Nel 1997 Thomas Hoving, ex direttore del Metropolitan di New York dichiarò che il 40% delle opere all’interno del museo erano false

FAKE NEWS O FALSI D’AUTORE?


Nel 1997 Thomas Hoving, ex direttore del Metropolitan di New York dichiarò che il 40% delle opere all’interno del museo erano false. Una dichiarazione alquanto sensazionale se si pensa che al Met, uno dei musei più importanti al mondo, sono contenute oltre due milioni di opere d’arte.

Vent’anni più tardi Harry Bellet, critico di Le Monde ed esperto di falsari, riferendosi a quella clamorosa dichiarazione disse: “Pensammo fosse un’esagerazione tipicamente americana, di fatto oggi ci si domanda se la cifra non sia inferiore alla verità”.

Addirittura, si pensa che nei musei nati più recentemente in Cina o negli Emirati Arabi la percentuale fasulla, “fake” se vogliamo usare un termine di tendenza, è destinata ad essere decisamente più alta; una prospettiva che Bellet ritiene “terrificante” e che unita alla crescente moda delle mostre virtuali, tra l’altro molto sponsorizzate in tempi di quarantena, renderà difficile nel giro di qualche anno parlare ancora di autenticità.

Non sono certo un esperto di arte e non ho alcuna competenza per analizzare o scrivere di questo fenomeno, ma non posso nascondere di averlo trovato comunque piuttosto inquietante, uno spaccato che segue perfettamente una tendenza riscontrabile purtroppo in qualsiasi ambito.

Che il nostro sia soprattutto il mondo delle false apparenze e delle finzioni ormai non è più una novità e anche chi millanta di essere vero e genuino in realtà non può ritenersi totalmente immune dalle maschere e dagli schemi stabiliti da questa società. Quindi, a meno che non si decida di seguire le orme del protagonista anticonvenzionale di Captain Fantastic che, galvanizzato dalle teorie anarchiche di Noam Chomsky, fugge dall’ipocrisia contemporanea per creare il proprio mondo isolato in cui far crescere i propri figli, non possiamo far altro che esserne parte.

Captain Fantastic

«Ben vive con la moglie e i sei figli, isolato dal mondo nelle foreste del Pacifico nord-occidentale. Cerca di crescere i suoi figli nel migliore dei modi, infondendo in essi una connessione primordiale con la natura. Quando una tragedia colpisce la famiglia, Ben è costretto suo malgrado a lasciare la vita che si era creato, per affrontare il mondo reale, fatto di pericoli ed emozioni che i suoi figli non conoscono.

Dopotutto anche nel suo apparente idillio, l’utopia di un’esistenza perfetta viene ben presto sconvolta dal ritorno al mondo reale, dal quale non possiamo evadere. Ma neanche rinunciare alla speranza di poterlo cambiare.

Il punto è che se accettiamo tutta questa artificialità decadente, non dobbiamo poi scandalizzarci davanti alla quantità di bugie e controbugie che ci girano intorno perché l’unica vera arma siamo noi con la nostra capacità di capirle, di schivarle e non diffonderle.

   «Ma il problema principale, che arriva da molto prima della nascita della rete, è la crisi della verità.

E la stessa lotta alle fake news è purtroppo parte integrante di questo problema poiché presuppone che chi la promuove sia anche portatore della verità assoluta, tracciando così il confine tra il vero e il falso, separando l’affidabile dall’inaffidabile, una linea di demarcazione che la storia ci insegna sia destinata a spostarsi in continuazione a seconda delle necessità politiche, ideologiche ed economiche del momento.

Il reporter premio Pulitzer Ben Bagdikian nel suo libro The Media Monopoly del 1983 denunciava il fatto che 50 grandi aziende controllavano la maggior parte di ciò che la gente leggeva e vedeva, mettendo in guardia sui rischi futuri per la libertà di espressione e il giornalismo indipendente. Allora venne considerato allarmista dal mainstream.

Illustratore: Sébastien Thibault

Nell’ultima edizione del suo libro nel 2000 il dato fu aggiornato in quanto le aziende erano diminuite a cinque.

Alla luce di questo crescente monopolio dell’informazione e se teniamo ben presente il filo diretto che da sempre collega la politica con l’opinione pubblica, risulta piuttosto ovvio dedurre quale sarà il campo di battaglia di questa caccia alle streghe e soprattutto a cosa ci porterà. Sarebbe il definitivo tramonto del pensiero critico, della necessità di essere scettici e la conseguente affermazione di un’allarmante pigrizia intellettuale di cui già vediamo i sintomi come ricettori passivi.

Dopotutto già molti Stati si stanno da tempo muovendo creando commissioni e promulgando leggi contro l’incitamento all’odio e le notizie false, ma siamo così sicuri che con la scusa di nobili finalità non si sconfini nella censura travestita? La Storia non dovrebbe servirci da insegnamento?

E così, mentre i Governi sulla base di ambigui principi prestabiliti si accordano con i principali social network per implementare il controllo, mentre associazioni di scienziati diffidano altri colleghi per aver messo in discussione le versioni ufficiali magari anche solo per aprire un legittimo dibattito, insomma mentre tutta questa task force è operativa, ogni giorno decine di profili di giornalisti e opinionisti indipendenti vengono oscurati.

Ne è un esempio la professoressa e sociologa Nia Guaita, esperta di conflitti internazionali, che documentando il vero volto delle guerre in Yemen e delle rivolte in Turchia, si è vista più volte chiudere la propria pagina facebook fino a decidere di abbandonarla definitivamente.

«Nessuno dubita che in rete circoli una grande quantità di bufale, ma pensiamo veramente che un algoritmo ci salverà dalle menzogne? E soprattutto, chi decide i parametri di questo algoritmo?

Forse le stesse istituzioni che ci raccontano una sola versione delle guerre, che trasformano alleati in dittatori e viceversa, che consegnano il Nobel per la Pace a Obama responsabile di sette guerre e incalcolabili vite umane, o forse i colossi informatici che censurano parole chiavi dei motori di ricerca in alcuni paesi come la Cina dove la tragedia di Tienanmen ufficialmente non è mai esistita?

Illustratore: Sébastien Thibault

Ricordo ancora i servizi strappalacrime dei telegiornali che denunciavano Assad per l’uso di armi chimiche, la morte di migliaia di bambini e la campagna mediatica di Saviano & Co con le mani sulla bocca. Bene, era una fake news. Smentita ufficialmente anche dall’Opac, ma in quel momento esprimere anche un solo dubbio significava essere maligno e complottista.

E sorvoliamo sul fatto che nessuno di quei media ci ha tenuto a informarci che non fosse vero.

   «Socrate sosteneva che il male è generato dall’ignoranza. Se si vuole davvero combattere e soprattutto riconoscere il falso, l’unica soluzione è l’istruzione e la cultura; guarda caso due settori con sempre meno risorse economiche a disposizione.

Daphne Caruana Galizia. Un omicidio di Stato

E così mi domando dove si collocherebbero oggi i grandi giornalisti della nostra storia come lo stesso Bagdikian, come Oriana Fallaci quando raccontava senza filtri la guerra in Vietnam, come Mino Pecorelli che per le sue inchieste scomode fu ucciso durante gli anni di piombo o come la più recente giornalista maltese Daphne Caruana Galizia assassinata nel 2017. Mentre lottavano per la verità, prendevano posizioni scomode che non coincidevano con le versioni ufficiali dei fatti che stavano indagando. Ognuno di loro oggi sarebbe considerato cospirazionista e complottista.

«In conclusione, se decidete di supportare la lotta alle fake news, ricordatevi che in quel 10% scarso di libertà di espressione che ci resta non ci sono solo i bufalari, i terrapiattisti e i malati compulsivi da condivisione social, ma dimora anche la reazione all’opinione prefabbricata, alla credibilità perduta di buona parte del giornalismo assuefatto dal sistema del politicamente corretto.

Altrimenti, una volta terminata la stagione di caccia, non rimarranno altro che i falsi d’autore. Ma non quelli del Metropolitan. Quelli dell’informazione.

Mario Percudani

 

 

 

Aprile 5, 2020

 

 

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