Cinque anni separano Evelyn da quella brutta storia che ha visto coinvolte altre persone che ora si ritrovano in un albergo di Bassano. Quali ricordi li accomuna?

 

Evelyn Joyce

 

 

racconto

di

Sheena Murray

traduzione: Gilberto Pellicciotta.

 

 

Finalmente, arrivò settembre. 

In Italia, le giornate erano ancora calde e luminose, niente a che vedere con la mia Edimburgo, cupa anche d’estate. 

Preparai la valigia, di corsa, dopo il lavoro, e partii per Bassano. Non riuscivo ancora a capacitarmi della scelta, ma, non essendo stata io ad organizzare, decisi di adattarmi. In fondo, non volevo fare la parte di quella che si lamenta sempre: sarebbe stato scortese e poco elegante.

A causa di un guasto meccanico non arrivai a Treviso che alle 5 del mattino. Con mia sorpresa, trovai che fosse freddo ed eccessivamente umido. Anni di viaggi, però, mi avevano insegnato ad essere previdente e, non appena riuscii a prendere la valigia, tirai fuori un maglione di lana non troppo pesante. Quindi, aspettai fino alle sei che qualcuno aprisse il bar. Avevo davvero voglia di un cappuccino caldo ed una croccante brioche alla crema. Infine, condivisi con Emily, una passeggera con la quale avevo fatto amicizia, un taxi fino alla stazione dove presi il treno che mi avrebbe portata a destinazione.

Ero nervosa, durante il tragitto. Il treno era lento e sporco. La prima impressione era stata di un ammasso di vecchi ferri messi insieme, forse resti di altri treni, risalenti alla seconda guerra mondiale. L’idea di salirci non mi piaceva, ma avevo fatto una promessa ed ero quanto più decisa a mantenerla, a qualsiasi costo.

Trovai posto subito, nel secondo scompartimento del corridoio. Era completamente vuoto ed io, come d’abitudine, mi sedetti vicino al finestrino, nello stesso senso del macchinista. Negli ultimi cinque anni, infatti, avevo sviluppato una strana paura di viaggiare nel senso opposto, tanto che mi venivano nausea e vertigini. Era un problema non indifferente, per me. Eppure, gli altri, semplici passanti nella mia vita, si erano sempre mostrati genuinamente interessati alla mia salute e tanto premurosi da cedermi il posto.

Arrivai in albergo che era quasi mezzogiorno. In stazione, infatti, avevo deciso di incamminarmi a piedi senza pensare che ogni strada, ed ogni vicolo, mi avrebbero offerto vetrine piene di possibili acquisti. Ed allora, vittima delle tentazioni, mi ero addentrata in un paio di negozi. Di gioielli, e scarpe.

  

    «Buon giorno signora, mi chiamo Stefano», mi disse il receptionist dell’albergo. 
   «Buongiorno a lei», risposi sorridendo. Nonostante le fatiche di un viaggio eccessivamente lungo ero contenta di trovarmi esattamente dov’ero. «Dovrebbe esserci una prenotazione a mio nome, Evelyn Joyce».

    «Irlandese? Sono stato una volta in Irlanda, siamo così simili noi.»

   «Inglese, di Edimburgo. Vorrei le chiavi, per favore», lo interruppi prima che potesse continuare. Avevo sentito quella storia un altro centinaio di volte ed in quel momento ero troppo stanca per spiegare di essere figlia di una gallese trasferitasi a Edimburgo con la famiglia in tenera età e di un ricercatore irlandese. Inoltre, avrei dovuto continuare il racconto spiegando che i miei si erano conosciuti nella mensa dell’università, ma la prima impressione non era stata certo un colpo di fulmine perché mio padre non aveva prestato molta attenzione a mia madre e lei, dal canto suo, abituata com’era ad essere al centro del mondo, aveva giurato a se stessa che non gli avrebbe più rivolto la parola.

Non fece altre domande, Stefano. Ma, senza che glielo chiedessi, prese la mia valigia e mi accompagnò fino alla mia stanza, la numero 23, al terzo piano. 

Rimasta sola, mi sdraiai sul letto e mi addormentai. Aprii gli occhi tre ore più tardi, con lo stomaco che brontolava per la fame. Quindi, mi alzai, feci una doccia e mi vestii per uscire.

In reception trovai nuovamente Stefano che, dimentico dei modi bruschi con i quali lo avevo interrotto, mi suggerì un paio di luoghi nei quali lui ed i suoi amici andavano a “fare spuntino”. Scelsi un bar appena prima del ponte. Si trovava su una salita alquanto ripida e, per livellarla, era stata costruita una piccola terrazza di legno. Ordinai un panino e mi soffermai ad osservare un gruppo di ragazzi. Avranno avuto una ventina d’anni e sembravano felici come solo un giovane studente può essere. Lo ero stata anche io, dieci anni prima, quando avevo conosciuto Henry. Era tutto così diverso, ora. C’erano stati giorni in cui il dolore era così forte che pur di non essere vista, pur di non dovermi fermare a parlare, dare spiegazioni, intrattenere perfetti estranei, mi ero rinchiusa in casa. Erano quelli i giorni in cui avevo pensato che il mondo fosse pieno di persone poco intelligenti che quando ti vedono in difficoltà invece che lasciarti in pace, a sbollire la rabbia, a far calmare il dolore, si fermano vicino a te ed iniziano a parlare. E parlano, dicono, chiedono cose ovvie. E tu li guardi. I tuoi occhi sono pieni di dolore. Speri che se ne accorgano, che la smettano di tormentarti con la loro morbosa curiosità, o le prediche, e capiscano che in quei momenti hai bisogno di stare da sola perché vuoi solo sfogarti. E dimenticare. Tutto. 

    «Posso portarle altro, signora? Un caffè?» mi chiese il barista quando, mettendosi a sparecchiare il tavolo vicino, si accorse che avevo finito di mangiare.

    «Sì, gliene sarei davvero grata. Un cappuccino sarebbe perfetto.»

Attraverso i miei frequenti viaggi in Italia avevo imparato a parlare con un accento non troppo pronunciato e a sorseggiare cappuccino nei bar. A Londra, dove mi ero trasferita per seguire Henry, e dove ero rimasta per non lasciare la nostra casa, c’era l’abitudine di prendere un cappuccino al volo, in uno di quei pratici ma tristi bicchieri di cartone. In Italia, invece, era tutto diverso. Ti fermavi nel bar a sorseggiare cappuccini serviti in tazze di ceramica ed anche il sapore ti sembrava completamente diverso.

Quando uscii dal bar incontrai Emily. Mi disse di aver passato le ultime tre ore a farsi massaggiare, in una famosa spa locale. Sembrava felice, nonostante i capelli fossero unti ed appiccicosi.

    «Sai, mi hanno riempita di olio, ma non avevo pensato che ne sarei uscita così e non ho portato nulla per farmi una doccia.»

   «La stanchezza del viaggio», commentai per dimostrarle solidarietà. Immaginai il suo imbarazzo nel dover camminare per strada ridotta in quello stato. Ed incontrare me, una persona che, dopo tutto, non le era completamente estranea. Per me, sarebbe stato un vero incubo.

Ci salutammo e lasciai che corresse in albergo. Io, invece, mi incamminai per le strade di Bassano che costeggiavano il fiume lasciandomi guidare dal profumo dell’acqua, fino ad un punto in cui, davanti a me, c’erano persone sdraiate sui sassi. Prendevano il sole. Erano le cinque di un venerdì pomeriggio ancora troppo estivo per restarsene chiusi in casa, o in biblioteca. Ed anche io non avevo voglia di tornare subito in albergo, perché sapevo che sarei stata sola anche lì, in mezzo alla gente e questo mi rassicurava. C’era così tanta vita in quel luogo e quasi non riuscivo a resisterle. Allora rimasi là, seduta su una panchina che si affacciava su quella specie di spiaggia e per la prima volta dopo tanto tempo non pensai a niente.

Il telefono squillò alle sette meno un quarto, mentre l’ultimo gruppo di ragazzi si preparava per andarsene.

   «Evelyn, come stai? Sono Margareth, sono appena arrivata a Bassano. Come è stato il tuo viaggio? E l’albergo? Spero di aver fatto le scelte giuste. Gli altri arriveranno stanotte, o domattina presto. Hai già preso impegni per la cena?»

   «No, nessun impegno», risposi.

   «Perfetto. Ci vediamo alla reception tra una mezz’oretta, che ne dici?»

Avrei preferito godermi quel giorno di pace e silenzio, ma Margareth era sempre stata molto gentile con me. Inoltre, cenare con lei sarebbe stato un ottimo modo per tornare alla realtà e ricordare il motivo di quel viaggio quindi accettai di buon grado e mi incamminai verso l’albergo.

Quando arrivai, Stefano se ne era già andato da un pezzo. Al posto suo trovai una ragazza che, nonostante i denti storti, mi sorrise.

   «Lei deve essere la signorina Joyce», disse. 

   «Come fa a saperlo, non ci siamo mai incontrate», commentai stupita. 

   «Ah, Stefano. Prima l’ha descritta, poi ha aggiunto che nonostante il cognome era inglese e ha detto che avrei dovuto stare attenta.»

Arrossii per la vergogna. Forse, avevo dato l’impressione sbagliata e mi ero dimostrata scortese.

   «Ero solo molto stanca», mi giustificai. «Spero Stefano non si sia offeso.»

   «Ah no, lui no. Lui vuole che tutti i clienti si sentano accolti e non voleva io la annoiassi con le stesse domande.» Si interruppe, ma era chiaro avesse molto altro da dire.

   «Però io non capisco perché le dia fastidio. È forse parente dello scrittore, sì dai, quello che ho studiato a scuola. Come si chiama? Henry Joyce?»

Quando la donna pronunciò il suo nome mi irrigidii. Il suo nome, ed il mio cognome, insieme.

   «James Joyce», risposi. Ero riuscita un’altra volta a rispondere con freddezza. Questa volta però non sarei stata capace di rammaricarmene.

La salutai e corsi in camera dove cercai di calmarmi prima di incontrare Margareth dieci minuti più tardi.

Erano cinque anni che non la vedevo e la trovai diversa da come la ricordavo. C’erano fili d’argento tra i suoi capelli ed era diventata così magra che le ossa degli zigomi erano molto pronunciate.

   «Stai bene?» le chiesi senza riflettere.

   «Ho finito il terzo ciclo di chemio tre mesi fa e sono ancora un po’ spossata. Ma sto bene, non ho neanche perso i capelli come puoi vedere.» Sorrise.

   «Scusami Margareth, non lo sapevo e non pensavo…» Mi interruppi quando sentì la sua mano accarezzarmi la testa, come faceva mia nonna.

   «E’ la vita. E noi siamo qui per questo, ricordi?»

Aveva ragione. E l’unica cosa che mi rimase da fare fu lasciarmi guidare da lei.

 

La mattina seguente mi svegliai all’alba. Avevo dormito più e meglio del solito e pensai di fare colazione e controllare la posta prima di iniziare la riunione. Sarebbe stata una giornata speciale. Ritrovarsi, dopo cinque anni, in un luogo completamente diverso e, questa volta, per scelta. Una scelta diversa, e consapevole. Il pensiero mi fece sentire sollevata. Non ci sarebbero state inaspettate sorprese con le quali doversi confrontare e, questa volta, non ci sarebbero stati perfetti estranei davanti a noi. Ci eravamo già incontrati. E c’era stato uno scambio, seppur poco frequente e poco personale, di email. Quindi, conoscevo le persone che si sarebbero riunite insieme a me in quella stanza. Sapevo i loro nomi, e qualcosa di loro.

Scesi nella hall. Stefano mi accolse con un sorriso.

   «Buongiorno», disse.

   «Se l’è presa per ieri, mi dispiace. Non era mia intenzione. Ma vorrei che questo viaggio fosse sereno, tre giorni di quella pace di cui non ho che vaghi ricordi.»

   «Lavora troppo?»

   «Anche. Con la testa, non smetto mai.»

   «Lo avevo immaginato, dalla prima volta che l’ho vista. Osservo molto le persone che passano da quella porta, è utile per capire come vogliono essere trattati.»

   «Uno stratega, insomma.»

Per un attimo, mi guardò immobile. Credo di avergli sorriso, involontariamente, perché lui in quel momento ricominciò a parlare.

   «No, niente di innaturale ho studiato. Questo albergo è della mia famiglia da ormai tre generazioni e l’unica cosa che mi sia mai stata spiegata su questo lavoro è che ogni cliente è un amico col morale a terra che vuole essere consolato», disse.

   «Amico?»

   «Sì, quando un tuo amico è giù di morale cerchi di distrarlo. Cerchi di fare il simpatico, per farlo ridere, anche solo per la tua stupidità. E parli con lui, perché vuoi ricordargli le cose belle che ci sono nel mondo e che lui non riesce a vedere. Infine, resti con lui, anche quando ti chiede di lasciarlo solo. Perché la solitudine è una gran bella cosa, quando ti aiuta a conoscerti e riflettere, ma quando serve a riempirti la testa di pensieri cupi allora no, meglio evitarla.»

Le parole di Stefano mi apparvero come fari in una notte buia. A tutto quello, io, non avevo mai pensato. Mi ero lasciata innervosire da tutte le persone che cercavano di riempire il mio silenzio senza prendere neanche in considerazione l’eventualità che non fosse un modo scortese per starmi appiccicati, ma una cura, seppur dolorosa, ad un dolore più grande. 

   «E per cosa devo essere consolata io?» Feci quella domanda sicura che non sapesse nulla di me e, devo ammettere, spinta dalla curiosità.

   «Consolata per non essere mai stata a Bassano prima d’ora. Un vero spreco», sorrise.

   «Come fa a sapere che è la mia prima volta?»

  «In effetti non ne ero molto sicuro, perché riesce a comunicare senza consultare guide o dizionari. Però ieri le ho consigliato dove andare a mangiare, e se visiti Bassano una volta, poi non la dimentichi.»

   «Credo abbia ragione. Anche perché ieri sono riuscita a spendere un sacco di soldi. Ci sono così tante cose belle nei vostri negozi.»

   «Già, le scarpe… ma se vuole comprarne altre me lo dica: un mio amico ha un negozio in centro e se ci va a nome mio le fa sicuramente uno sconto.»

Rimasi a guardare quel ragazzone alto dagli occhi chiari. Aveva notato le buste dei negozi che avevo visitato il giorno prima, si era accorto di quel particolare al quale neanche Henry aveva mai fatto caso. Per questo, provai un forte senso di gratitudine. 

   «Più tardi passerò a trovarla, e mi darà il nome di tutti i suoi amici che abbiano qualcosa di interessante da visitare.»

Poi, me ne andai nella sala in cui alcuni clienti dell’albergo avevano già iniziato a mangiare. Mi feci portare un cappuccino, una brioche e del succo d’arancia e là, in quella grande stanza luminosa, iniziai a scrivere email.

Margareth mi mandò un messaggio un’ora più tardi per ricordarmi che ci saremmo riuniti nella sala grande alle nove.

 

Quando arrivai, gli altri erano quasi tutti seduti. Li guardai cercando di non fissare nessuno. Ma la tentazione era forte perché non riuscivo a ricordare i volti della maggior parte di loro. Ci eravamo incontrati, di questo ero certa. Ed avevamo parlato, condiviso qualcosa di profondo. Eppure, mi sentivo a disagio. Non ebbi il coraggio di allungare la mano e presentarmi, o ricordare loro chi fossi, perché la sensazione che avevo addosso era strana, come fosse stata la mia prima volta. Ero io l’unica del gruppo a non ricordare gli altri? Mi pervase un senso di inadeguatezza. Dovevo ricordare quei volti. Dovevo recuperare nella mia memoria i nomi e le storie degli altri. Eppure, nella mia mente non c’era niente.

Il silenzio della stanza mi provocò un dolore lancinante alla testa e provai l’impulso di andarmene, scappare da lì. Mi alzai, di scatto. Tutti si voltarono a guardarmi. Allora, cercai di farmi coraggio ed inventai di dover fare una veloce telefonata prima dell’inizio.
Uscii che respiravo quasi a fatica.

   «Dimenticato qualcosa?» mi sentii chiedere.

   «Volevo controllare i messaggi della segreteria», risposi imbarazzata.

   «Troppo lavoro, avevo ragione.»

Stefano alzò gli occhi al cielo, divertito, e proseguì verso il lato opposto del lungo corridoio. Io, invece, rientrai nella stanza decisa a fare tutto quello che mi sarebbe stato chiesto, per rispetto e gratitudine verso Margareth.

   «Allora, adesso che ci siamo finalmente tutti, direi di iniziare. Spero le sistemazioni siano di vostro gradimento.»

   «Sì, ho una bella stanza», commentò un uomo sulla sessantina vestito in maniera fin troppo elegante.

   «Ne sono felice Fred», gli rispose Margareth. Lei ci conosceva tutti. Ricordava i nostri nomi e le nostre storie. Lei che aveva cercato di organizzare quel viaggio nel migliore dei modi e non si era probabilmente resa conto di alcune difficoltà pratiche alle quali ci aveva sottoposti.

   «Ci sono tante cose delle quali dobbiamo parlare, e spero di riuscire a toccarle tutte entro la fine di questa giornata. La prima, però, riguarda Keith Higgins.»

Il nome mi suonò familiare: non riuscii a ricordare il viso dell’uomo, ma sapevo di avergli stretto la mano e di aver partecipato al funerale di suo figlio Benjamin. 

   «Keith oggi non è qui con noi perché Toby ha avuto un incidente stradale ed è in ospedale. State tranquilli, mi ha assicurato che la situazione non è grave come sembra perché non è in pericolo di vita. Però credo che abbiano bisogno di aiuto. Toby dovrà stare fermo per almeno tre mesi: hanno dovuto amputargli una gamba e ci vuole tempo per imparare a camminare con una sola e far cicatrizzare il taglio. Quindi, non potrà lavorare. Inoltre, vorrebbero acquistare una protesi ma non credo lo faranno perché con tre bambini piccoli non si è mai abbastanza previdenti nel risparmiare i soldi.»

Mi grattai la guancia cercando di ricordare chi fosse Toby, ma non ne fui capace.

   «È difficile, per un genitore, seppellire un figlio e dover affrontare la malattia di un altro», commentò Mary Malone. Lo sapeva bene, lei, che aveva esperienza di entrambe le situazioni, anche se in ordine inverso.

   «Credo dovremmo raccogliere un po’ di soldi per aiutare questa famiglia ad affrontare un altro momento difficile.» Anche in quell’occasione, Margareth dimostrò di avere un grande cuore.

   «Inoltre, se conoscete qualche studente che stia cercando un lavoro, questa potrebbe essere l’occasione per aiutarli tutti perché di solito è Toby che si occupa delle consegne e del magazzino.»

   «Forse il mio vicino di casa», suggerii. Adam era un ragazzone alto e muscoloso che frequentava il secondo anno alla Birbeck. Era simpatico, e molto educato, ma fumava una decina di sigarette al giorno. Un’abitudine normale, tra i ragazzi della sua età. Suo padre, però, un medico molto stimato, l’aveva presa davvero male. I primi tempi aveva cercato di convincere il figlio a smettere. Poi, rendendosi conto di non essere in grado di farlo, aveva smesso di finanziarlo. Ed Adam, con maturità e fermezza, si era trovato un lavoro.

   «Grazie Evelyn, manderemo a Keith un messaggio più tardi.»

Quando terminammo di parlare di Keith l’atmosfera tornò ad essere esattamente come era stata all’inizio della mattinata e ci accorgemmo tutti di essere molto imbarazzati. 
  

   «Non voglio sembrarti scortese, né ingrata», disse infine una donna alta e molto magra dai lunghi capelli biondi. «Sono venuta qui perché me lo hai chiesto e credevo mi sarei sentita diversa da così. Ma io non ricordo nessuna di queste persone. E me ne vergogno perché sono sicura di averli incontrati tante volte prima di oggi. Abbiamo partecipato a tutti i funerali di quel periodo. Ed abbiamo portato cibo ogni volta. Ma io non ricordo altro. Quindi mi scuso, con tutti voi, ma per me non ha senso continuare.»

La donna si alzò e prese la borsa.

   «Aspetta Laura, ti prego», la fermò Margareth. «Facciamo una pausa, tutti. Andiamo a prendere un caffè, o qualcosa da mangiare, e ritroviamoci qui all’una, come era stato deciso di fare.»

A quelle parole ci guardammo tutti negli occhi. Era chiaro che Laura non fosse l’unica a provare quelle sensazioni, ma era altrettanto chiaro che nessuno di noi volesse ferire Margareth.

   «Va bene, se per te è così importante lo faremo», rispose infine Fred.

Ci allontanammo tutti dalla stanza in ordine, come soldati che si allontanano dal proprio reggimento. 

I raggi del sole entravano dalle finestre e la hall sembrava più bella di come la ricordassi.

   «Siete in pausa?» chiese Stefano quando mi vide.

   «Non proprio», risposi. «Credo venire qui sia stata una stupidaggine, per ciascuno di noi. Ma lo abbiamo fatto per fare contenta Margareth.»

   «Chi fra voi è l’amico da consolare questa volta?» L’uomo sistemò i cuscini di una delle poltrone alla sua destra. «Forse, se superaste l’imbarazzo del momento capireste perché siete qui.»

   «E tu cosa ne sai?» Senza volerlo, avevo iniziato a dargli del ‘tu’.

   «Conosco Margareth da quando ero bambino. La prima volta, venne qui con suo marito Brian. Era appena morto suo padre e lui, per combattere la tristezza, aveva deciso di organizzare un viaggio che glielo ricordasse. Suo padre era un medico ed aveva fatto la guerra.»

   «Aveva combattuto qui?»

   «No, ma in Italia. Brian ricordò di un libro che gli aveva fatto leggere da piccolo, uno di Hemingway. Fatto sta che scoprì dell’esistenza di Bassano per caso e scelse di trascorrere qui qualche giorno perché le iniziali erano le stesse del nome di suo padre.»

   «Bassano?»

   «Bassano del Grappa. Suo padre si chiamava George Beedy.»

   «E che legame c’è con noi, sai dirmi anche questo?» chiesi stupita.

  «Credo questo sia un modo tutto personale di Margareth di ricordare Brian. Le persone imparano ad adattarsi a qualsiasi cosa, anche la perdita del grande amore. Ma questo non vuol dire che dimentichino.»

C’era tanta saggezza nelle parole di Stefano, così tanta che a guardarlo ora mi sembrò molto più vecchio della sua età. Aveva ragione lui, su tutto. Ma ero ancora troppo chiusa nel mio dolore per accorgermi di quello altrui. Eppure, dal momento in cui Stefano mi aveva aperto gli occhi, ricordai tutto, anche i nomi di tutte le persone con le quali avevo condiviso la sala riunioni dell’albergo. Ognuno di loro aveva una storia della quale facevo parte anche io. Perché l’attentato aveva infranto i sogni di ciascuno di noi, ed aveva interrotto la quotidianità delle nostre vite per riempirle di dolore.

Laura, per esempio, la prima persona che incontrai davanti alla stazione della metropolitana. Ricordai di averla sentita piangere e di essermi avvicinata a lei per offrirle un fazzoletto col quale asciugarsi le lacrime. Poi, avevamo iniziato a parlare, di tutto, e di niente, mentre aspettavamo che un poliziotto, uno qualunque, ci dicesse in quale ospedale fossero ricoverati i nostri cari. Non ricordavo più quante ore avessimo passato insieme quel giorno, ma d’improvviso, sentii la stessa sensazione che avevo provato quando un poliziotto si avvicinò a lei e le disse che sua sorella Grace non avrebbe mai raggiunto l’ospedale.

   «Come fa a sapere che si tratta di lei? Dovrei vederla, riconoscerla, come si fa nei film. E voi potreste aver sbagliato persona, succede», aveva risposto con foga. 

   «No, non ci sono dubbi. Le abbiamo trovato al polso un braccialetto d’oro con il suo nome. E stringeva la borsa fra le mani. Mi dispiace signora.»

   «Grace non c’è più. Però il braccialetto che le ha regalato la nonna lo indossa ancora, come se lui si fosse rifiutato di soccombere all’urto dei treni.» Poi, era scoppiata a piangere tra le mie braccia. Per lei, ero stata una perfetta estranea fino a quel momento, fino al momento in cui un terrorista aveva fatto esplodere il treno sul quale viaggiava sua sorella e mi aveva trasformata nell’unica in grado di capire quel dolore.

   «Non posso aiutarti», ricordai di averle detto. Parole, parole piene di buoni sentimenti e conforto che però lei non poteva capire, né accettare. Ricordai di aver pensato mille volte a quel giorno, a quelle mie parole. Era quello il motivo per il quale non mi ero più fatta viva con Grace, nonostante le mille promesse. Perché mentre lei piangeva sua sorella io mi sentivo sollevata all’idea che nessuno fosse venuto a dirmi le stesse cose di Henry. 

   «Deve essere ancora vivo», avevo pensato. Nella mia testa, avevo continuato ad immaginare il momento in cui un poliziotto, un altro, uno diverso, sorridente, si sarebbe avvicinato a me e mi avrebbe detto di raggiungere Henry, forse al Queen’s Hospital. Ed allora mi sarei dimenticata di lei, mi sarei congedata frettolosamente e sarei corsa dal mio Henry e mi sarei lamentata delle ore di attesa, e del mal di piedi a causa delle scarpe nuove e dello spettacolo di tutta quella gente straziata dal dolore. Ma io no, io non ne avrei fatto parte perché Henry stava bene.

Margareth la incontrai poco dopo. Era una donna robusta, a quei tempi, vestita con colori sgargianti e con i capelli molto arruffati. Avevo sorriso della sua eccentricità.

   «Ha visto un uomo non molto alto, di bell’aspetto, con una giacca blu a scacchi e la camicia verde prato?»

   «No signora, mi dispiace. Stiamo tutti aspettando che uno dei poliziotti ci comunichi in che ospedale trovare i nostri cari. Se cerca suo marito chieda a loro», ricordo di averle suggerito. La osservai camminare lentamente verso i poliziotti che le avevo indicato. Si era fermata a parlare con loro per qualche minuto ed era infine venuta a sedersi vicino a me, sul marciapiede.

   «Non sanno ancora nulla?»

   «No, dicono che ci voglia tempo, ma a me sembra di aver passato qui tutta la vita», aveva sospirato. «Comunque io mi chiamo Margareth», aggiunse porgendomi il suo biglietto da visita gesto che, in quel momento, avevo trovato poco appropriato. Eppure, per non sembrare scortese, avevo fatto esattamente la stessa cosa: mi ero presentata e le avevo consegnato il mio biglietto da visita.

Due giorni più tardi ricordo di aver ricevuto un’email. Scrisse a me e ad altre cinquanta persone. Aveva raccolto tutti i biglietti da visita che le erano stati dati e ci invitava tutti al funerale di suo marito «perché ognuno di noi ha perso qualcosa e nessuno può capirci così bene».

Iniziò così il nostro gruppo di supporto, se questo è il modo giusto di definirlo. Ognuno di noi partecipò ad ogni funerale. Alcuni si presentavano con dei fiori ma la maggior parte di noi preferiva cucinare qualcosa, affinché chi resta non dimentichi sé stesso.

Ora, ricordavo le crostate alla fragola della signora Malone. Ne avevo mangiata una fetta poco prima di addormentarmi il giorno del funerale di Henry. Mi ero stesa sul letto ed avevo chiuso gli occhi.

 

Uscii dall’albergo e mi incamminai verso il punto in cui, il giorno prima, avevo visto dei ragazzi che prendevano il sole. Decisi che mi sarei seduta sui sassi, come loro, ed avrei cercato di rilassarmi e non pensare. Arrivata lì, però, trovai Margareth che scriveva qualcosa.

   «Ciao», le dissi.

   «Anche tu non ricordi nessuno di loro, vero? L’ho capito quando ti sei alzata per telefonare, questa mattina.»

   «Credo di aver voluto dimenticare. Forse non c’è abbastanza spazio nella mia testa per tutti quei ricordi, anzi, per i ricordi di quel lunghissimo giorno.»

   «Lo immaginavo. Ma quello che ci accomuna ora non è l’aver perso qualcuno che amavamo in un tragico incidente. Ora è diverso. Siamo come ombre della vita che eravamo, ed ho pensato che avrebbe fatto bene a ciascuno di noi parlarne, lontano da tutto.»

   «Non ho mai dubitato delle tue intenzioni, ma non capisco il senso di tutto questo. Sono arrivata qui che ero già stanca. Il viaggio è stato quanto di più snervante possa esserci. Ed avevo grandi aspettative per questo incontro, e questo luogo, ma che senso ha starsene chiusi in una grande sala a parlare con e a perfetti estranei di problemi personali, passati e presenti?»

   «Da quando Brian se ne è andato sono la peggiore delle mie nemiche. A volte ho persino desiderato di non averlo mai incontrato perché quando non c’era io stavo bene, ero felice.»

   «Non lo pensi sul serio», commentai.

   «Ti sbagli. Ma so che se lui mi vedesse ora scapperebbe senza indugio perché la persona che sono non è la stessa che amava lui. E non credo esista un modo per sostituirlo, ma ora, dopo cinque anni, mi domando se sia questo il modo giusto per onorare la sua memoria.»

A quella frase non risposi. Mi soffermai invece ad osservare un’anatra che nuotava tranquilla poco distante da me.

Tornammo in albergo poco prima dell’una. Stefano ci accolse con il solito sorriso e la notizia che alcuni membri del gruppo avevano deciso di non tornare alla riunione.

   «Me ne rammarico», si limitò a commentare Margareth.

Entrammo nella sala riunioni che, nonostante l’ora, sembrava più cupa di quanto la ricordassi. Qualcuno aveva tirato le tende ed io decisi di aprirle nuovamente e lasciare

che il sole partecipasse all’incontro.

All’una e dieci, fu chiaro che cinque sedie sarebbero rimaste vuote. Margareth le osservò rammaricata.

   «Mi scuso con tutti i presenti, non era mia intenzione costringervi a sopportare tutto questo», disse quasi avesse deciso di congedarsi. «Avevo le migliori intenzioni, ma ho sbagliato tutto il resto.»

In quel momento, mi vennero in mente le parole di Stefano: fino a quel giorno non avrei descritto Margareth come una mia amica ma, pensai, non lo sarebbe mai diventata se le avessi permesso di finire il discorso.

   «Infatti», la interruppi, «credo tu abbia sbagliato un paio di cose. Ma il viaggio non è poi stato così brutto: era lungo a sufficienza per darmi la possibilità di riflettere e riposare. E questo posto è strano: ieri un gruppo di ragazzi intonava cori di montagna sul ponte. Ora, però, siamo qui, dove abbiamo scelto di essere e sarebbe un peccato sprecare questa opportunità.» Mi fermai, giusto il tempo di riprendere fiato ed aggiunsi «Io sono Evelyn, Evelyn Joyce e se qualcuno di voi ha tempo vorrei raccontarvi la storia del mio cognome.»

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