Pensieri e riflessioni di una viaggiatrice culturale
DIARIO DI UNA FLÂNEUSE – SETTE –
Redazione Inchiostronero
La bellezza di una città non si trova nei monumenti più famosi o nelle piazze più frequentate. È nascosta nei dettagli, in quelle piccole cose che non si vedono di sfuggita. Camminare senza fretta è come passare dall’alta definizione di una fotografia alla delicatezza di una pennellata: ti accorgi di ciò che prima ignoravi, perché il tuo sguardo si allarga e si approfondisce.
Livia mentre parte da Malpensa
Mi chiamo Livia, e viaggio per perdermi. Non cerco itinerari, né mappe da seguire. Non compilo liste di monumenti o attrazioni da depennare. Cammino, osservo, ascolto. Mi lascio guidare dalle città, dai silenzi dei vicoli, dalle storie che si annidano tra le pagine stropicciate di un vecchio libro trovato per caso. A Parigi, ho camminato lungo la Senna al tramonto, lasciando che i versi di Baudelaire si confondessero col rumore dell’acqua. A Praga, ho seguito le ombre di Kafka tra i vicoli della Città Vecchia, mentre nell’aria si mescolavano cannella e vino speziato. A Lisbona, mi sono persa nell’Alfama, tra le voci del fado che salivano dai muri come sussurri malinconici.
A Edimburgo, ho lasciato che il vento e le librerie mi scegliessero il cammino, in una città sospesa tra leggende e nebbia. A San Pietroburgo, ho camminato sulla Prospettiva Nevskij sotto un cielo bianco e basso, ascoltando i sussurri di Dostoevskij. A Kyoto, ho imparato il silenzio, tra i torii rossi di Fushimi Inari e le ombre perfette dei giardini zen. Ora, un nuovo viaggio mi attende. Una nuova città. Un’altra pagina da scrivere camminando.

Arrivo a Buenos Aires
L’aereo tocca terra con un sussulto gentile, come se anche lui si stesse adattando al respiro lento del Sud del mondo. Dall’oblò, la città si stende in una geometria di luci dorate e ombre lunghe. Sono le sette del mattino, e l’aeroporto di Ezeiza ha quell’odore inconfondibile di viaggi appena cominciati e stanchezze accumulate.
La fila per il controllo passaporti è lenta. Osservo i volti stanchi, le valigie segnate dal tempo e le mani che stringono documenti con gesti automatici. Un bambino sbadiglia appoggiato alla spalla del padre, una donna anziana tiene stretto un mazzo di fiori di carta. La lingua spagnola mi arriva in frammenti, come un tango sussurrato tra denti stretti.
Quando finalmente varco le porte scorrevoli dell’uscita, il caldo mi investe con dolcezza. Il cielo è di un azzurro quasi teatrale, e l’aria vibra di promesse.
Fuori, una selva di tassisti agita cartelli. Ne scelgo uno con gli occhi gentili, un uomo sulla sessantina con un cappello di paglia sdrucito e la camicia sbottonata sul petto. Mi accoglie con un sorriso che sa di mate e pazienza.
«¿A dónde vamos, señorita?»
“Dove andiamo, signorina?”
«Hotel L’Adresse, en San Telmo… ¿puede hablar despacio, por favor? Mi español no es perfecto.»
“Hotel L’Adresse, a San Telmo… può parlare lentamente, per favore? Il mio spagnolo non è perfetto.”
«Ah, claro que sí, no hay problema. San Telmo… buena elección. Es un barrio con alma, ¿sabe?»
“Ma certo, nessun problema. San Telmo… ottima scelta. È un quartiere con un’anima, sa?”
Annuisco. Amo quando le città hanno un’anima. Salgo sul taxi, poggio la fronte contro il vetro e lascio che le prime immagini di Buenos Aires mi scorrano davanti come fotogrammi imperfetti: murales colorati, file di jacaranda, biciclette appoggiate ai semafori.
«¿Primera vez en Buenos Aires?»
“È la prima volta a Buenos Aires?”
«Sí… primera vez. Y espero… perderme un poco.»
“Sì… la prima volta. E spero… di perdermi un po’.”
Lui ride con gli occhi.
«Entonces vino al lugar correcto. Aquí, todos estamos un poco perdidos.»
“Allora è venuta nel posto giusto. Qui, siamo tutti un po’ perduti.”
Arriviamo a San Telmo mentre il sole filtra tra gli alberi e le strade si animano di voci e mercati improvvisati. Scendo, ringrazio, e mentre entro nell’albergo — un’antica casa coloniale ristrutturata — sento che la città già mi sta raccontando qualcosa. Una promessa. Una storia.

L’Hotel L’Adresse è un rifugio silenzioso nel cuore pulsante della città. Muri chiari, un patio interno pieno di piante rampicanti, libri sparsi ovunque come ospiti di lunga data. Mi accoglie una giovane donna con un sorriso discreto e un orecchio attento.
«¿Quiere que hable más despacio?»
“Vuole che parli più lentamente?”
«Sí, por favor. Necesito… tiempo para entender bien.»
“Sì, per favore. Ho bisogno… di tempo per capire bene.”
La stanza è semplice e luminosa: un letto ampio con lenzuola bianche, un ventilatore che gira pigramente sul soffitto, una finestra con le persiane azzurre aperta sulla città. Non disfo nemmeno la valigia. Cambio le scarpe, prendo il taccuino e la macchina fotografica. Ho troppa voglia di respirare le strade.

San Telmo mi accoglie con il passo rilassato del Sud. Cammino senza meta precisa, lasciandomi guidare dal rumore delle scarpe sul selciato irregolare. Le vie sono strette, i palazzi portano i segni del tempo con una dignità sfrontata. Balconi in ferro battuto, panni stesi, finestre spalancate da cui escono note di una vecchia milonga.
In Plaza Dorrego, il cuore del quartiere, i mercatini sono già in fermento. Banconi di libri impolverati, dischi in vinile, posate d’argento, bambole rotte e fotografie di sconosciuti: frammenti di vite passate in cerca di nuovi occhi.

Mi fermo davanti a una bancarella dove un uomo sulla quarantina sistema con cura vecchi romanzi in lingua originale. Ha la barba incolta, un cappello di feltro e dita macchiate d’inchiostro.
«¿Busca algo especial?»
“Cerca qualcosa di speciale?”
«Solo… algo que me encuentre a mí.»
“Solo… qualcosa che trovi me.”
Lui mi guarda, incuriosito.
«Entonces, no mire. Espere.»
“Allora non guardi. Aspetti.”
E mi porge un libro consunto, dalla copertina rossa. È una raccolta di poesie di Alejandra Pizarnik. Sorrido. Le prime parole che leggo sembrano scritte per me:
“Hay en mí una ausencia que es como una cuna.”
C’è in me un’assenza che è come una culla.
Cammino ancora. Entro in una piccola libreria con una scala a chiocciola che porta a un soppalco stretto. Il proprietario, un uomo silenzioso con occhiali tondi e mani lunghe, mi offre un caffè e un consiglio:
«Aquí la gente no compra libros… los acaricia.»
“Qui la gente non compra i libri… li accarezza.”
Mi siedo per qualche minuto su una vecchia poltrona sfondatasi mille volte, ascoltando il rumore delle pagine sfogliate. Poi, di nuovo in cammino.
Verso sera, un gruppo di musicisti di strada si sistema all’angolo di una via. Chitarra, contrabbasso, bandoneón. Le prime note si alzano come un soffio caldo. Un uomo e una donna iniziano a danzare, senza guardarsi, come se fossero due ombre abituate da sempre a trovarsi.
Mi fermo. Lascio che la musica mi entri sotto la pelle.
E mentre il cielo di Buenos Aires si tinge di rosa e arancio, capisco che oggi non ho imparato nulla… ma ho sentito tutto.

2° giorno San Telmo – Il ritmo del passo e lo sguardo della luce
La luce del mattino entra dalla finestra come un invito discreto.
Buenos Aires mi ha cullata nel sonno con il suono distante di un bandoneón, e ora mi richiama con l’aroma del pane tostato e del caffè che sale dal patio dell’albergo.
Scendo presto. La città sembra ancora assonnata.
Cammino lungo Defensa: le strade sono bagnate dai primi lavaggi del giorno, i negozianti alzano le saracinesche con gesti lenti.
Oggi non cerco nulla.
Voglio solo osservare, come se la città avesse ancora qualcosa da svelarmi con discrezione.
In una piazzetta laterale, un cartello scritto a mano attira la mia attenzione:
“Clases de tango – abiertas a todos – sin inscripción.”
Lezioni di tango – aperte a tutti – senza iscrizione.
Una freccia rossa indica un piccolo centro culturale ricavato da un ex magazzino.
Dentro, il pavimento in legno è segnato dal tempo, le pareti ospitano vecchie foto in bianco e nero: coppie che danzano, visi fieri, pose sospese.
Un uomo sta sistemando le sedie. Alto, spalle larghe, capelli grigi raccolti in una coda.
Ha un modo di muoversi che non si può disimparare: come se ogni passo portasse ancora il ritmo di un compás interiore.
Mi avvicino, un po’ incerta.
«¿Aquí… se puede ver?»
“Qui… si può solo guardare?”
«Se puede mirar, y también probar.»
“Si può guardare, e anche provare.”
«No bailo… sólo camino.»
“Non ballo… cammino soltanto.”
«Entonces ya sabe lo esencial. El tango empieza con un paso. El segundo… viene solo.»
“Allora conosce già l’essenziale. Il tango comincia con un passo. Il secondo… viene da sé.”
Si chiama Miguel, e ha danzato in milonghe leggendarie.
Mi racconta di quando Buenos Aires respirava tango in ogni cortile, di quando i passi si imparavano non nei corsi, ma ascoltando il battito dell’altro.
«Antes se bailaba para sentir. Ahora muchos bailan para mostrar.»
“Una volta si ballava per sentire. Ora molti ballano per mostrare.”
Restiamo a parlare a lungo.
Mi offre un mate — forte, amaro, vivo — e mi insegna come si passa la calabaza, come si aspetta il turno, come si tace con rispetto.
«El tango no se enseña… se contagia.»
“Il tango non si insegna… si trasmette.”
Quando mi lascia all’angolo di una strada tranquilla, mi saluta così:
«Nos volveremos a cruzar.»
“Ci incroceremo di nuovo.”
Lo dice con certezza, ma senza fretta.
Come si dice qualcosa che non ha bisogno di essere creduto subito.
Pomeriggio – Il pranzo e l’incontro
Rientro in albergo poco dopo le due.
L’aria è calda, immobile. Buenos Aires sembra rallentare insieme al sole che picchia sulle persiane socchiuse.
Mi fermo a pranzare nel piccolo ristorante dell’hotel: una saletta raccolta, con tavoli di legno chiaro e tovaglie stinte dal tempo.
Mi siedo vicino alla finestra aperta sul patio interno, dove una pianta di limone lascia cadere una foglia gialla ogni tanto, come se stesse contando le ore.
Il menù è semplice ma profumato:
– empanadas salteñas, calde, fragranti, speziate;
– ensalada criolla, con pomodori lucidi, cipolla dolce e coriandolo;
– un bicchiere di vino Malbec, scuro, vellutato.
Sto finendo di scrivere qualche appunto sul mio taccuino quando qualcuno si siede al tavolo accanto.
Non l’ho vista entrare.

Una donna sulla cinquantina.
Capelli raccolti in un nodo disordinato, una macchina fotografica analogica al collo, le dita ancora odorose di chimica.
Indossa una camicia bianca spiegazzata e una lunga gonna nera con tasche profonde.
Mi guarda di sfuggita, poi sorride.
«¿Escribís?»
“Scrivi?”
«Sí. Cosas pequeñas. Impresiones.»
“Sì. Cose piccole. Impressioni.”
«Yo también. Pero con luz.»
“Anch’io. Ma con la luce.”
Si chiama Julia, fotografa. Vive tra Buenos Aires e Valparaíso.
È appena tornata da una sessione di stampa in bianco e nero, nel sottoscala del suo studio.
Mi mostra una foto appena sviluppata:
un uomo anziano che legge davanti a una vetrina di scarpe. Il riflesso lo sdoppia, lo moltiplica.
«El tango está en todas partes, ¿viste?»
“Il tango è ovunque, lo vedi?”
Mi racconta il suo progetto: fotografare le attese.
Non i gesti, ma quello che li precede.
O che li segue.
«La espera es más intensa que el gesto.»
“L’attesa è più intensa del gesto.”
Mi chiede se può fotografarmi.
Non so perché, ma accetto.
Scatta in silenzio, con lentezza.
Poi abbassa la macchina e sorride.
«Tenés algo en los ojos. Como si buscaras una ciudad que no existe del todo.»
“Hai qualcosa negli occhi. Come se cercassi una città che non esiste del tutto.”
Rido piano. Forse ha ragione.
Forse è proprio questo che faccio, ogni volta.
Poi le chiedo:
«¿Dónde revelás tus fotos?»
“Dove sviluppi le tue foto?”
«Tengo un lugar… un cuarto oscuro, sí. Pero también es un poco templo.»
“Ho un posto… una camera oscura, sì. Ma è anche un po’ un tempio.”
Fa una pausa. Poi aggiunge:
«Si tenés tiempo mañana… te muestro. Es un rincón en blanco y negro. Como los recuerdos.»
“Se domani hai tempo… ti porto. È un angolo in bianco e nero. Come i ricordi.”
Annuisco.
«Me gustaría.»
“Mi piacerebbe.”
Prima di uscire, mi guarda ancora una volta.
«Lo bueno del blanco y negro… es que nunca grita. Sólo susurra.»
“La cosa bella del bianco e nero… è che non urla mai. Solo sussurra.”
Sera – Patio e silenzi
Resto ancora un po’ nel patio.
Le prime ombre si allungano sui muri chiari.
Miguel mi ha raccontato storie. Julia me ne ha lasciata una negli occhi.
E Buenos Aires… si sta raccontando a poco a poco.
Apro il taccuino e scrivo:
“A volte basta un uomo che sa camminare al ritmo del tuo silenzio per sentirsi meno straniera.”
E subito dopo:
“Ci sono sguardi che ti fermano. E altri che ti prolungano. Julia ha fatto entrambe le cose.”
Lo chiudo.
Poggio il ventaglio sul tavolo, lo apro e lo richiudo, come se stessi imparando un linguaggio nuovo, fatto di gesti leggeri.
Passaggio in Hotel – Incontro con la ragazza
L’indomani mattina, mentre scendo per un caffè prima di scrivere, nella receptionist — una ragazza che fino a quel momento avevo solo intravisto — mi fa un cenno dal bancone.
Ha occhi verdi chiarissimi, capelli raccolti in una treccia che le scivola sulla spalla sinistra e un sorriso un po’ scomposto, come chi ha appena preso una decisione d’istinto.
«¿Le gustaría ver otro lado de Buenos Aires? Uno… más callado.»
“Le piacerebbe vedere un’altra faccia di Buenos Aires? Una… più silenziosa.”
«¿Qué lado?»
“Che faccia?”
«El mar. Bueno, no es Buenos Aires. Es más lejos. Mar de las Pampas. Yo voy mañana. Si quiere, puede venir.»
“Il mare. Beh, non è proprio Buenos Aires. È più lontano. Mar de las Pampas. Io ci vado domani. Se vuole, può venire.”
Il modo in cui lo dice non ha nulla di turistico. È come se mi stesse offrendo una tregua, non un’escursione. Una pausa da tutto il rumore.
La ragazza si chiama Aina. È catalana, ma vive a Buenos Aires da tre anni. Lavora in hotel la mattina, e il pomeriggio fa illustrazioni botaniche ad acquerello. Disegna in silenzio, per ore, in un piccolo studio condiviso in San Cristóbal.
Mi mostra il suo quaderno: foglie, nervature, fiori microscopici. Ogni tavola sembra sospesa nel tempo.
«Voy al mar cuando mi cabeza se llena demasiado.»
“Vado al mare quando la mia testa è troppo piena.”
Aina ha una macchina scassata ma resistente. Partirà il giorno dopo, molto presto. Mi offre il posto accanto a lei, senza fare domande.
Accetto. Non ho bisogno di sapere altro.
Mar de las Pampas – Il viaggio
Partiamo all’alba, quando la città è ancora distesa nel suo sonno pesante. Aina guida con una calma che pare meditativa. Non c’è musica in macchina. Solo il rumore delle gomme sull’asfalto e, ogni tanto, il verso di un uccello che attraversa la strada come un pensiero fugace.
Per un po’ non parliamo. Non c’è fretta.
Fuori, la pampa scivola come un lenzuolo steso al sole. Campi, silos, alberi solitari. La terra argentina si apre in orizzonti larghi, che sembrano fatti apposta per contenere le domande che ancora non abbiamo il coraggio di fare.
«¿Por qué viajás sola?» chiede Aina, dopo un’ora.
“Perché viaggi da sola?”
«Para escucharme. Pero a veces… ni siquiera eso.»
“Per ascoltarmi. Ma a volte… nemmeno quello.”
Aina sorride, ma non risponde subito. Tiene gli occhi fissi sulla strada.
«Yo vine a Buenos Aires para huir del ruido. Pero me llevé el mío.»
“Sono venuta a Buenos Aires per fuggire dal rumore. Ma mi sono portata dietro il mio.”
Ci fermiamo in una stazione di servizio nel nulla. Prendiamo un caffè annacquato, ci scaldiamo le mani sulle tazze. C’è un silenzio nuovo tra di noi, non imbarazzante — condiviso.
«¿Por qué dibujás sólo plantas?» le chiedo.
“Perché disegni solo piante?”
«Porque no me miran.»
“Perché non mi guardano.”
Poi, dopo una pausa:
«En España… fotografiaba personas. Mujeres. Las miradas me pesaban.»
“In Spagna… fotografavo persone. Donne. Gli sguardi mi pesavano.”
Mi racconta di Barcellona, dove lavorava come ritrattista per un’agenzia pubblicitaria. Bellezza confezionata. Volti truccati, luci artificiali, sguardi costruiti. Mi parla di un giorno in cui ha dimenticato il nome di una modella che aveva fotografato per settimane.
E ha capito che doveva cambiare.
«Las plantas no mienten. No posan. No quieren gustar. Sólo están.»
“Le piante non mentono. Non posano. Non vogliono piacere. Sono e basta.”
Arrivo al Mar de las Pampas
Quando arriviamo, il vento ci accoglie con un fruscio gentile. Le dune si muovono piano, come se respirassero. La spiaggia è vuota, il mare scuro e vasto.
Una riga orizzontale divide il mondo in due: sabbia e cielo, niente altro.
Camminiamo a lungo, senza parlare.
Livia raccoglie un sasso levigato dal mare e lo tiene nel palmo della mano. Aina, seduta su una radice secca, disegna la forma del vento tra i pini. Siamo in due mondi paralleli, ma vicinissimi.
«¿Sentís que este lugar es tuyo?» chiede Livia.
“Senti che questo posto ti appartiene?”
«No. Pero me deja estar.»
“No. Ma mi lascia stare.”
La giornata è quasi al termine
Al tramonto ci sediamo su una terrazza di legno sopra le dune. Beviamo una birra scura, in silenzio. Il sole cala piano, senza spettacolo. Solo luce che sfuma, come una fotografia che non ha bisogno di essere stampata.
Quando rientriamo nell’appartamento che Aina affitta ogni tanto per stare sola, lei accende una candela e tira fuori il suo quaderno. Mi disegna. In silenzio. Non come fanno i fotografi, ma come fanno gli alberi: lentamente, rispettando i contorni.
La luce tremola tra le pareti bianche. La sera profuma di sabbia e umidità salata. Sento il peso della giornata scivolare via. Quando Aina appoggia il quaderno e si avvicina, non c’è urgenza né incertezza. Solo un gesto naturale, come l’inizio di una canzone già conosciuta.
Mi sfiora la guancia con la punta delle dita, come si tocca qualcosa di fragile.
Poi mi bacia. Piano. Senza chiedere, senza spiegare.
Rispondo al bacio con la stessa lentezza.
Non c’è passione, c’è presenza.
Due corpi che si trovano, per un momento, al di là di ogni parola.
Più tardi, restiamo sdraiate sul materasso basso, le gambe intrecciate, le mani ferme tra i capelli. La finestra è aperta, il mare continua a parlare.
Non diciamo nulla.
Aina si addormenta prima di me. Io la guardo dormire. E penso che forse, a volte, non si cerca l’amore. Si cerca solo un luogo dove essere visti, senza spiegarsi.
E stanotte… lo abbiamo trovato.
Risveglio – Il desiderio che si congiunge
Mi sveglio con la luce chiara del mattino che filtra tra le tende leggere.
La finestra è aperta, e il mare ha cambiato voce: ora è più dolce, più vicino.
Aina è ancora lì, sdraiata accanto a me, con una gamba piegata, un braccio che sfiora il mio. I suoi capelli sono sciolti sul cuscino, e il respiro le danza sulle labbra come una preghiera silenziosa.
La guardo per un momento, poi le sfioro la spalla, piano, come se stessi chiamando un ricordo.
Aina apre gli occhi e sorride, come se avesse già sognato questo istante.
Non diciamo nulla. Non serve.
Si avvicina. I nostri corpi si cercano con la naturalezza di chi ha già rotto il silenzio, ma non ha ancora pronunciato il nome del desiderio.
Ci baciamo. Lentamente. Più profondamente.
Il sole si stende su di noi come una coperta calda.
Facciamo l’amore con la calma di chi non deve partire subito.
Quando restiamo nude, intrecciate, con la pelle che ancora respira l’una nell’altra, capisco che questo non è il seguito della notte: è il vero inizio.
Poi ci vestiamo ci diamo un ultimo sguardo scendere nella Hal.
Colazione e dono
Più tardi, prepariamo il caffè in silenzio.
Aina taglia frutta fresca, spalma burro su una fetta di pane tostato.
Tutto è lento, essenziale, vero.
Sul tavolo ci sono le sue matite. Aina prende una pagina nuova e mi guarda.
«Te llevo algo.»
“Ti lascio qualcosa.”
Disegna in pochi tratti una figura stilizzata: una donna con i capelli al vento, in piedi su una duna, gli occhi chiusi, la schiena nuda verso il mare.
Sotto, scrive a mano:
“No hace falta decir más.”
“Non serve dire altro.”
Me lo porge. Lo prendo con entrambe le mani, come si riceve qualcosa che non si può restituire.
«¿Te acompaño a algún sitio?»
“Ti accompagno da qualche parte?”
In Cammino tra i Sentieri del Cerro Ventana
Lasciata la casetta, Livia e Aida si incamminano lungo i sentieri dei colli di Villa Ventana. Il paesaggio è fatto di boschi di pini e praterie dorate; il vento porta il profumo della terra bagnata e dell’erba appena tagliata.
Mentre camminano, Livia rompe il silenzio:
«Non ho mai amato una donna. Non così.»
Il suo tono è dolce, quasi incredulo, un sussurro che esprime tutto il tumulto interiore.
Aina, che tiene la mano di Livia, risponde con voce calma:
«Yo no pensaba que esto… podía pasar.»
“Non pensavo che questo potesse succedere.”
Livia sorride, ammettendo a se stessa che quella scoperta, quel nuovo modo di sentire, la sta sconvolgendo e allo stesso tempo la arricchisce.
Si fermano lungo un sentiero dove una grande roccia si erge in mezzo al verde. Appoggiate ad essa, si guardano negli occhi, e il tempo sembra sospendersi.
Rinasce il desiderio: non c’è il bisogno di parole, solo il linguaggio dei gesti e dei baci.
Le due si abbandonano a un momento d’amore sulle brezze dell’erba. Non c’è passione sfrenata, ma una dolce intensità fatta di sguardi, carezze e baci che raccontano un sentimento nuovo, fragile e sincero.
La Sera e la Rivelazione del Futuro
Giunge il tramonto e il cielo si incendia di colori caldi. Di nuovo, sedute davanti a un piccolo camino all’interno della casetta, Aina rompe il silenzio, cercando risposte a ciò che sa già essere inevitabile:
«Yo no puedo dejar Buenos Aires. Está en mí.»
“Non posso lasciare Buenos Aires. È dentro di me.”
Livia, con lo sguardo fisso nella luce tremolante del fuoco, ammette:
«Io non so se voglio tornare a Milano. Ma non posso vivere qui per sempre.»
L’aria si fa densa di una consapevolezza amara e dolce al tempo stesso. Le due sanno che il loro amore, nato nella casualità di un incontro e consolidato in momenti di pura presenza, non può continuare senza una scelta difficile.
Non c’è una promessa di eternità; c’è solo l’ora presente, l’istante in cui si sono ritrovate e si sono amate.
Conclusione del Giorno
La serata si chiude con un ulteriore atto d’amore: le due fanno l’amore ancora, in modo lento e consapevole, cercando di imprimere in ogni gesto quel desiderio che, pur sapendo di avere un epilogo incerto, illumina il loro presente.
Quando, infine, Livia riposa sdraiata accanto a Aina, con il cuore e il corpo ancora vibranti, pensa:
“Non importa quanto durerà. Importa che, in questo istante, l’abbia vissuto completamente.”
Villa Ventana, con la sua quiete e la sua bellezza spartana, ha offerto loro non solo un rifugio ma una finestra sul possibile, un luogo dove il passare del tempo è misurato in carezze e sguardi, in momenti che restano come impronte nel cuore.
E mentre la notte abbraccia nuovamente il paesaggio, Livia sa che nonostante la consapevolezza di un futuro separato, quella intensa esperienza d’amore le ha insegnato qualcosa di fondamentale: vivere il presente con tutto se stessa è, in fondo, la sola vera conquista.
5° giorno – Buenos Aires, ancora
“Ci sono città che si attraversano solo una volta. E ci sono persone che ti attraversano come una città.”
Siamo tornate ieri sera, nel buio morbido della periferia che scorreva ai lati della strada come un ricordo che non si vuole lasciare. Buenos Aires ci ha accolte con il solito traffico distratto, il profumo di carne alla griglia e la malinconia delle insegne al neon che tremano sulle facciate dei palazzi.
Abbiamo dormito nello stesso hotel dove tutto è cominciato.
Nella stessa stanza.
Ma il silenzio, ora, ha un altro suono.
Al risveglio, Aina mi guarda per un attimo più a lungo. Mi sfiora la schiena con le dita, come se volesse scrivermi addosso qualcosa che non riesce a dire.
«Hoy te muestro mi Buenos Aires.»
“Oggi ti mostro la mia Buenos Aires.”

Camminare insieme
Camminiamo senza fretta. Le strade non sono più quelle della mia prima passeggiata, anche se hanno lo stesso nome.
Ora hanno una memoria condivisa.
Aina mi guida per Barracas, un quartiere che sembra dimenticato dai turisti. Ci sono fabbriche dismesse, muri scrostati coperti da murales enormi. Uno ritrae una donna con gli occhi chiusi e la bocca socchiusa, come se stesse sognando ad alta voce.
«Aquí se bailaba el tango clandestino durante la dictadura.»
“Qui si ballava il tango di nascosto, durante la dittatura.”
Poi ci spostiamo verso La Boca, ma non seguiamo il flusso colorato di Caminito.
Aina mi prende per mano e svolta in una calle che sembra portare altrove.

Entriamo in un cortile condiviso da artisti.
Un pittore cubano ci offre un caffè nero come l’inchiostro e ci racconta di quando viveva a L’Avana.
Una donna tesse tappeti a mano con fili vegetali e dice che ogni trama ha il ritmo del corpo che l’ha creata.
Aina mi guarda spesso di sfuggita, come se volesse imprimere ogni dettaglio.
Io scrivo. Cammino e scrivo. E la città mi entra sotto pelle, ma con dolcezza.
La verità sotto un ficus
Nel pomeriggio ci sediamo su una panchina in Plaza Lezama, all’ombra immensa di un ficus centenario.
Il vento muove piano le foglie e le parole, quando arrivano, lo fanno senza fretta.
«Credo che non ti dimenticherò mai.»
Lo dico senza alzare lo sguardo.
Aina resta in silenzio per un istante. Poi apre il suo taccuino, ne strappa una pagina con gesto deciso, la piega con cura e me la porge.
«Cuando vuelvas a caminar sola… abrilo.»
“Quando tornerai a camminare da sola… aprilo.”
Non c’è bisogno di dire altro.
Ci alziamo. Ci abbracciamo.
Non è un addio. Non è una promessa.
È solo un momento pieno.
Il ritorno alla stanza, al silenzio
In albergo, prima di chiudere la valigia, apro il foglio.
C’è un disegno semplice, essenziale: due figure stilizzate, una in piedi, l’altra in cammino, le mani appena sfiorate.
Sotto, una frase in spagnolo:
“A veces, los lugares que más nos cambian… no están en el mapa.”
“A volte, i luoghi che più ci cambiano… non sono sulla mappa.”
Resto a lungo a guardarlo.
Poi lo piego con cura e lo infilo tra le pagine del taccuino, dove resta come un segnalibro invisibile di ciò che non tornerà, ma resterà comunque.
Ultima riga sul diario
“Non so dove andrò domani. Ma so da dove torno. Questa immagine viaggerà sempre con me”
Buenos Aires, Aeroporto di Ezeiza
Sono seduta vicino a una vetrata che affaccia sulla pista. Il cielo è pallido, attraversato da nubi sottili che sembrano righe d’inchiostro su una pagina bianca.
Sul tabellone luminoso scorrono nomi di città.
Milano. Bogotá. Madrid. Lima.
Tutte mi appartengono e nessuna mi chiama con certezza.
Apro il taccuino. Sfoglio le pagine: nomi, voci, luoghi, odori.
Un disegno piegato. Una foglia secca. Una fotografia lasciata da Aina, non firmata.
Le parole escono lente, come sempre quando stanno per diventare un congedo.
“Non so se sto tornando o se sto ancora partendo.
Ma ho capito che non si viaggia per cercare qualcosa.
Si viaggia per diventare qualcun altro.
O forse, semplicemente, per accettare chi si è.”
Una voce annuncia l’imbarco.
Mi alzo.
Cammino verso il gate con la leggerezza di chi ha pianto, ha riso, ha amato.
E ora può ricominciare.
L’aereo mi aspetta.
Righe di commiato
Livia ha lasciato Buenos Aires con il taccuino pieno e il cuore aperto.
Ha attraversato il desiderio, la città, il silenzio.
E ha imparato che perdersi davvero significa anche restare dove non si può restare per sempre.
Il suo prossimo volo la porta a nord, verso Bogotá.
Ma questa è un’altra storia.
E si scriverà con un altro passo.
Livia di ritorna dal suo viaggio. Il prossimo è già chiaro nella sua mente

Tutti i viaggi di Livia