoli desideri lasciati al tempo.

Yuki e Livia legano i loro haiku a un ramo sottile

Parole tra le pagine, silenzi tra le righe

«C’è un posto che voglio mostrarti,» mi dice Yuki, mentre lasciamo il tempio alle spalle.

Il sentiero si fa più urbano, ma mantiene una sua grazia. Kyoto non rinuncia mai del tutto al suo mistero, anche nei quartieri più moderni.

Attraversiamo una via laterale e arriviamo davanti a un edificio in legno scuro, con finestre quadrate e una porta scorrevole socchiusa. Sopra, un’insegna discreta: Shosei-an, scritto in calligrafia.

«Non è solo una biblioteca,» dice Yuki. «È un luogo di passaggio. Di lettura silenziosa e incontri non programmati.»

Entriamo.

Livia e Yuki davanti al Shosei-an

La luce è calda, filtrata da pannelli in carta di riso. Gli scaffali arrivano fino al soffitto. Ci sono poltroncine basse, cuscini sparsi, tavolini con tazze di tè dimenticate accanto ai libri. Tutto odora di carta, inchiostro e tempo.

Yuki cammina con sicurezza, poi si ferma davanti a un volume rilegato in seta blu. Lo sfila e lo apre.

«Questa è una raccolta di diari di viaggio di poeti e scrittori del periodo Edo. Bashō, ma anche donne come Sei Shōnagon e Izumi Shikibu. Ti piacerebbe.»

Mi siedo su un cuscino basso e sfoglio il libro lentamente. Le pagine sembrano trattenere la voce di chi ha scritto.

«A Praga, le biblioteche erano cattedrali. Qui, i libri sussurrano. Non si impongono, ti aspettano.»

Yuki si siede accanto a me. È silenzioso, rispettoso, ma la sua presenza è precisa, vicina. Il silenzio tra noi non pesa.

Dopo un po’, chiude il suo taccuino e lo appoggia sul tavolo.

«Posso chiederti qualcosa?»

Annuisco.

«Perché viaggi da sola?»

La domanda non è invadente. È solo curiosa. Vera.

Guardo fuori dalla finestra. Un albero si muove piano, come se stesse ascoltando anche lui.

«Per trovare cose che non cerco. O forse per perderne altre.»

Lui non risponde subito. Poi: «Anche mia madre viaggiava così. Diceva che a volte, per ritrovarsi, bisogna prima perdersi del tutto.»

Lo guardo. Nei suoi occhi, per un attimo, una malinconia. Breve, ma sincera.

«Non c’è più?» chiedo, senza forzare.

Scuote piano la testa. «Da qualche anno. Lei mi ha insegnato a leggere Bashō. A camminare, ascoltando i versi del mondo.»

«A Lisbona, un suonatore di fado mi aveva raccontato un amore mai vissuto. Qui, le storie arrivano senza chiedere il permesso. E restano.»

Rimaniamo lì, in silenzio. Le parole si sono fatte leggere, ma il legame è diventato più denso, come una linea tracciata con l’inchiostro su carta assorbente.

Prima di uscire, Yuki mi porge una foglia secca trovata tra le pagine del libro. È fragile, perfetta.

«Segnalibro naturale,» dice. «Così ti ricorderai di questa lettura, anche fuori da qui.»

Sorrido. La infilo tra le pagine del mio taccuino.

Sera. La voce delle lanterne

Livia cammina verso Gion

Mi incammino verso Gion, il quartiere dove le tradizioni sembrano trattenere il respiro, come una foto in bianco e nero che non vuole sbiadire. Le strade in pietra sono illuminate da lanterne appese a fili sottili, e il suono dei miei passi si perde tra i mormorii delle case da tè.

Seguo le indicazioni di Yuki: “Porta rossa, cortile interno, silenzio garantito.”

La trovo. Una casa antica, con una piccola lanterna all’ingresso. Varco la soglia e mi accoglie un cortile interno, raccolto, incantato.

Candele ovunque: disposte lungo il perimetro, sui gradini, intorno al piccolo palco in legno al centro. Le loro fiamme tremano piano, come sillabe sussurrate.

Poche persone, sedute su cuscini o panche basse. Una donna in kimono introduce la serata, ringraziando in giapponese e in inglese. Poi, con voce limpida, inizia a leggere.

Sera d’autunno –
i pensieri tornano
come la marea.

Il tempo si scioglie.

Yuki mi vede e si avvicina senza parole, lasciando libero il cuscino accanto al suo. Mi siedo. Sento il suo sguardo su di me, ma non mi volto.

Un altro lettore si alza. Un uomo giovane, emozionato. Legge in giapponese, poi traduce.

Nel buio, una luce –
non cerco più la strada.
Ora mi basta restare

Quel verso mi colpisce come una goccia precisa sul cuore.

Restare.

«A Parigi mi sono persa senza volerlo. A Lisbona senza oppormi. A Kyoto, forse, inizio a restare. Anche solo con il pensiero.»

Yuki si piega leggermente verso di me.

«Ti piace?» sussurra.

Annuisco. «Mi fa sentire… piccola. Ma viva.»

Lui sorride. «È la misura giusta per la poesia.»

La serata continua, leggera. Ogni verso è una finestra aperta.
Poi, all’improvviso, la donna sul palco invita il pubblico: chiunque voglia, può leggere qualcosa.

Yuki mi guarda. «Hai il tuo taccuino con te?»

Lo apro. La foglia secca è ancora lì. Rileggo il mio haiku scritto al tempio.
Esito. Poi mi alzo.

Mi avvicino piano. La donna mi accoglie con un inchino gentile.

Leggo:

Foglie d’acero –
la tua voce cammina
nel vento fresco.

Silenzio. Poi un lieve mormorio di approvazione. Non applausi. Solo rispetto.

Torno a sedermi. Yuki mi guarda in un modo diverso. Non sorride. Non dice nulla. Ma i suoi occhi parlano.

«Forse non si viaggia solo per cercare luoghi, ma anche per ascoltare chi, con poche parole, ti fa sentire parte di un mondo che prima non conoscevi.»

La serata finisce. Le lanterne si spengono piano, una dopo l’altra. Restiamo lì ancora un attimo. Nessuno dei due si alza.

Poi Yuki rompe il silenzio.

«Domani torno all’università. Ma se vuoi, ti lascio un altro luogo da scoprire. Un posto in cui lei —mia madre— diceva che il tempo smetteva di correre.»

Lo guardo. Non so ancora cosa rispondere. Ma già so che ci andrò.

Quando il tempo inciampa

Livia esce dal ryokan

La mattina inizia con una direzione precisa: il luogo che Yuki mi ha suggerito ieri sera. Non mi ha detto molto, solo:

“Segui il fiume finché non incontri qualcosa che ti fa sorridere.”

Lascio il ryokan con il mio taccuino nello zaino, il passo leggero, la mente aperta.

Il cielo è nuvoloso, ma non minaccia pioggia. Kyoto ha una luce che cambia umore in continuazione, come certe poesie: prima sospira, poi ride.

Cammino lungo il fiume Kamo. L’acqua scorre placida, e le persone sul lungofiume sembrano uscite da una scena teatrale in pieno giorno: un uomo con un cane vestito da samurai; una ragazza in kimono che mangia patatine; due turisti persi che discutono accanto a una mappa capovolta.

«A Edimburgo, i fantasmi passeggiavano in silenzio. Qui, le stranezze sono vive, a colori, e bevono tè freddo in lattina.»

Dopo un po’, lo vedo. O meglio, lo sento.

Un suono metallico, ritmato. Poi, un’esplosione di colori.

È un piccolo tempio di quartiere, ma davanti c’è un mercatino improvvisato. Bancarelle con oggetti assurdi: bambole con kimono in miniatura, gatti portafortuna con occhiali da sole, ventagli decorati con frasi motivazionali scritte in inglese sgrammaticato.

Un vecchietto vende campanelli di vetro che tintinnano a ogni soffio di vento.

Livia al mercatino poetico davanti al piccolo tempio di quartiere

«Questo suona meglio quando sei felice,» mi dice.

Lo guardo. «E se non lo sono?»

Lui mi fa l’occhiolino. «Allora serve di più.»

Compro un campanello. È rosa, con una rana disegnata sopra. Sorrido. Livia che compra una rana rosa.
C’è sempre una prima volta.

Poi vedo un gruppo di bambini che disegnano con i gessetti sul marciapiede. Uno mi guarda, serio. Mi tende un pezzo di gesso azzurro.

«Tu. Disegna luna!»

Mi inginocchio. Disegno la luna. Che sembra più una patata. Ma loro applaudono.

«A Praga, cercavo ombre nei vicoli. Oggi disegno lune storte con bambini sconosciuti. Forse è anche questa una forma di poesia.»

Resto lì ancora un po’, tra risate, cianfrusaglie, rumori confusi e profumo di takoyaki nell’aria.

Poi sento un miagolio. Mi volto. Un gatto bianco e arancione è seduto sopra un distributore automatico. Mi guarda come se mi aspettasse.

Mi avvicino.

Sotto di lui, un piccolo biglietto incastrato nella plastica:

“Nel caos, guarda bene. Troverai la tua quiete.”

Guardo il gatto. Lui socchiude gli occhi.

«Va bene, Kyoto. Hai deciso tu il tono oggi.»

Sera. Il regalo inatteso

Il sole comincia a calare, lentamente, dietro i tetti bassi. Kyoto cambia tono: i colori si fanno più profondi, le ombre più lunghe, il brusio più ovattato.

Cammino senza fretta, tenendo il piccolo campanello rosa in tasca. Ogni tanto si muove, tintinnando piano, come se volesse ricordarmi che oggi è stata una giornata diversa.

Penso a tornare al ryokan. Ma poi, un suono mi trattiene.

Musica.

Non la musica tradizionale che ci si aspetta a Kyoto, ma qualcosa di inaspettato: jazz, caldo e sporco, come una vecchia fotografia che ha preso fuoco ai bordi.

Seguo il suono. Scendo una scaletta stretta, quasi nascosta. Una porta scura, una lanterna rossa accesa. L’insegna, scritta a mano:

“Blue Cat – live music, no plans.”

Sorrido. Esattamente quello che cercavo senza sapere di cercarlo.

Entro.

Il locale è minuscolo. Fumo di incenso, luci basse, pareti di legno scuro. Un palco piccolo, un trio che suona con l’anima.

Mi siedo in un angolo, ordino un tè caldo con miele. Poi lo vedo.

Un uomo sui trentacinque, forse. Seduto al bancone, con un taccuino aperto davanti e una matita in mano. Non disegna. Scrive. Ma non come chi prende appunti: scrive come se ascoltasse.

Mi incuriosisce. Forse perché mi somiglia.

Il suo sguardo incrocia il mio. Un cenno. Un silenzioso “anch’io sono qui per caso”.

Dopo un po’, si avvicina. Non con invadenza, ma con naturalezza.

«Hai l’aria di chi ascolta con attenzione.»

Sorrido. «E tu l’aria di chi prende appunti per non dimenticare.»

Si presenta: Leo. Di Venezia. Viaggia scrivendo di musica e città.

«Sono passato per Tokyo, poi Osaka. Ma Kyoto… Kyoto ti prende piano e non ti molla più.»

Parliamo. Non tanto. Quanto basta.

Mi racconta di un locale a Lisbona dove aveva sentito il fado per la prima volta. Mi dice che le città hanno sempre un suono, basta trovare la giusta frequenza.

«Forse ogni viaggio è anche un duetto. A volte suoni, a volte ascolti. Stasera, io ascolto. E sento.»

Dopo un po’, tiriamo fuori i taccuini.

«Ti va di scambiare una frase? La tua per la mia.»

Scrivo per lui:

Kyoto respira.
Con parole che non dico,
ma che resteranno.

Lui mi scrive:

Certe città
sono persone travestite
da labirinti gentili.

Ci scambiamo i fogli. Non i numeri. Non promesse. Solo parole.

Usciamo insieme.

Fuori il cielo è limpido. Kyoto tace, ma solo in apparenza.

Ci salutiamo con un abbraccio lieve, come tra viaggiatori che sanno che l’incontro è già abbastanza.

«Parigi mi aveva fatto sognare. Praga mi aveva parlato. Kyoto mi ha insegnato ad ascoltare davvero. Domani parto. Ma qualcosa resta. E per la prima volta, non sento la fine come un addio.»

Partire senza tornare indietro

Il mattino arriva in silenzio, come se Kyoto sapesse che sto per andare via e volesse lasciarmi spazio per ascoltare l’ultima volta.

Chiudo la valigia.
Il mio trolley giallo, quello che ha visto aeroporti, piogge improvvise e marciapiedi stanchi, scivola piano sul tatami mentre esco dalla stanza. Il campanello rosa, appeso alla zip, tintinna appena. È il suono con cui saluto questa città.

La reception è vuota. Lascio la chiave sulla scrivania con un biglietto piegato in due: “Grazie per il silenzio.”

Prima dell’aeroporto, mi concedo una passeggiata. Lenta. Intima.

Ritorno lungo il Kamo, dove le carpe si muovono ancora come versi liquidi. Passo accanto alla libreria notturna, che a quest’ora dorme con le luci spente. Saluto con lo sguardo il piccolo tempio dei poeti.

Tutto è come ieri, ma tutto è già diverso.

Mi fermo su una panchina e tiro fuori la cartolina comprata nel mercatino: un dipinto a mano di una geisha sotto la pioggia. Dietro, la mia calligrafia sottile.

“Non so se tornerò, ma so che ti porterò con me.
Nelle parole. Nelle pause.
E in ogni passo che non sa ancora dove andrà.”

Non la spedisco. La piego e la infilo nel mio taccuino.
Ci sono frasi che non cercano risposte.

«So che Kyoto potrebbe ancora darmi un’infinità di sensazioni. Di strade, di sguardi, di piccoli miracoli. Ma è troppo bello l’ignoto di un nuovo viaggio. L’orizzonte che si sposta, e con lui il mio sguardo.»

Mi alzo. Il sole comincia a salire.
Taxi, stazione, aeroporto. Il ritmo si fa più veloce, ma dentro resta quella calma che solo Kyoto mi ha insegnato.

Una voce all’altoparlante annuncia l’imbarco.

Livia sull’aereo che la porterà a Milano

Salgo sull’aereo. Il finestrino inquadra i tetti grigi, le montagne lontane, il cielo che apre.

Chiudo gli occhi.

Qual è la prossima città, Livia?
Non lo so.
Ma sento che anche lei mi sta già aspettando.

Scalo a Malpensa

Il mio trolley giallo avanza piano lungo il corridoio sterile del terminal. Intorno, voci in ogni lingua, odore di caffè bruciato e luci al neon.

Penso a Kyoto. Alla foglia secca, al tempio, al jazz, al ragazzo con cui non ci siamo promessi nulla.
Non sono triste. Ma nemmeno piena.
Solo in bilico.
Come sempre, dopo un viaggio che ti ha cambiata senza farsi notare.

Poi, la vedo.

Un manifesto pubblicitario, gigante. Colori accesi.
Buenos Aires. Dove la vita danza.

Non so perché mi fermo. O forse sì.
Il cuore accelera appena. Come se qualcuno, dentro di me, sapesse già.


“A Kyoto, le parole si raccoglievano come petali.
A Buenos Aires, esplodono come fuochi d’artificio.
E io, Livia, non ho paura di bruciarmi.”

Guardo il cartellone ancora per un istante.
Poi sorrido.
E ricomincio a camminare.

Livia di ritorna dal suo viaggio. Il prossimo è già chiaro nella sua mente.

 

Riccardo Alberto Quattrini

 

Tutti i viaggi di Livia

 

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