Il vittimismo nei confronti della storia passata
E TUTTI VISSERO NARCISI E SCONTENTI
Il vittimismo nei confronti della storia passata, il rifiuto delle condizioni di partenza- spiega Veneziani – il futuro visto come minaccia e non più come promessa. Tutto questo genera la scontentezza perché non siamo quel che vorremmo essere”. Ed è su questo sentimento che il potere fonda il suo prestigio. Il potere veicola il nostro scontento perché l’insoddisfazione genera dipendenza”
“Abbiamo avuto i ribelli e i rivoluzionari, oggi, nonostante il benessere e la longevità, in Occidente abbiamo gli scontenti e il mare oscuro del rancore si allarga”.
Marcello Veneziani, saggista e filosofo, fa un viaggio “nelle regioni della scontentezza”, male del nostro tempo, in piazza Grande a Modena con la sua lezione magistrale in programma al Festivalfilosofia.
Il ritratto dello scontento si compone di diversi elementi e di uno strano legame con gli altri e con il potere. Non è infelicità: “la scontentezza è sempre comparativa (non è il soffrire interiore dell’infelice) e ha un’animosità e un tratto tutto moderno tanto che nella classicità non ci sono termini precisi per definirlo. La scontentezza è tipicamente occidentale e faustiana – la descrive Veneziani – è come una sete continua, un narcisismo frustrato perché viviamo un’epoca in cui desideri e diritti vengono identificati e il limite delle nostre possibilità quando appare ci procura uno scompenso”.
Come inizia il viaggio della scontentezza nella contemporaneità?
Tante le cause: “Il vittimismo nei confronti della storia passata, il rifiuto delle condizioni di partenza – spiega Veneziani – il futuro visto come minaccia e non più come promessa. Tutto questo genera la scontentezza perché non siamo quel che vorremmo essere”. Ed è su questo sentimento che il potere fonda il suo prestigio.
Veneziani ne mostra la dinamica: “Chi è scontento si apparta, rifiuta la socialità, solo in alcune occasioni si accomuna agli altri e si passa al malcontento politico. Il potere veicola il nostro scontento perché l’insoddisfazione genera dipendenza”; importante è che resti “molecolare”, frammentato nei singoli, così può essere gestito al meglio e ciascuno sarà chiamato a “prendersela con se stesso se non ha realizzato nella propria vita personale ciò che gli dà scontento: risolvi nel tuo personale dice il potere. Il malcontento invece porterebbe alla piazza, il potere è diventato così il grande imprenditore dello scontento che è una fabbrica inesauribile dei desideri e dei consumi”.
Non è tutto distruttivo, tiene a puntualizzare Veneziani, “esiste uno scontento positivo che rimette in discussione aspetti, che non si accontenta”. Non c’è da restare rassegnati, ma come? “Paragonando la nostra vita a quelli di altri tempi, pensando che il mondo non finisce con noi, relativizzando il nostro tempo, accettando (che non è rassegnazione) il destino, i verdetti dopo che si è provato a cambiare”, raccomanda il filosofo. Uscirne si può: bisogna tornare all’amor fati, come lo pensava Nietzsche, contro quello che è diventato un horror fati: “Dietro allo scontento c’è il primato del non essere e allora la risposta ce la dà Dante quando scrive ‘State contenti umane genti al quia’. È questo ‘state contenti’ il passepartout per uscire dalla prigionia di un presente percepito vicino al punto di non ritorno che ci condanna ad essere pieni di desideri irrealizzabili e di un tempo che non c’è. E invece, nonostante l’eco-ansia, tanto propagandata, il tempo c’è, invita ad osservare Veneziani: torniamo ad amare il fato. Torniamo al destino.