”Quando il minatore sale dal pozzo la sua faccia è così pallida che ci se ne accorge anche attraverso la maschera della polvere di carbone. Ciò si deve all’aria corrotta che ha respirato e quel pallore passerà dopo qualche minuto.
“La strada di Wigan Pier”. George Orwell.
[stextbox undefined’ bcolor=’1aab67′]IL SULCIS È OGGI TERRA DI MARE, MA IN UN PASSATO NON LONTANO ERA TERRA DI CARBONE, COME LA GRANDE MINIERA DI SERBARIU CHE FU UNA DELLE MAGGIORI FONTI ENERGETICHE ITALIANE...[/stextbox]
Prima in queste terre c’erano solo pastori vestiti di pelle di pecora nella piana malarica, foreste vergini e vallate disabitate. Poi l’industria estrattiva, che si era già radicata nelle regioni inglesi della Cornovaglia e del Devon, Wigan e Sheffield dove vivevano i minatori raccontati da Orwell, oppure Bourinage in Belgio, nel «paese nero» dipinto da van Gogh, arrivò anche qui dove il dieci percento della produzione mondiale di piombo e zinco si cavava nelle miniere del Sulcis-Iglesiente, a Montevecchio, Monteponi, Ingurtosu e San Giovanni.
[stextbox undefined’ bcolor=’1aab67′]I MINATORI ERANO SOTTOPOSTI A RISCHI ALTISSIMI A CAUSA DI ESPLOSIONI, CROLLI, ALLAGAMENTI, MA ANCHE ASFISSIA O PER IL CALDO, INSOPPORTABILE. A VOLTE LAVORAVANO IN CUNICOLI BASSISSIMI, IN GINOCCHIO O SDRAIATI SULLA SCHIENA.[/stextbox]
Nei primi anni del Novecento gli uomini si spostavano a cavallo e indossavano ancora abiti tradizionali, i gambali neri e il copricapo piatto, i carri erano trainati da mucche e asini pigri, le donne tessevano dentro le case. Le cittadelle operaie sarde non erano diverse dalla Montsou descritta da Zola nel Germinale, quelle del Galles narrate da Cronin, nelle stamberghe umide illuminate dalla luce fioca delle lampade a petrolio vivevano ammassate famiglie povere e numerose. Nei claustrofobici villaggi minerari, dove si abitava e si lavorava, una rigida divisione di classe ne disegnava la toponomastica – c’era la scuola, la chiesa, il dopolavoro, il barbiere, gli spacci dove tutto costava il doppio e i minatori indebitati fino al collo non riuscivano a sbarcare il lunario, nonostante facessero un lavoro da bestie. Nel buio, con le lambade, strisciavano come topi nelle gallerie, colpivano la roccia con i picconi sfidando le frane, lanciavano le «volate» col tritolo; le donne invece facevano le cernitrici massacrandosi le mani.
Un altro cappio al collo era il metodo Bedaux, il famoso «60 di passo», cioè trasportare un certo numero di carrelli, scavare un preciso numero di metri, e se l’operaio non ci riusciva era immediatamente licenziato. Ma il lavoro nel sottosuolo non è un lavoro paragonabile a nessun altro, infatti s’è creato per oltre un secolo tra quei cunicoli, nei pozzi, nelle gallerie, un legame ancestrale con le viscere della terra e un vincolo sociale fortissimo tra i lavoratori, lo stesso che ha alimentato per tanti decenni le società comunitarie e solidali dei paesi di questo territorio. Inoltre un fare identitario nelle tecniche manuali, sensoriali, poi l’appartenenza culturale a quella che è stata una delle classi operaie più forti d’Europa, ancora più rocciosa e longeva che quella britannica sconfitta dalla Thatcher nello storico UK miners’ strike del 1985.
Carbonia nascerà più tardi, e la sua miniera prenderà il nome da quello originario di Serbariu, un piccolo paese brutto e fangoso abitato da braccianti, lavoraterra e spaccapietra malnutriti e poveri. Lì, dopo un solo anno, sarà inaugurata il 18 dicembre 1939 la città del carbone voluta dal fascismo e simbolo dell’autarchia mussoliniana, quella funzionalista, razionale e autoritaria. La città a forma di B, con le casette destinate alle famiglie operaie, gli alloggi per i minatori scapoli, le villette dei dirigenti e la villa del direttore. Il Mascelluto, come lo definì Carlo Emilio Gadda, la inaugurerà in una piazza Roma gremita, pronunciando un discorso solenne, annunciando che «appare al nostro sguardo la nuova città che già ha 12 mila abitanti, e ne avrà 24 mila tra pochissimo tempo».
Arriveranno lì a cercare lavoro da tutto il Paese e si formerà la prima comunità multiregionale italiana e una società fatta solo di classe operaia, e già nel 1948 a Carbonia si contano 50 mila abitanti e 17.200 minatori.
[stextbox undefined’ bcolor=’1aab67′]IN TUTTO IL COMPRENSORIO PERSERO LA VITA PIÙ DI 350 MINATORI. IL SITO DI SERBARIU FU CHIUSO NEL 1971 E GLI IMPIANTI SUBIRONO UN DRASTICO DETERIORAMENTO.[/stextbox]
Ma il suo carbone è «sbagliato», perché ha un’alta percentuale di zolfo e trasportarlo in continente ha costi elevati. La più giovane città italiana e la sua miniera vivranno crisi cicliche, prima per i bombardamenti durante la Seconda grande guerra, poi per l’azione della neonata Comunità Europea che privilegiò i poli produttivi in Belgio, Germania e Francia, e negli anni Cinquanta quella più difficile. Il fotografo Federico Patellani, inviato del settimanale «Tempo», la ritrae con lucida impronta neorealista. Sembra un paese precipitato nella miseria, le baracche di legno con i tetti di latta ricordano Miracolo a Milano, per strada Patellani incontra mendicanti abbandonati. Ma i musi neri dell’Iglesiente, una classe operaia coesa e temprata da un lavoro durissimo, i figli e i nipoti di quelli che realizzarono lo sciopero di Buggerru del 1904 finito nel sangue, quello che provocò il primo sciopero nazionale italiano, difesero il lavoro in tutti i modi. Fino all’ultima occupazione durata tre mesi nella miniera di San Giovanni, quando i minatori portarono con loro nella parte più bassa quattro tonnellate di tritolo.
Dalla fine delle miniere si sviluppò all’inizio degli anni Settanta il polo dell’alluminio nell’area industriale di Portovesme, negli anni più recenti messo in ginocchio dai processi di globalizzazione.
Oggi Carbonia vive la sua crisi più difficile. Nella provincia più povera d’Europa sono oltre 30 mila i disoccupati, la disoccupazione giovanile sfiora l’ottanta percento, l’impoverimento sociale fortissimo ha sconvolto gli stili di vita. Nell’area industriale di Portovesme – uno dei 44 siti ad alto rischio ambientale – la dismissione ha provocato altro disagio con la chiusura dell’Alcoa, che ha delocalizzato in Arabia Saudita e in Islanda, abbandonando l’isola. Di quell’antica civiltà ed epica operaia restano la nostalgia, il museo e i monumentali scheletri arrugginiti degli ascensori da dove migliaia di minatori ogni giorno, e per quasi un secolo, sono scesi nel sottosuolo, inghiottiti dalla terra e dal buio. A fare quel lavoro sporco di cui parlava Orwell: «Così virtualmente necessario e insieme così lontano dalla nostra esperienza, così invisibile, per modo di dire, che siamo capaci di dimenticarlo come dimentichiamo il sangue che ci scorre nelle vene».
Il 3 novembre 2006 venne inaugurato il Cicc (Centro Italiano della cultura del carbone). È il museo più importante d’Italia sul tema, sorto sulle ceneri della miniera di Serbariu (nel Sulcis).
Graphic Fabio Delvò.