Può un’oca ribellarsi all’inumana tradizione di ingozzarle per farci ritrovare sulle nostre tavole il famoso paté de foie gras’? Sì, Celestina lo fece, si ribellò.

 

DOVE OSANO LE OCHE

racconto 

di

Daniela Passalacqua

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Chiamatemi Celestine.

Sono un’oca! Sì, lo confesso sono un’oca.

Sì, sì, lo so! Non si dovrebbe prestare attenzione alle parole di un animale, tanto più se sinonimo da sempre di stupidità, però provateci lo stesso.
Al tempo in cui accaddero i fatti, vivevo in una fattoria di oche della Dordogna. La fattoria era spesso meta di turisti solitari, famigliole, o gruppi, richiamati da alcune tabelle pubblicitarie che decantavano il foie gras, il fegato grasso più buono della Francia.
Malgrado ciò, pensavamo che non ci fosse posto migliore al mondo, di quella fattoria, dove mangiavamo a sazietà: non sapevamo ancora che fino a quando avremmo chiesto a qualcuno di renderci felici, saremmo stati delle schiave.
Il signor Lescaux e sua moglie Aldine, entrambi belli, floridi e rubicondi, erano sempre cerimoniosi e gentili all’arrivo dei turisti. Le estremità dei baffetti del signor Lescaux si curvavano verso l’alto quando i loro mezzi arrivavano nel piccolo parcheggio della fattoria.

La signora Lescaux, Aldine, aveva una passione incontrollabile per gli M&M’s, ed era più facile che nevicasse in estate piuttosto che non vederla con la mano frugare dentro il pacchetto gigante. Tutti i colori del mondo non avrebbero mai potuto sostituire il colore dei suoi M&M’s.

Eravamo a meno di due mesi da quella festa che voi bipedi umani chiamate Natale e molte di noi marciavano soddisfatte verso quel peso ideale che ci avrebbe permesso di essere ospiti d’onore delle vostre tavole imbandite di quel periodo, ovviamente non come commensali.

Nel ricovero eravamo circa in ottocento.

Le mie compagne più strette, Rose, Camille e Nancy andavano letteralmente fuori di testa quando veniva il momento del pastone. Alcune starnazzavano frasi sconnesse, come: «il pasto ci chiama, il pasto ci parla…»

All’improvviso capii che stavamo superando ogni limite, e fu così che ad un certo punto urlai con convinzione: «Basta! Adesso basta. Sì il cibo parla, hai ragione. E sai cosa dice? Io ti ucciderò! Io ti ucciderò! Questo ci dice.»

Mi meravigliai io stessa di questa mia sparata, e non so dire da dove tirai fuori quella forza, mentre le oche che erano rimaste ammutolite mi fissavano in un silenzio mai sentito prima.

   «Fra meno di due mesi», dissi rivolgendomi ad un ormai attentissimo uditorio, «i bipedi umani festeggeranno il Natale e sapete a chi faranno la festa? A noi!» Gridai con tutto il fiato che avevo.

Poi continuai «Potremo sperare di farla franca, solo se non mangeremo e dimagriremo. Perchè così il signor Lescaux non troverà nessuno disposto ad acquistare oche ossute.»
   «Niente grasso, uguale vita», sintetizzo Nancy in modo disarmante e chiaro.
   «Ma il signor Lescaux», disse un’altra, «ci costringerà a mangiare con le macchine.»
A queste parole, un brivido corse a parecchie di noi lungo la schiena pennuta, e a moltissimi, passatemi la battuta, venne la pelle d’oca.

Lasciatemelo dire: questa dell’alimentazione forzata, è una pratica tremenda e barbara. Ci fanno crescere il fegato fino a farcelo scoppiare. E tutto questo per il paté de foie gras, il paté di fegato grasso. Ci ingozzano di cibo tramite un imbuto con un lungo tubo di metallo che lo immette direttamente in gola. Molto spesso questo ci fa sputare sangue. Ho visto tante mie compagne spezzarsi il collo nel tentativo di divincolarsi: altre invece si sono perforate il collo.

   «Vorrà dire che stanotte stessa, distruggeremo le macchine per l’alimentazione forzata», dissi. Un grande rumore di becchi sottolineò l’approvazione della mia proposta.
   «Celestine, Celestine», fu il grido generale che si levò.

Iniziammo a spingere le macchine dell’alimentazione forzata accumulandole al centro del ricovero. Quindi con un colpo di becco ben assestato fu acceso e messo in moto il trattore. Il mezzo maciullò le macchine per l’alimentazione forzata, quindi andò a sbattere su una parete del ricovero.

Il fracasso fu tale che il signor Lescaux con i suoi mutandoni di lana si precipitò trafelato nel ricovero e spense trattore.

Lo vedemmo mettersi le mani ai capelli. Poi sconsolato se ne ritornò a dormire.
A volte quello che non accade in una vita, accade in un baleno: LA RIVOLUZIONE ERA INIZIATA e di questa rivolta, ero diventata il capo indiscusso.

Renè e Albert, i due lavoranti del signor Lescaux, non credevano ai loro occhi, quando puntualmente alle sei di mattina, aprendo il ricovero delle oche, si accorsero che gli strumenti per l’alimentazione forzata erano ridotti in mille pezzi. Chi poteva essere stato? Il signor Lescaux denuncio il fatto alla vicina gendarmeria di Pèrigueux e diede delle indicazioni ai suoi lavoranti: fino al momento dell’acquisto di nuovi macchinari, tutte le oche sarebbero state sovralimentate, per poter essere macellate e vendute per le ormai imminenti festività.

Il maggior guadagno dovuto all’aumento di peso, avrebbe bilanciato le perdite della mancata vendita del patè di fegato. Quella sera a ricovero sprangato con maggiore attenzione, vi fu una nuova assemblea. «Il primo risultato della nostra ribellione», dissi «è stato ottenuto». Quindi dopo una pausa studiata avevo aggiunto con enfasi    

   «L’alimentazione forzata, è stata fermata!»

Un lungo e fragoroso rumore di becchi e di sbattito d’ali sottolineò la mia affermazione.

Be’ forse non dovrei usare questo modo di dire, ma la felicità si tagliava a fette, e l’atmosfera era festosa. Feci fatica a far tornare la calma in assemblea.
   «Adesso inizia la parte più difficile», dissi ma dovetti ripetere la frase almeno tre volte, prima che l’uditorio tornasse attento. «Adesso inizia la parte più difficile: quella del digiuno».

   «Ma non si potrebbe mangiare solo un pò di meno», disse Rose. Qualcun’altra la sosteneva annuendo col becco.

   «Dobbiamo dimagrire velocemente, e l’unica strada veloce è il digiuno. Ricordatevi che le prime macellazioni inizieranno fra quaranta giorni», dissi imponendo la linea dura.

Adesso in assemblea si registrava un’aria pesante. Le espressioni di giubilo di qualche istante prima, erano cessate e una espressione di tristezza, si impossessò di tutti. Si sentirono mormorii sommessi e frasi del tipo:

   «Ma se io non mangio muoio»

   «Non ce la farò mai»

   «L’unica cosa a cui penso non appena mi sveglio è mangiare, mangiare, mangiare»

Sapevo che se avessi perduto tempo la linea dura non sarebbe mai passata, per cui mi affrettai a mettere ai voti la proposta.

   «Chi è d’accordo sulla decisione di digiunare alzi un’ala»

Si sollevarono le prime ali, poi altre, alla fine lentamente, molto lentamente, si alzarono tutte. La decisione con grande fatica era stata presa. Si trattava adesso di metterla in pratica.

E non sarebbe stata cosa facile. Il giorno dopo la scoperta del fattaccio della distruzione totale delle macchine per l’alimentazione forzata, Renè e Albert, ligi agli ordini ricevuti dal signor Lescaux, prepararono un pastone più che abbondante, e lo distribuirono nelle vasche alimentari poste in diversi punti del ricovero.

In ossequio a quanto stabilito in assemblea, nessuna delle oche quel giorno toccò cibo. La forza di carattere che tutte quante stavamo dimostrando, era anche per me inaspettata e per certi versi incredibile, abituata come ero a vederli beccarsi tra di loro anche per un tozzo di pane duro come la pietra.

Era possibile però ad una più attenta visione, notare che diversi pennuti guardavano in direzione delle vasche alimentari con un forte desiderio di buttarcisi dentro.

Ma per quel giorno resistettero. La sera i due lavoranti, come erano solito fare, fecero un ultimo giro di perlustrazione. Grande fu il loro stupore quando videro che il cibo preparato sin dal primo mattino era ancora intatto.

   «Pensi che la farina dell’impasto fosse ammuffita?», chiese uno dei due all’altro.

   «Non credo. E anche se fosse, questi stupidi pennuti sono abituati a mangiare qualsiasi cosa»

   «Be’ domani mangeranno il doppio» E con queste parole il ricovero fu sprangato.

Quella sera dentro il ricovero, sentivo un sommesso mormorio di disapprovazione. Aleggiavano nell’aria frasi del tipo:

   «Sarà tutto inutile, vedrai»

   «Alla fine finiremo lo stesso in pentola»

Già alla fine del primo giorno di digiuno, si faceva strada un cedimento della volontà. Come è a tutti noto, la strada che porta alla liberazione da certe abitudini, è sempre in salita.

Tra le peggiori di tutte c’è l’abitudine al cibo abbondante, che non è una lotta qualsiasi, ma è peggio del peggiore combattimento che potremmo immaginare, perché si combatte contro noi stessi!

Praticamente un’impresa titanica, una lotta senza quartiere, senza esclusione di colpi, una lotta in cui una parte del nostro corpo dice mangia e un’altra parte grida non mangiare. Il nemico è schifosamente sicuro di vincere… perché ci conosce bene. Tutto è contro chi decide di non mangiare, e cadere sconfitti è quasi una certezza.  In poche parole, e se lo dico io potete credermi, dimagrire è una lotta per la vita.

Quella notte dormimmo in poche, sia perché a stomaco vuoto è difficile prendere sonno, sia perché sapevamo che il signor Lescaux non se ne sarebbe stato con le mani in mano a vedere deperire il suo capitale.

La mattina successiva al pastone delle vasche fu aggiunta una generosa porzione di sale per insaporirlo. Qualche oca cadde nella trappola alimentare tesa. Il sale aveva anche lo scopo di farci bere a più non posso per ingrassare più velocemente. Nonostante la presenza del sale rendesse un supplizio resistere al cibo, il secondo e terzo giorno passò senza che quasi tutte le oche toccassero cibo. Devo dire con assoluta onestà, che l’assemblea del terzo giorno ebbe toni drammatici. Si sa che nella vita, è facile prendere una decisione, ed è ancora più facile soprattutto quando il peso di questa decisione grava per la maggior parte sulle spalle degli altri. È tutta un’altra questione quando siamo chiamati direttamente a pagarne le conseguenze. Soprattutto quando la posta è alta. Qui era in gioco la vita, e il nostro era un digiuno per la vita o per la morte.

Già la mattina vi erano stati dei cedimenti, e più di qualcuna, era stata assistita da quelle più forti e allontanata dalle vasche. Anche nel nucleo duro più vicino a me si manifestarono delle defezioni. Nancy era tra quelle che si era buttata letteralmente dentro la vasca alimentare, mangiando avidamente, ripetendo tra un boccone e l’altro «ho fame, ho fame»

Quando Rose e io la tirammo fuori dalla vasca, Nancy fu presa da un senso di frustrazione e vergognandosi, cercò di mettersi in bocca, nel tentativo di vomitare, uno di quei tubi rotti delle macchine per l’alimentazione forzata, di cui qua e la era rimasto qualche pezzo.

   «No, così è peggio», le dissi «l’importante è capire che hai sbagliato, ogni tanto bisogna cadere per rialzarsi, vedrai, assieme ce la faremo!» Lasciatemelo dire, questo pensiero così elevato aveva meravigliato anche me. Notavo infatti, che uno degli effetti del digiuno, era una nuova chiarezza di idee, una maggiore energia, una nuova lucidità, una nuova consapevolezza.

Ma torniamo all’assemblea di quella terza giornata di digiuno.

Il pessimismo ormai serpeggiava e gli attacchi diretti verso di me si sprecavano.

   «Celestine, ci sta portando lo stesso alla morte», disse «qui si vuole cambiare l’ordine delle cose, c’è chi nasce uomo e chi nasce oca, chi nasce padrone e chi schiavo, chi mangia e chi viene mangiato», continuò «l’unica domanda a cui non potremo rispondere, è se saremo farcite o cucinate allo spiedo, ma è pacifico che finiremo sul piatto», e concluse «io domani mangerò perché voglio soffrire un solo giorno nella mia vita: quando mi macelleranno»

Questa fu un’affermazione che riscosse alquanta approvazione e consenso con relativo contorno di rumore di becchi.

Era chiaro che la rivoluzione stava perdendo i rivoluzionari, e come sempre accade in questi casi, il capo può essere accusato di averla tradita. Alla fine, quasi per graziosa concessione, fu richiesto il mio punto di vista.

Sapevo che come leader avevo le ore contate: allora giocai la carta della moderazione.

   «Convengo», dissi usando un linguaggio quasi umano «che il salto tra l’alimentazione forzata e il digiuno è stato molto forte. E poiché le nostre funzioni vitali possono essere compromesse, e vedo che la debolezza non ci permette più di stare in piedi, propongo che tutte ci si possa nutrire, QUEL TANTO CHE BASTA per tenerci in vita, ma sufficientemente per continuare a dimagrire»

Si levò un fortissimo rumore di becchi di consenso, sebbene mitigato dalle debolezza che a causa del digiuno si era impossessato di ognuno di noi.

   «Brava Celestine»

   «Celestine è sempre il nostro capo».

E tra questo tripudio, che ridava energia alla nostra lotta, ci approcciammo a dormire indirizzando le nostre preoccupazioni verso la nuova giornata che si preannunciava campale.

La mattina dopo riprendemmo ad alimentarci.

Poche beccate di cibo a testa. La Commissione di Verifica degli Adempimenti Assembleari, vigilava nei pressi di ogni vasca. Il pastone insaporito con il sale era veramente buono e dopo le prime beccate, interrompere era molto, molto difficile.

Alcune, contravvenendo a quanto deciso in assemblea si strafogarono fino a satollarsi e a riempirsi lo stomaco fino alla nausea. Ma la stragrande maggioranza si limitò, con grande fatica, a poche beccate di sostentamento.

Ammetto che l’idea di mettere il sale nel pastone, rappresentava un’abile mossa del signor Lescaux, e quel cibo era diventato molto più appetitoso.

Ma questo trucco del sale, questo terribile trucco non sarebbe stato l’unico, come avrò modo di dire nel seguito.

I giorni passavano e noi continuavamo ad alimentarci quel tanto che bastava per non morire.

E stavamo dimagrendo.

Le visite del signor Lescaux erano diventate più frequenti nel ricovero delle oche.

Eravamo a circa trenta giorni dalla data di macellazione prevista, e a quanto asserivano Renè e Albert, quasi tutte le oche avevamo perso metà del loro peso.

Una mattina ci fu un grande fermento.

Il signor Lescaux, sua moglie Aldine e i due lavoranti, discutevano sul da fare per contrastare il deperimento delle oche.

   «Così continuando il fallimento è assicurato», asseriva sconvolto il signor Lescaux «stanno dimagrendo per Dio, stanno dimagrendo. Vedete il loro petto?», disse prendendo con le mani la prima oca nei paraggi «chi vorrà comprare un’oca tutta pelle e ossa?»

   «Continuando così, gli animali delle altre fattorie sanno preferiti ai miei… il fallimento», disse fermandosi all’orrore che questa parola gli evocava, «il fallimento sarà inevitabile»

   «Niente panico, per favore niente panico Pierre», proruppe Aldine rivolgendosi al marito, facendo intravedere la paccottiglia colorata che stava masticando.

Così dicendo aveva tirato fuori dal pacchetto la mano grassoccia e imbrattata dai colori degli M&M’s, per intimare come un vigile urbano l’alt alla depressione.

   «Ricordi il Convegno Regionale sull’Alimentazione delle Oche, dello scorso anno?»

   «Come no, un convegno noioso e inutile»

   «Niente affatto. Fu detto in quel Convegno», continuò Aldine «che anche il pastone più immangiabile, poteva essere reso appetitoso e invitante, a tal punto che nessun animale potesse essere tentato di resistere»

Io ascoltavo con grande attenzione e capivo che quel diavolo di donna ci stava preparando qualche guaio che avrebbe fatto saltare i nostri piani rivoluzionari.

La ribellione si sarebbe sciolta come neve al sole primaverile? Aldine sosteneva infatti, che erano tre le parole magiche per far cadere chiunque in tentazione. Tre parole capaci di trasformare anche una suola di scarpe in una succulenta bistecca. Queste tre parole tremende che io sentii pronunciare con terrore, e che ebbero l’effetto di farmi tremare il becco per qualche tempo erano SALE-GRASSI-ZUCCHERO.

   «Il sale lo abbiamo già usato», aveva detto Renè «E in effetti qualcosa è cambiato…»

   «Si tratta ora di andare a prelevare olio esausto, quello che deve essere buttato», lo aveva interrotto la moglie del signor Lescaux «dai Fast Food di Pèrigueux, e mischiarlo assieme al sale al pastone di questi stupidi animali»

La riunione fu sciolta.

Renè e Albert avrebbero nel giro di qualche ora reperito l’olio strausato nelle friggitrici dei Fast Food della zona. Guardai allontanarsi le naticone di Aldine, che ondeggiavano sincronizzate a quelle del marito.

Verso mezzogiorno stavano già preparando quella spazzatura d’impasto. L’olio nerastro che aveva fritto tonnellate di crocchette di pollo e french fries, fu versato nel pastone assieme a diversi chili si sale, il tutto era poi stato finemente amalgamato e quindi messo nelle vasche. Vi furono scene di delirio collettivo! Le oche non si staccavano dalle vasche alimentari.

Il primo contatto con il pastone dava loro un’esplosione di piacere incredibile. Un piacere che però finiva presto e proprio per questo era necessario un altro boccone e poi un altro ancora… Anche i componenti della Commissione di Verifica degli Adempimenti Assembleari aveva tradito il loro mandato.

Il pastone fu divorato in poche decine di minuti e le vasche svuotate. Mangiarono, e forse dovrei dire mangiammo, fino alla nausea. Renè e Albert dovettero riempirle di nuovo. Non ricordavano da tempo una simile voracità. Le conoscenze alimentari della signora Lescaux avevano fatto saltare tutte le previsioni di resistenza alimentare.

In poche ore la controrivoluzione aveva trionfato e la ribellione era miserabilmente fallita e dimenticata. Il signor Lescaux chiamato prontamente a vedere i risultati, gongolò. I suoi baffetti tornarono a curvarsi verso l’alto. Quella sera all’assemblea partecipò solo la metà delle oche, l’altra metà se ne stette a guardare da lontano: avevamo perso metà dei rivoluzionari. Non starò a dirvi della frustrazione, tipica di ogni abbuffata, che provavano le oche che mi ascoltavano: tutti con il becco basso per la vergogna di essere caduti nel tranello alimentare. Quella sera fu deciso, tra lo sghignazzare delle oche dissenzienti, che nonostante la rinuncia al pastone avrebbe comportato un sacrificio immane, avremmo continuato ad alimentarci solo per la sopravvivenza. L’orrido pastone a base di olio e sale era disgustosamente appetitoso.  Ed era lì, che ci attirava come una forza misteriosa. Tuttavia mentre le oche dissenzienti si davano alla pazza gioia alimentare, noi resistemmo. La cosa continuò per una settimana. Era evidente che non potevamo passarla liscia e che le torture alimentari non erano ancora finite.

Una mattina vi fu di nuovo un summit dentro il ricovero.

   «Che abbiano preso qualche malattia?», si chiedeva il signor Lescaux, alludendo alle oche che dimagrivano giorno dopo giorno. Aldine non rispondeva, masticando nervosamente i suoi M&M’s. Fu così che tirando fuori di scatto la sua manona dal pacchetto, ne fece cadere un discreto numero a terra.

Gli M&M’s caduti, furono trangugiati golosamente dalle oche vicine che addirittura si beccarono tra di loro per accaparrarseli. Aldine li guardò, poi come folgorata disse «metteremo scaglie di cioccolato e zucchero nel pastone. Così chiuderemo il cerchio»

Già, il triangolo SALE-GRASSI-ZUCCHERO, la triade maledetta dell’alimentazione, quella che trasforma anche la spazzatura in prelibatezze a cui è impossibile resistere, e che porta a mangiare, mangiare, mangiare…

Detto, fatto. Renè e Albert ritornarono dopo qualche ora, con un camioncino carico di tutto il cioccolato e lo zucchero scaduto e invenduto di Pèrigueux. Ancora una volta il pastone fu modificato e corretto. Farina di cereali e carote, sale, olio di frittura, cioccolato e zucchero scaduto, gli ingredienti. Venne fuori un impasto granuloso marrone con venature giallo scuro dal sapore schifosamente irresistibile. Tutte le oche si buttarono nelle vasche alimentari. Più cibo trangugiavano, più ne volevano mangiare.

Renè e Albert quel giorno riempirono le vasche per ben tre volte. La felicità regnava sovrana nel ricovero delle oche. Mai era stato preparato un pastone più succulento: era la definitiva sconfitta della rivoluzione. Solo una quarantina avevamo resistito alle micidiali soluzioni alimentari della signora Lescaux.

E così continuò nei giorni successivi. E mentre noi ci trasformavamo in pennuti tutti piume e ossa, tutte le altre ingrassavano beatamente per la loro gioia, per quella del signor Lescaux e di sua moglie e… del macellaio.

Ammetto che non fu facile resistere alle lusinghe del pastone, alla gioia che si leggeva negli occhi di chi se ne nutriva ingolfandosene. Vedemmo gonfiare di grasso i petti di quelle che si nutrivano mentre i nostri insecchivano giorno dopo giorno ci dava forza, perché sapevamo che quel piacere alimentare sarebbe arrivato presto al capolinea.

Nulla induce a ripudiare i piaceri se non appunto il pensiero dei dolori a quelli più o meno direttamente connessi. Veniamo al mondo, bipedi piumati o umani, o di qualsivoglia razza animale, pieni di pretese di felicità e nutriamo la folle speranza di realizzarle. Ma di regola arriva il destino, ci afferra brutalmente e ci insegna che nulla è nostro, ma tutto è suo e in qualsiasi momento ci può essere tolto. Anche la vita. Poi, sicuro come il tuono segue il lampo, verso la metà di dicembre venne il periodo della macellazione.

Quel giorno vedemmo le oche uscire dal ricovero in marcia verso la stanza della morte. Avrebbero voluto avere il nostro peso, non avere il piumaggio liscio e lucido, avrebbero voluto essere scartati dal macellaio. I loro occhi erano pieni di terrore e le loro pance di cibo. I nostri occhi si riempirono di lacrime, perché non le avremmo riviste mai più.

   «I pennuti spennacchiati rimasti, li macelleremo comunque a Pasqua», aveva sentenziato il signor Lescaux rivolgendosi a Renè e Albert, e mentre lo diceva vedemmo il suo grassoccio indice puntare verso di noi.

Poi il ricovero, nel giro di qualche giorno fu invaso da centinaia di giovani oche destinati a crescere e a rinnovare l’eterno ciclo della vita e della morte.

   «Adesso che facciamo?», era la domanda ricorrente. Corredata anche da affermazioni del tipo.

   «Abbiamo solo ritardato la nostra fine»

   «Sempre in pentola dovremo finire» Forse avevo davvero sbagliato tutto.

E chi ero io, da sovvertire l’ordine della natura? Gli uomini sono fatti per comandare e noi per finire con un contorno di patatine fritte se ci va bene.

Nei mesi successivi tutti riprendemmo ad alimentarci, davanti alla prospettiva ormai inevitabile della fine. Le giovani oche crescevano.  Dopo due mesi avevano dimensioni confrontabili alle nostre, e non c’era nessun rispetto nei confronti delle anziane. Io me ne stavo sempre in disparte: una stupida, e malandata oca sola che pensava di aver sbagliato tutto. Osservavo gli altri mangiare, giocare, dormire, poi di nuovo mangiare…

Rimasi in questo stato per diverso tempo. L’alimentazione a base di quel pastone dei cui ingredienti ho già avuto modo di parlare, assicurava una rapida crescita e una sicura e conveniente macellazione per il signor Lescaux. Poi un giorno vidi la vecchia Nancy litigare con una giovane e impertinente oca, Pauline, che voleva sottrarle un pò di cibo rimasto nella vasca dove si alimentava. Nancy nel tentativo di allontanare Pauline, aveva istintivamente aperto le ali e, muovendole freneticamente si era sollevata da terra di un’altezza pari a due oche. Poi era caduta rovinosamente a terra perdendo l’equilibrio. Le ali che Nancy aveva spiegato, avevano una dimensione pari a molte oche messe una accanto all’altra. Aprii le mie ali. Anch’esse avevano dimensioni notevoli. Le agitai come aveva fatto Nancy, mi sollevai ma subito dopo caddi azzoppandomi leggermente.

Giuro che non sapevamo di avere strumenti così potenti, non lo sapevamo. Nessuno di noi sapeva che potevamo staccarci da terra proprio con quelle appendici, le ali, che fino allora avevamo usato per allontanare gli altri o per dare prova di forza o per incutere rispetto e timore. Forse non tutto era ancora perduto! A ricovero sprangato chiesi di essere ascoltata. Le oche anziane invitarono le giovani oche ad ascoltare le parole della vecchia Celestine e di stare in silenzio in segno di rispetto. Avevano saputo che la vecchia Celestine aveva un tempo capeggiato una ribellione contro l’uomo. Sebbene possa sembrare strano il fatto che un’oca possa essere considerata saggia, il silenzio con cui furono accolte le mie parole non dava adito a dubbi in questo senso.

Da mesi non parlavo con nessuno.

   «Non siamo nati solo per mangiare e per morire. C’è un valore sopra tutti gli altri, qualcosa che se non viene conosciuto rende la vita, qualsiasi vita inutile e senza senso»

Le oche mi ascoltavano in silenzio. Anche i più giovani, generalmente rissosi e rumorosi.

Continuai.

   «Questo qualcosa che rende una vita degna di essere vissuta si chiama LIBERTÀ. Si chiama libertà. Libertà è vivere nello stagno, libertà è mangiare quando è necessario, è cercarsi da mangiare se non c’è da mangiare. Libertà è spostarsi dove si vuole. La Grande Oca che è in ognuno di noi possiamo trovarla solo se conquistiamo la libertà»

Un lungo silenzio seguì alle mie parole. Sentivo il rumore di quei pensieri in quel silenzio assordante. Quel silenzio era il risultato di una nuova consapevolezza? La parola libertà che nessuno di noi aveva conosciuto prima, era dentro di noi da sempre. Bisognava soltanto darle il giusto spazio, bisognava sentirla. Poi alcune parole ruppero l’incanto.

   «Parole, solo parole», sbottò la giovane Pauline, la più irrequieta e scapestrata delle oche giovani. «È facile parlare, ma il nostro destino è lo spiedo. Altro che libertà» La giovane e irriverente oca suscitò un mormorio di approvazione, come se avesse svegliato tutti dalla magia di un comune sentire.

   «Noi ce ne andremo da qui. Con queste»  Così dicendo spiegai le ali e sbattendole mi sollevai da terra per qualche istante. Poi stanca e mantenendo un equilibrio che veniva da dentro rimisi le zampe a terra. «Impareremo a volare e quando avremo imparato andremo via di qui. Non so dove andremo. Ma la Grande Oca che è dentro di noi ci indicherà la strada»

Impressionati da quel gesto che aveva visto staccare da terra uno di loro, giovani e vecchi proruppero in un fragoroso rumore di becchi e battito d’ali che non avevo mai sentito prima. Solo Pauline se ne stava in silenzio, vergognandosi per la prima volta di essere stata inopportuna. Per tutti, non c’erano più solo le parole, ma la certezza che queste si potessero trasformare in realtà.

Ogni notte nel ricovero iniziavano le lezioni di volo.

I dubbi sul fatto che le nostre ali potessero reggere il peso di un corpo tozzo e voluminoso, erano molto forti. C’era chi si schiantava a terra o sulle pareti, tra piume svolazzanti in aria. Pauline, l’oca impertinente e ciarliera, mi tartassava sempre con la stessa domanda:

   «Celestine, pensi che potrò volare?»

   «Se vuoi, puoi», le rispondevo. Ciononostante continuava a chiedere. Parlava, parlava soltanto: spendeva tutte le sue energie a parlare invece di migliorare come tutte le altre tant’è che una notte la spinsi nella vasca per la raccolta del fango. Uscì dalla vasca tutta sporca e inzuppata. Poi si allontanò. Mi guardò con aria truce per alcuni giorni. Ma di notte iniziò a provare da sola. E quando le altre smettevano, lei provava ancora e riprovava, senza stancarsi, guidata soltanto da una volontà ferrea di riuscire a volare. Pauline volava fino a quando Renè e Albert non aprivano le porte del ricovero. E in poco tempo divenne la migliore.

Era capace di acrobazie incredibili in quello spazio limitato e angusto del ricovero, e diverse oche ormai la prendevano ad esempio chiedendole consigli e segreti per il volo. Di giorno si mangiava, di notte si volava. Ormai era vicino il tempo delle prime macellazioni e dovevamo fare in fretta. Una sera poi Pauline mi si avvicinò a testa bassa dicendo «Grazie, maestra Celestine: ho capito che le parole sono meno importanti del fango se non sono seguite dalle azioni» Fu così che capii che eravamo pronte per andarcene.

Venne il giorno fissato per la fuga. Come tutti i giorni, Renè e Albert avevano aperto i cancelli del ricovero e prepararono il pastone. Poi si allontanarono. Tra il ricovero e la prima staccionata, c’era un corridoio sufficientemente lungo per la necessaria rincorsa che precede il volo. Avevo stabilito che la prima ad alzarsi in volo sarebbe stata proprio Pauline, poi tutte le anziane, quindi le giovani oche. Io avrei chiuso l’ordine di volo.  Facemmo il pieno di cibo, perché non sapevamo quando avremmo potuto fermarci, quindi lentamente e in ordine ci avvicinammo all’uscio. Il cuore ci batteva forte. Il momento era finalmente arrivato. Non sapevamo quale direzione prendere. Non sapevamo dove andare. Sapevamo soltanto che bisognava andare.

   «Vai Pauline, vola!», le gridai. Pauline iniziò la sua rincorsa, poi dopo qualche passo si staccò dal terra, subito seguita da Nancy, Rose e tutte le altre.

Incredibile, si stavano alzando tutte verso il cielo, con una cadenza di decollo rapida e simmetricamente perfetta. All’improvviso sentii Renè gridare,

   «Volano! Volano via, se ne vanno…!» e si mise a correre verso il ricovero per chiuderne i cancelli. Intanto le oche continuavano ad alzarsi in volo. Era come se avessero volato da sempre, a due a due, spiegavano le loro ali e si alzavano da terra sfiorando la staccionata. Il ricovero era ormai quasi vuoto.

Le urla di Renè intanto avevano fatto trasalire il signor Lescaux che uscito dal fienile rimase imbambolato incapace di dire una sola parola. Anche la signora Lescaux era uscita di casa, e ci guardava con la bocca aperta piena e colorata, mentre le mani di cui si era scordata l’esistenza lasciarono cadere il sacchetto di M&M’s che si dispersero rimbalzando ai suoi piedi.

Erano volate tutte via quando anch’io, felice iniziai a fare i passi che preparano al volo. Mi ero già staccata dal suolo quando all’improvviso sentii all’ala sinistra un colpo di bastone sferrato da Renè. Un dolore fortissimo mi impedì di portarmi all’altezza delle altre. Tutto quello che potevo fare era tenermi bassa, sapendo che non avrei potuto resistere a lungo. Dopo un po’ caddi al suolo, incapace di seguire il gruppo, che vedevo allontanare formando un grande cuneo con in testa Pauline. Che fantastico spettacolo vederli volare assieme. Chissà dove la Grande Oca che era in ognuno di loro li stava portando. Sicuramente verso nuovi mondi, verso nuove terre, verso la libertà.
Non le rividi mai più. Sapevo che non avrei mai più potuto volare. Allora mi diressi verso un bosco che avevo visto quell’unica volta che avevo volato fuori dal ricovero. Dopo un giorno trovai una pozza d’acqua sufficientemente grande e qui ho vissuto tutta la mia vita. Ora che sono vecchia, ogni tanto il mio ricordo va alle oche, alle mie oche. Penso a Pauline e a tutte le altre, giovani e vecchie e cerco di immaginare il posto dove si trovano.

Tutto era iniziato con il tentativo di liberarci dalla schiavitù del pastone: avevamo invece trovato la libertà dentro e fuori di noi. Avevamo trovato la Grande Oca che vive in ognuno di noi e che aspetta solo di essere liberata.

Quando ripenso ai fatti di quei giorni, alle oche che volano verso la libertà, penso che questa vita, questa mia stupida vita da oca, andava vissuta. Penso anche che questa storia andava raccontata, perché va detto che ogni vita, anche quella più insignificante, può essere una vita colorata. Basta volerlo. Si, colorata! Come quel tappeto di M&M’s ai piedi della moglie del signor Lescaux.

 

Immagine: Henri-Paul Motte, Oche del Campidoglio, 1889.

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2 Commenti

  1. Francesca Rita Rombolà

    10 Settembre 2019 a 15:13

    Metafora straordinaria e riuscita… non a caso i primi sono stati i poeti della Grecia antica a far parlare gli animali e a dar loro punti di vista come gli uomini(Esopo insegna).

    Ma molti uomini e donne oggi riconoscono ancora il grande, immenso valore della liberà?

    Non vale tutto il denaro del mondo quanto la libertà!

    rispondere

  2. Pinuccia

    10 Settembre 2019 a 3:17

    Molto carino e divertente

    rispondere

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