Per tutta la sua vita il filosofo Diogene fu una figura stravagante e amante dei gesti scandalosi

DIOGENE, IL FILOSOFO SCOMODO PER LA SOCIETÀ
di Juan Pablo Sánchez
Giunto ad Atene da esule, Diogene aderì al gruppo filosofico dei cinici, di cui divenne la figura di spicco, e con i suoi atti si ribellò contro tutti i valori di una civiltà che considerava corrotta
Per tutta la sua vita il filosofo Diogene fu una figura stravagante e amante dei gesti scandalosi, un rappresentante unico della “controcultura” dell’antica Grecia, che con grande sfacciataggine si scagliava contro tutti, re o schiavi che fossero. Visse ad Atene e a Corinto e fece qualche soggiorno a Sparta, anche se in realtà era un uomo senza un focolare, come molti greci dell’epoca. La sottomissione ai re macedoni e i continui rovesci politici avevano reso l’esilio una sorte comune per i molti che, come Diogene, ne fecero esperienza nel corso della vita. Lo si potrebbe considerare il primo apolide che si autoproclamò con orgoglio «cittadino del mondo» e usò la sua indole faceta per attentare contro l’etichetta e quella società “farisaica” che aveva reso ricca una minoranza a costo della rovina della maggioranza.

Diogene nacque a Sinope, una città situata sulla costa turca del mar Nero, ed ebbe una gioventù felice e agiata, poiché era figlio di un banchiere. Tuttavia fu esiliato da Sinope con l’accusa di aver falsificato denaro. Diogene sostenne di averlo fatto soltanto per obbedire a un mandato dell’oracolo di Delfi che gli ordinava di «invalidare la moneta in corso» e che solamente in seguito aveva compreso il vero significato di quelle parole: rifiutare la falsa moneta della sapienza convenzionale, dimostrando la superiorità della natura sul costume e l’abitudine. Questa idea divenne successivamente la pietra angolare della sua attività filosofica, e fece sì che sapesse mostrarsi audace e pronto a parare qualsiasi colpo del caso.
La lezione di un topo
Diogene approdò ad Atene, dove cercò di seguire gli insegnamenti del filosofo Antistene, un discepolo di Socrate che aveva fondato la scuola dei cinici, così chiamata per la sua insistenza nel denunciare i vizi della città, «abbaiando» contro di essi da una tribuna (kynikós significa “canino”). Mise tanto impegno nel seguire Antistene che quando questi lo allontanava agitando il bastone Diogene gli gridava: «Batti pure: non troverai un legno così duro col quale tenermi in disparte!»

La caratteristica fondamentale dei cinici era la totale rinuncia ai beni materiali e ai piaceri sensuali, e Diogene portò all’estremo questo atteggiamento, come narrano i numerosi aneddoti che Diogene Laerzio raccolse nelle sue Vite dei filosofi, e altri narrati da Plutarco. Quest’ultimo, per esempio, racconta di un giorno in cui ad Atene c’era una grande festa, con spettacoli, parate, sontuose cerimonie nei templi e nelle case; Diogene se ne stava appartato in un angolo, pronto ad andare a dormire, e un poco amareggiato per il fatto di essere emarginato dall’atmosfera festosa. In quel momento vide un topo che mangiava con gusto le briciole cadute dalla pagnotta che era stata la sua cena. Egli allora si rimproverò: «Che hai da dire, Diogene? Ecco che un topo si nutre con gioia dei tuoi resti, mentre tu, con la tua nobiltà di spirito, ti lamenti e rimpiangi di non poterti unire agli altri che si ubriacano sdraiati su morbidi tappeti». Rivolse allora lo sguardo verso la città e, sebbene non avesse una casa, si diede conforto pensando che le vie per le quali passavano le processioni erano state addobbate in quel modo dagli ateniesi perché egli ne facesse la propria dimora.
Fu così che, come un povero che non cercava né beni né fortuna, si stabilì nell’agorà, centro della vita politica di Atene, per osservare il trambusto della città e le futili occupazioni con cui gli ateniesi riempivano le loro vite. La gente gli gridava: «Cane!», al che egli replicava: «Cani siete voi che mi state intorno mentre faccio colazione!».
Poiché nessuno gli faceva mai l’elemosina, Diogene denunciava il fatto che la gente fosse disposta a fare la carità ai poveri e agli invalidi, ma non ai filosofi, perché ammetteva che si potesse essere ciechi e zoppi, ma non dedicarsi a pensare, soprattutto nel caso di una filosofia che risultava tanto scomoda per la società. «Soleva dire – narra Diogene Laerzio – che gli uomini gareggiano nello scavare sabbia e tirarsi dei calci, e che invece nessuno gareggia nel diventare uomo dabbene. Si stupiva assai che i musicisti accordino le corde della lira e che lascino invece discordanti i loro stati d’animo; che i retori dicano di industriarsi per le cose giuste senza attuarne assolutamente nessuna, tant’è che denigrano gli avari mentre amano il denaro alla follia».

Nelle sue peregrinazioni per la Grecia Diogene si abituò a usare qualsiasi luogo per qualsiasi fine, che fosse mangiare, dormire o lanciare le sue invettive. La botte per il vino che gli servì talvolta da casa era una chiara dichiarazione di princìpi: l’uomo doveva tornare alla natura attraverso una rigorosa sobrietà per conquistare la propria libertà. Diogene preferiva criticare il mondo da una condizione di povertà che vivere in una società abbrutita dal denaro.
L’esibizionista
Questo stile di vita gli valse il disprezzo degli altri filosofi, ma non sembra che la cosa lo preoccupasse. In effetti, Diogene rifiutò sempre di prendere sul serio i dibattiti che accendevano gli animi nella sua epoca; lui continuava a sostenere la pratica di pochi e semplici princìpi etici davanti ai quali i grandi sistemi filosofici diventavano inutili. Anche a questo proposito gli aneddoti sono numerosi. Un giorno passò dall’Accademia e udendo Platone sostenere davanti agli allievi che l’uomo era un animale bipede e implume, prese un gallo, lo spennò e lo gettò nella sala gridando: «Questo è l’uomo di Platone!».
In effetti, Diogene doveva apparire pazzo a coloro che lo vedevano in estate rotolarsi per l’agorà arroventata dal sole e in inverno abbracciato alle fredde stature di marmo, ricoperte di neve. Emetteva peti rumorosi in luoghi affollati (anche durante le sue teatrali tirate pubbliche), orinava in modo impudente come avrebbe fatto un cane e arrivava persino a masturbarsi in pubblico per suscitare scandalo tra i passanti, replicando così alle esclamazioni oltraggiate: «Magari fosse possibile non avere più fame semplicemente sfregandosi il ventre!». In tutte queste provocazioni, però, c’era un fondo etico molto serio: limitare i desideri alle autentiche necessità che la natura impone, poiché è condizione degli dèi non desiderare nulla (neppure i sacrifici con i quali si celebra il loro culto), comportamento che coloro che desiderano essere simili alle divinità dovrebbero imitare.

Una volta che la città si trovò assediata e tutti correvano per le strade per prepararsi, Diogene iniziò a far rotolare la sua botte da una parte e dall’altra per non stonare in mezzo a tutto quel putiferio che riteneva inutile: erano assurdi tanta attività e tanto impegno in un momento in cui le libertà democratiche erano un mero ricordo.
Vivere e morire senza bagagli
Quando Diogene era ormai anziano, uno dei suoi amici gli consigliò di ammorbidire un poco i rigori a cui si sottometteva, ma il filosofo rispose: «È come se, in piena corsa e quando sono sul punto di raggiungere la meta, mi consigliassi di fermarmi».
Morì, dunque, nella stessa condizione di povertà in cui era vissuto, come sembra rivelare questa preghiera al traghettatore infernale, Caronte, contenuta in un epigramma di Leonida da Taranto:
Se alcuni cercano di nascondere dietro un insolente orgoglio un cuore ferito, Diogene era l’esatto contrario: la sua apparente follia era una maschera che celava una grande conoscenza della natura umana, e il suo stile di vita era un modo provocatorio per denunciare i vizi della sua epoca.
