ERVING GOFFMAN E LA FOTOGRAFIA:

UNO STRUMENTO DI RAPPRESENTAZIONE DELLA REALTÀ

Secondo il sociologo statunitense Erving Goffman, una delle caratteristiche delle fotografie è permettere una combinazione fra “rituale” e “reliquia” piuttosto particolare. Utilizzando una fotografia, l’individuo ha l’opportunità di cogliere se stesso in un momento in cui, secondo il suo punto di vista, si trova nella situazione “ideale”, assieme ad altre persone socialmente desiderabili, vestito in modo da mostrare il meglio di sé, magari mentre porta a termine un impegno socialmente rilevante in cui ha investito tempo, energie e probabilmente anche denaro.

Un patto col diavolo

Un momento, in breve, quand’egli è socialmente al suo massimo splendore e quindi pronto ad accettare la sua esteriorità come tipizzazione di se stesso. Ciò che viene scattato è accessibile permanentemente, divenendo qualcosa a cui si può assistere ovunque e soprattutto con chiunque, per qualunque durata di tempo e in ogni momento in cui uno lo desideri. Un modesto patto col diavolo, secondo Goffman: l’individuo può spostare i danni del tempo dalle sue trionfanti apparenze a quelle attuali, con il solo costo di aver leggermente viziato il coinvolgimento nelle scene rappresentate nello scatto. Le fotografie, secondo Erving Goffman, possono quindi essere suddivise in due macro-classi di appartenenza: pubbliche e private. Le fotografie private sono progettate per la visualizzazione all’interno dell’intimo circolo sociale delle persone che sono state ritratte (ricorrendo oppure no ad un fotografo professionale) al fine di commemorare occasioni, relazioni, risultati e punti di svolta, di tipo sia familiare, sia organizzativo. Le fotografie pubbliche sono invece progettate per catturare un pubblico  più ampio, ovvero un aggregato semi anonimo di individui legati l’uno all’altro da relazioni o semplici interazioni sociali.

Quando la realtà rappresentata non è la vera realtà?

Una caratteristica delle situazioni sociali o, per lo meno, della maggior parte di esse, è che i partecipanti sono obbligati a mantenere una certa apparenza di coinvolgimento nelle questioni di una data sede, qualora non desiderino limitarsi ad un “inutile” (per sé e per gli altri) ruolo da gregario. La prova del coinvolgimento, in una fotografia ed anche nella realtà, verrà dalla direzione e dalla mobilità dello sguardo, così come dall’allineamento di testa e busto, essendo questi di solito orientati nello stesso verso nel caso in cui l’individuo non desideri sfuggire agli obblighi che il contesto richiede in quel momento. Secondo Goffman, di tutte le apparenze obbligatorie stabilite dalle norme sociali di una data società, quella del coinvolgimento è la più difficile da simulare e ciò per la sua essenza: anche se la maggior parte degli individui acquisiscono la capacità di fingere in modo convincente una dimostrazione di interesse in ciò che si sta facendo, l’abilità vacilla nel momento in cui si richiede loro di simulare un coinvolgimento “naturale” all’interno di disposizioni sociali più complesse della stessa situazione. In tali momenti, probabilmente, l’individuo indurrà, in alcuni casi anche a propria insaputa, un senso di disagio negli spettatori, a causa dell’eccessiva falsità dello sguardo. È il caso in cui la realtà e la rappresentazione non trovano un punto di incontro nella performance dell’attore sociale.

La genesi della fotografia- il dagherrotipo

In principio fu la camera oscura, il dispositivo ottico composto da una scatola oscurata con un semplice foro posizionato al centro di un lato della scatola stessa, come obiettivo. Sul retro, poi, un piano di proiezione dell’immagine. La camera oscura rappresenta le fondamenta di quel palazzo chiamato fotografia, ed è precorritrice della fotocamera. È per questo motivo che ancora oggi gli apparecchi fotografici vengono chiamati ‘camere’. Ad interessarsi del fenomeno della camera oscura fu addirittura Aristotele nel IV secolo a.C. ma fu il francese Joseph Nicèphore Nièpce il primo ad applicarla in ambito fotografico all’inizio dell’Ottocento. Sarà che era agli albori della scoperta, sarà per via del suo nome impronunciabile, ma tutti quanti piuttosto che Nièpce associano l’invenzione della fotografia e il successivo sviluppo delle immagini al più famoso (e indubbiamente dal nome più armonioso) Louis Daguerre, inventore del dagherrotipo.

La fotografia come paradigma interpretativo della realtà

Andy Warhol con una Polaroid bianco e nero

Nelle situazioni reali, esternalizziamo le nostre circostanze ed intenzioni, facilitando l’adattamento da parte di coloro che ci circondano nel contesto che, in quel momento, stiamo abitando. Nelle fotografie, siano esse pubbliche o private, si può suggerire agli individui una relazione alquanto differente rispetto a ciò che mostrano. Ad esempio, un influencer che decide di farsi fotografare per fare della pubblicità ad uno o più brand, assumerà delle pose piuttosto precise, in uno spazio in grado di valorizzarle, volte a simulare una versione di specifici comportamenti, con l’unico obiettivo di mettere in risalto positivamente l’accessorio appartenente al marchio in questione.

Modelli e target femminili

Con ciò mima rozzamente una postura che deriva dalla comprensione che la società ha del suo ruolo e dall’idea che ha dei comportamenti di chi ricopre un certo tipo di status, rendendo momentaneamente i propri oggetti personali dei materiali drammaturgici e se stessi una pantomima di espressioni. È bene precisare che, come qualsiasi altro tipo di comprensione sociale, essa risente di un determinato contesto socio-culturale collocato temporalmente in una precisa epoca storica: ciò che potrebbe, ad oggi, essere di tendenza in Italia, ad esempio, potrebbe non esserlo in Australia o nella Gran Bretagna del 1200. Tali azioni sono quindi “semplici” rappresentazioni, del tutto staccate dalla sequenza in cui potrebbero avvenire nella realtà. Abbiamo così una registrazione fotografica di veri e propri emblemi, non di azioni. Le fotografie sono infatti definite da Erving Goffman come strumenti utilizzati per illustrare le pratiche e le disposizioni comportamentali degli attori sociali. Il tipo di pratiche che le fotografie possono illustrare meglio sono quelle fermamente codificate in base alla forma e possono essere rappresentate dall’inizio alla fine all’interno di un campo visuale ben circoscrivibile dall’obiettivo della macchina fotografica. Ovviamente, è probabile che ci si interessi delle pratiche comportamentali fotografabili perché di solito queste sono associate con particolari consensi sociali ed è dichiaratamente il veicolo di segno, non di significato, ad essere illustrato.

Giulia Marra

 

 

 

 

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Giulia Marra Laureata in Sociologia presso l’Università degli Studi Milano-Bicocca, prediligo tutti i temi che riguardano la fenomenologia.

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